lunedì 28 settembre 2015
L'ISOLA FERDINANDEA
Tra la Sicilia e l’Africa settentrionale, il Mediterraneo centrale è caratterizzato dall’allineamento dei bacini subsidenti di Pantelleria, Linosa e Malta che, nel loro insieme, sono organizzati a formare il Canale di Sicilia. Il canale è il prodotto della collisione tra l’Africa e l’Europa, la quale è ancora in atto e si esercita lungo traiettorie circa nord-sud. In questo contesto, il canale è controllato da due sistemi principali di faglie, orientati rispettivamente NW-SE e circa nord-sud. Le discontinuità che individuano e bordano i bacini sono sede di subsidenze veramente importanti, che superano 3.000 m nella fossa di Linosa.
A partire da circa 8 milioni di anni fa, nel canale ha preso posto un vulcanesimo toleiitico e alcalino, che ha creato le due isole vulcaniche di Pantelleria e Linosa ed un numero elevato di apparati sottomarini, molti dei quali ancora sconosciuti. Il vulcanesimo è ancora attivo e le eruzioni storiche sono tutte sottomarine; per alcune di esse abbiamo solo indicazioni vaghe, altre sono state segnalate ma mai controllate; possediamo notizie certe solo delle due attività che hanno portato alla formazione delle isole effimere di Ferdinandea (1831) e Foerstner (1891), quest’ultima 4-5 km a NW delle coste dell’Isola di Pantelleria.
La nascita dell’Isola Ferdinandea fu annunciata, tra il 22 ed il 26 giugno del 1831, da terremoti avvertiti fino a Marsala, Trapani, Palermo e che a Sciacca causarono lesioni alle abitazioni e caduta di calcinacci. Poi in successione, il 28 giugno il capitano C.H. Swinburne della marina inglese segnalò di aver «visto un fuoco in lontananza in mezzo al mare»; il 2 luglio l’acqua ribolliva alla Secca del Corallo (oggi Banco Graham), dove alcuni marinai, che raccoglievano il pesce ucciso dalle attività vulcaniche, svennero nelle loro barche a causa delle esalazioni; il 5 luglio forti scosse sismiche furono sentite fino a Marsala; infine, il 7 luglio 1831, F. Trefiletti, comandante del Gustavo, vede per primo l’isola, 33 miglia a sud-ovest da Sciacca, alta 30 palmi sul pelo del mare, che «sputa cenere e lapilli».
Di notte l’attività era ben visibile da Sciacca, Menfi, Mazzara e Marsala. L’eruzione, ormai subaerea, costruì un’isola, il cui colore dominante era il nero e che risulterà alla fine alta 60 m, larga poco meno di 300 e con un perimetro di quasi 1 km. Le attività eruttive interagirono per tutto il tempo con il mare e il cratere, rotondeggiante e largo poco meno di 30 m, fu sempre invaso dall’acqua, che si abbassava e s’innalzava nel condotto e, traboccando, formava un fangoso ruscello che scendeva fino al mare e lo intorbidiva. Tutto l’edificio era saturo d’acqua. Sui pendii del cono, a 25 m dalla riva, furono descritti due laghetti, il più basso pieno di acque giallo-solfuree, il secondo di acque giallo-rossastre, che ribollivano gorgogliando; probabilmente erano crateri secondari, perché durante l’eruzione furono segnalate fino a tre alte colonne di fuoco che s’innalzavano contemporaneamente.
Il governo borbonico, intanto, aveva inviato sul posto il fisico Domenico Scinà, il quale compilò una relazione intitolata Breve ragguaglio al novello vulcano apparso nel mare di Sciacca. Il professor Carlo Gemmellaro, docente di Storia Naturale presso l'Università degli Studi di Catania, provvide invece a stilare una relazione circostanziata che suscitò l'interesse di molti illustri uomini di cultura scientifica, soprattutto stranieri.
L'isoletta suscitò subito l'interesse di alcune potenze straniere europee, che nel mar Mediterraneo cercavano punti strategici per gli approdi delle loro flotte, sia mercantili che militari.
L'Inghilterra, che col suo ammiraglio sir Percival Otham si trovava nelle acque dell'isola, dopo un'accurata ricognizione prese possesso di questa in nome di sua maestà britannica. Il 24 agosto giunse sul posto il capitano Jenhouse, che vi piantò la bandiera britannica, chiamando l'isola "Graham". Il nome "Banco di Graham" è utilizzato nella cartografia recente per indicare il banco sottomarino costituente l'area su cui si trova il vulcano che diede origine all'isola Ferdinandea.
Questi avvenimenti fecero montare una protesta degli abitanti del Regno delle Due Sicilie, che assieme a quelle del capitano Corrao, arrivarono anche alla casa borbonica. Si propose di nominare l'isola "Corrao", chiedendo inoltre al re provvedimenti contro il sopruso inglese.
Il re Ferdinando II che rivendicò l'isola come territorio dello stato borbonico.
Il 26 settembre dello stesso anno la Francia, per contrastare l'azione inglese, inviava il brigantino La Fleche, comandato dal capitano di corvetta Jean La Pierre, il quale recava con sé una missione diretta dal geologo Constant Prévost insieme al pittore Edmond Joinville, al quale si devono i disegni di quel fenomeno eccezionale.
I francesi fecero approfonditi rilievi e ricognizioni accurate fino al 29 settembre, e il materiale raccolto venne inviato al viceammiraglio della flotta francese De Rigny e relazionato alla Société géologique de France, durante la seduta del 7 novembre 1831. Il contenuto di queste relazioni stabiliva che l'isola, sotto l'azione delle onde, aveva subito diverse frane, che a loro volta avevano provocato grandi erosioni sui fianchi; quindi i crolli avevano trascinato con sé una grande quantità di detriti. Pertanto l'isola, non avendo una base consistente, si poteva inabissare bruscamente.
Come gli inglesi, anche i francesi approdarono sull'isola senza chiedere alcun permesso a re Ferdinando II di Borbone, nonostante l'isola fosse sorta entro acque prossime alle coste siciliane. Anzi i francesi la ribattezzarono "Iulia" in riferimento alla sua comparsa avvenuta nel mese di luglio, poi posero una targa a futura memoria con la seguente iscrizione: "Isola Iulia – i sigg. Constant Prévost, professore di geologia all'Università di Parigi – Edmond Joinville, pittore 27, 28, 29 settembre 1831" e in segno di possesso venne innalzata sul punto più alto la bandiera francese.
Il re Ferdinando II, constatando l'interesse internazionale che l'isoletta aveva suscitato, inviò sul posto la corvetta bombardiera Etna al comando del capitano Corrao il quale, sceso sull'isola, piantò la bandiera borbonica battezzando l'isola "Ferdinandea" in onore del sovrano.
Sembrava che l'evento non suscitasse altro clamore, invece giunse sul posto il capitano Jenhouse con una potente fregata inglese e il Corrao, grazie alla mediazione del capitano Douglas, ottenne di rimettere la questione ai rispettivi governi.
L'isola avrebbe goduto, all'epoca, dello stato di Insula in mari nata, cioè, in quanto emersa dal mare, la prima nazione o persona a mettervi piede avrebbe potuto rivendicarla legittimamente (in questo caso gli Inglesi). Il fatto che l'isola fosse nata nelle acque siciliane, però, complicava la situazione.
Non passò molto tempo che il pronostico francese cominciò ad avverarsi. Le persone che viaggiavano sul vaporetto Francesco I riferirono che l'isola aveva un perimetro di mezzo miglio e l'altezza si era abbassata.
Verso la fine d'ottobre del 1831 il governo borbonico prese posizione ufficiale e inviò ai governi di Gran Bretagna e Francia una memoria con la quale dette loro notizia dell'evento, ricordando che a norma del diritto internazionale la nuova terra apparteneva alla Sicilia. Tuttavia, a quanto sembra i due governi non risposero e fra le due nazioni, entrambe interessate a favorire le loro posizioni strategiche nel Mediterraneo, iniziarono le rivalità.
Il 7 novembre di quell'anno, l'inglese Walker, capitano dell'Alban, misurò l'isola, che risultava ridotta a un quarto di miglio con un'altezza di venti metri. Il 16 novembre si scorgevano soltanto piccole porzioni e l'8 dicembre il capitano Allotta, del brigantino Achille, ne constatò la scomparsa, mentre alcune colonne d'acqua si alzavano e si abbassavano. Dell'isola rimaneva un vasto banco di roccia lavica.
Nel 1846 e nel 1863 l'isoletta è riapparsa ancora in superficie, per poi scomparire nuovamente dopo pochi giorni. Di essa rimangono solo i molti nomi avuti in seguito alla disputa internazionale: Giulia, Nerita, Corrao, Hotham, Graham, Sciacca, Ferdinandea.
Con il terremoto del 1968 nella valle del Belice le acque circostanti il banco di Graham furono viste intorbidirsi e ribollire, cosa che venne interpretata come un probabile segnale che l'isola Ferdinandea stesse per riemergere. Così non fu, ma venne segnalato un movimento nelle acque internazionali di alcune navi britanniche della flotta del Mediterraneo. A scanso di equivoci i siciliani posero sulla superficie del banco sottomarino una targa in pietra, sulla quale si legge:
« Questo lembo di terra una volta isola Ferdinandea era e sarà sempre del popolo siciliano. »
Andata successivamente distrutta, probabilmente colpita da un'ancora, la targa è stata prontamente sostituita.
Successivamente il vulcano è rimasto dormiente per decenni, con la cima circa 8 metri sotto il pelo dell'acqua.
Nel 1986 fu erroneamente scambiato per un sottomarino libico e colpito da un missile della U.S. Air Force nella sua rotta per bombardare Tripoli.
Nel 2002 una rinnovata attività sismica nella zona ha indotto i vulcanologi a congetturare sopra un imminente nuovo episodio eruttivo con conseguente nuova emersione dell'isola. Per evitare in anticipo una nuova disputa di sovranità, dei sommozzatori italiani hanno piantato un tricolore sulla cima del vulcano di cui si aspettava la riemersione. Anche allora le eruzioni non si sono verificate e la cima di Ferdinandea è rimasta circa 8 metri sotto il livello del mare.
Nel mese di settembre del 2006, una spedizione subacquea della LNI di Sciacca e del Dipartimento della Protezione civile Siciliana, coordinata dal professor Giovanni Lanzafame dell'Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia di Catania, da bordo di un'unità della Guardia Costiera, ha posizionato un sensore di pressione sulla vetta sottomarina della Ferdinandea, per il monitoraggio dell'attività sismica dell'importante edificio vulcanico. Il "sarcofago" contenente lo strumento di misurazione registratore è stato recuperato da un'altra équipe il 22 settembre 2007.
L’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV) ha compiuto dal 17 al 21 luglio 2012 la prima campagna di monitoraggio sottomarino nell’area, effettuando un rilevamento geofisico ad alta risoluzione sopra il Banco Graham (-6,9 m sotto il livello marino) e i banchi Terribile (-20 m) a est e Nerita (-16,5 m) a NE con la nave da ricerca Astrea dell’ISPRA. Questa prospezione ha permesso di riconoscere la presenza di 9 crateri vulcanici monogenici, distinti fra loro, a cui dovrebbero corrispondere altrettante eruzioni avvenute nell'area.
LA LURIA LURIDA
Luria Jousseaume, è un genere di molluschi gasteropodi appartenente alla famiglia delle Cypraeidae.
Ha conchiglia leggermente convessa nella parte dorsale e con un’apertura stretta e caratterizzata dalla presenza di numerosi dentelli. Di colore marrone più o meno intenso può presentare anche tre bande nere sul dorso: la superficie è lucida e liscia al tatto. Raggiunge la lunghezza massima di 5 cm.
Vive in fondali rocciosi ad una profondità compresa tra i 2 ed i 40 metri (spesso la si rinviene nelle grotte ricche di spugne).
Attivo soprattutto durante la notte è un animale assolutamente unico nel suo genere ed uno dei pochissimi esemplari di cipree del Mediterraneo.
Di giorno si ripara sotto le rocce e/o in cavità è un animale di estrema lentezza, quando trova ostacoli rimane come interdetto, quasi come se pensasse al da farsi.
Carnivoro a sessi separati,la conchiglia è abbastanza pesante.
Etichette:
conchiglia,
fondali,
luria,
lurida,
mare,
mediterraneo,
mollusco,
rocciosi
TESORI SOMMERSI
I relitti custoditi dai fondali di mari e oceani sarebbero, calcolando il tutto a partire da circa 3000 anni fa, più di tre milioni. Questo genere di cifre lasciano sempre un po' perplessi. Registri di navigazione con dati attendibili si hanno a partire dall'epoca delle prime grandi navigazioni, ovvero intorno alla fine del 1400. Sui dati relativi alle navi fenicie affondate nel 600 a.C. sembra doveroso dubitare.
Eppure è fuor di dubbio che nella quiete delle profondità marine le navi siano tante; se tre milioni non sono una cifra rigorosamente calcolata, sono però assolutamente verosimili.
Il 12 settembre del 1857 la nave da trasporto Central America affondò al largo della Carolina del Nord, a causa di un uragano. Con una scelta di assoluta imprudenza, 60 banche nord americane avevano stipato la nave di lingotti e monete d'oro, per un valore complessivo intorno ai 200 milioni di dollari. Finirono tutti in fondo al mare e con essi, purtroppo, anche 425 persone che si trovavano a bordo.
In tremila anni, quanto oro è finito in fondo al mare? Quante pietre preziose? Non solo: quanti reperti, di grande valore archeologico e artistico? Anche in questo caso possiamo dire che la mancanza di una valutazione precisa non ci allontana dalla sensazione che immense siano le ricchezze custodite sotto le onde.
Ma una cosa vale tanto se rendere "praticabile" tale valore non richiede costi che lo travalicano. Alcune regioni italiane, per esempio, sono ricchissime di oro, ma si tratta di una presenza molto dispersa: per recuperare un grammo bisognerebbe movimentare 5 tonnellate di terra.
Un mistero marittimo lungo 73 anni delle due navi gemelle, battenti bandiera tedesca, affondate la notte del 19 dicembre 1940 tra Livorno e la Gorgona, per essere finite su un campo minato in mare.
Per trovare il loro tesoro nascosto, un cimitero di lamiere in fondo agli abissi del Mar Tirreno, P. V., professione artigiano, gli istruttori M. B. e D. B. e A. B., hanno studiato mappe e rotte per più di due anni. «L’idea ci è venuta tra il 2010 e il 2011 - raccontano in coro - siamo appassionati di subacquea e di relitti, avevamo sentito parlare di queste navi scomparse ad un’ora di distanza l’una dall’altra e abbiamo iniziato ad informarci». Da allora hanno accumulato foto e notizie spulciando giornali e vecchi registri navali. Durante l’inverno, spesso nel weekend, sono saliti alternativamente a bordo di un gommone e di un’imbarcazione con la strumentazione necessaria, e hanno setacciato l’area dove i piroscafi, lunghi 160 metri ciascuno, potevano essersi inabissati. Nei mesi scorsi le ultime conferme dall’ecoscandaglio che ha fornito l’effettiva posizione della “Geierfels” e della “Freiefels” che tradotto dal tedesco significa, guarda caso, “Avvoltoio sulla roccia” e “Libera sulla roccia”.
«Lo scorso fine settimana ci siamo immersi nel punto dove pensavamo che si trovassero i relitti a circa tre miglia e mezzo a est dell’isola di Gorgona e a 15 da Livorno». Tre dei quattro componenti del Gsd team hanno pinneggiato per quasi 140 metri. Poi in mezzo al blu delle profondità marine è comparso prima il ponte di comando con i sette oblò, le maniche a vento, i pennoni. E ancora gli argani a vapore con i quali venivano caricate a bordo perfino le locomotive, e pure le stive. «In una delle due navi - si legge in una scheda che le riguarda - c’era anche un campo da tennis».
«Purtroppo - vanno avanti - siamo potuti rimanere a quella profondità soltanto per pochi minuti, poi siamo dovuti risalire». Per gli amanti dei numeri i tre sub sono rimasti alla profondità di 140 metri per un quarto d’ora e per risalire in superficie hanno dovuto effettuare una decompressione di 201 minuti, oltre tre ore e mezzo, usando quasi cinque bombole ciascuno.
Un bottino da oltre 1 milione di dollari in monete d'oro. L'ha trovato una famiglia di cacciatori di tesori nelle acque a largo di di Fort Pierce, circa 200 chilometri a nord di Miami, in Florida. Il bottino era contenuto nel relitto di una nave spagnola affondata nel 1715. Tra i tesori, 51 monete d'oro coniate nell'anno del naufragio e collane preziose. "Non è stata un'impresa facile trovare il relitto - spiega Brent Brisben, co fondatore della 1715 Fleet - Queens Jewels LLC che detiene i diritti della scoperta - Nello stesso anno affondarono altri 11 galeoni lungo la stessa rotta a causa di un uragano che interessò la costa della Florida"
Duemila monete d'oro conservatesi per circa 1000 anni sul letto del Mediterraneo. La scoperta è stata fatta da quattro sub mentre facevano immersione nello specchio di mare antistante Cesarea, uno dei siti archeologici romani più importanti di Israele. Le monete risalgono al periodo Fatimidia, il Califfato che intorno l'anno 1000 copriva gran parte del Medio Oriente, dell'Africa del nord e della Sicilia. Il tesoro, ha ipotizzato la sovrintendenza di archeologia marina israeliana, proviene da una nave naufragata in prossimità della costa, che trasportava in Egitto il ricavato della tasse locali o gli stipendi dei soldati fatimiti di istanza a Cesarea.
IL MERLUZZO
Il merluzzo (Gadus morhua), assente nel Mediterraneo, è un pesce di mare che popola le acque fredde e aperte dell'Atlantico settentrionale dove viene pescato in grandi quantità. I merluzzi vivono in branchi, sono voracissimi di altri pesci e si avvicinano alle coste soltanto nel periodo riproduttivo. I principali Paesi produttori sono la Norvegia, l'Islanda e l'isola canadese di Terranova.
Nell'Oceano Pacifico vive un altro tipo di merluzzo, simile a quello atlantico ma di dimensioni inferiori e con il corpo ricoperto di chiazze bianche.
Il merluzzo imperiale, presente anche nel Mediterraneo, ha un corpo lungo circa 40 centimetri con fasce trasversali scure.
Il Nasello (Merluccius merluccius) è un pesce appartenente alla stessa famiglia del merluzzo atlantico. Diffusissimo in tutto il Mediterraneo, nel Baltico e nell'Atlantico Orientale, possiede carni pregiate che vengono generalmente cotte al vapore.
Il corpo del merluzzo Gadus morhua, allungato e massiccio, può raggiungere il metro e mezzo di lunghezza.
Le carni del merluzzo sono oggetto di un intenso commercio ed assumono nomi diversi in relazione ai metodi di lavorazione e conservazione utilizzati. I filetti di merluzzo sotto sale prendono il nome di baccalà mentre il pesce intero, privo di testa ed essiccato, prende il nome di stoccafisso.
Dal fegato del merluzzo si ottiene un olio molto conosciuto ed utilizzato per la sua ricchezza di vitamine ed acidi grassi omega-tre.
Un merluzzo fresco si riconosce dalla compattezza delle carni e dal loro colorito bianco.
Il merluzzo è un pesce a carne bianca, è povero di grassi ed è indicato per chi segue una dieta a basso contenuto calorico.
Apprezzabile il contenuto di minerali (fosforo, iodio, ferro e calcio). Il baccalà, per il suo eccessivo contenuto di sodio, va consumato con moderazione da chi soffre di ipertensione.
Non deve presentare tracce di sangue, proprio come l'occhio che dev'essere vivo e sporgente, non arrossato.
Al genere Pseudophycis appartiene invece il merluzzo bianco di Nuova Zelanda (Pseudophycis bachus), presente in acque australiane e neozelandesi.
Al genere Trisopterus appartengono invece due specie:
Trisopterus luscus
Trisopterus minutus.
Il Trisopterus luscus, noto come merluzzo francese o merluzzetto bruno, è diffuso dalle coste del sud della Norvegia fino alla Manica e al golfo di Guascogna, compreso il mare del Nord; il Trisopterus minutus, noto come merluzzo cappellano o merluzzetto, è presente nell’oceano Atlantico fra la Norvegia centrale e l’Islanda, le acque del nord del Marocco, compreso il mar Mediterraneo occidentale, compresi tutti i mari italiani.
Al genere Pollachius appartengono invece:
Pollachius pollachius
Pollachius virens.
Il Pollachius pollachius, noto come merluzzo giallo, è presente nell’oceano Atlantico nord orientale, dalla Norvegia settentrionale e l’Islanda fino alle coste del Portogallo; il Pollachius virens, noto come merluzzo carbonaro o merluzzo nero, è diffuso nell’oceano Atlantico settentrionale tra il Golfo di Guascogna e la Norvegia settentrionale; lo si rinviene anche lungo le coste nordamericane di Canada e New England.
Ai generi Theragra e Aulopus appartengono rispettivamente il Theragra chalcogramma e l’Aulopus filamentosus; il primo, noto anche come merluzzo dell’Alaska, è diffuso nel nord del Pacifico, mentre il secondo, noto come merluzzo imperiale, è presente nel mar Mediterraneo e nell’oceano Atlantico orientale tra il Portogallo e le Isole Canarie. Lo si rinviene anche nel mare dei Caraibi e nelle acque del Golfo del Messico; nel nostro Paese lo si trova nelle acque dello stretto di Messina e lungo la costa toscana nei pressi della città di Livorno; negli altri mari italiani la sua presenza è piuttosto scarsa.
L'ORATA
L’orata è un pesce osseo di mare e di acque salmastre, appartenente alla famiglia Sparidae.
Il nome deriva dalla caratteristica striscia di color oro che il pesce mostra fra gli occhi.
L’orata è presente in tutto il bacino del Mediterraneo e nell’Atlantico orientale, dall'estremo sud delle isole Britanniche a Capo Verde. È un pesce strettamente costiero e vive tra i 5 e i 150 m dalla costa; frequenta sia fondali duri che sabbiosi, è particolarmente diffusa al confine fra i due substrati. Normalmente conduce una vita solitaria o a piccoli gruppi. È una specie molto eurialina, tanto che si può frequentemente rinvenire in lagune ed estuari, ma è estremamente sensibile alle basse temperature. È molto comune nei mari italiani.
Si distingue per avere il profilo del capo assai convesso e la mandibola leggermente più breve della mascella superiore. Sulla parte anteriore di ciascuna mascella sono presenti 4-6 grossi denti caniniformi, seguiti da 3-5 serie di denti molariformi superiori e 3-4 inferiori.
Il corpo è ovale elevato e depresso. La pinna dorsale è unica con 11 raggi spinosi e 12-13 molli. Sono assenti le scaglie sul muso, sul preorbitale e sull’interorbitale. La linea laterale include 75-85 squame. Il dorso è grigio azzurrognolo ed i fianchi argentei con sottili linee grigie longitudinali. Una banda nera e una dorata sono interposte fra gli occhi. La regione scapolare è nera, questo colore continua sulla parte superiore dell’opercolo, il cui margine è rossastro. La pinna dorsale è grigio azzurrognola, con una fascia mediana longitudinale più scura.
La lunghezza massima dell’orata è 70 cm, ma la più comune è tra i 20 e 50 cm; può raggiungere un peso di 10 kg circa.
Le orate sono ermafrodite proterandriche: la maggior parte degli individui subiscono l’inversione sessuale all’età di 2 anni (33-40 cm di lunghezza). La riproduzione (con più cicli di ovodeposizione) avviene tra ottobre e dicembre.
L’alimentazione in natura consiste prevalentemente di molluschi e crostacei a cui sminuzza il guscio con le forti mascelle provviste di denti.
L'orata è oggetto di pesca sportiva e commerciale su tutte le coste mediterranee. In crescita è l'allevamento in acquacoltura, importante voce dell'economia di molte località costiere lungo tutta la costa europea mediterranea. In Italia particolarmente rinomato è l'allevamento (in vasca a terra come in gabbie in mare) nelle lagune adriatiche e lungo le coste toscane soprattutto nella Laguna di Orbetello e nella zona di Capalbio e Ansedonia.
Le orate pescate presentano carni più magre di quelle d'allevamento (dovuto alla minor possibilità di muoversi e alla maggior quantità disponibile di cibo di queste ultime); segnalato anche un maggior contenuto di acidi grassi essenziali.
La pesca con la canna viene effettuata soprattutto in zone di costa bassa e sabbiosa con la tecnica del surf casting ma, data la frequenza e l'adattabilità della specie, anche in località di foce o dove siano presenti coste rocciose non troppo alte. La pesca consiste nel proporre al pesce l'esca locale (di solito si usano le cozze con guscio o crostacei ed anellidi marini) facendola arrivare sul fondo. Il terminale è molto semplice e deve essere molto lungo(circa 1,5/2 metri) in modo da non far insospettire il pesce e ad avvertire bene le toccate. L'orata è infatti un pesce molto sospettoso ed ha l'abitudine di girare l'esca tra le labbra più volte prima di ingoiarla, è quindi importante non ferrare subito la canna ma aspettare l'abboccata (la punta della canna si fletterà di più rispetto alle mangiate precedenti). L'esca ideale è la cozza locale ma talvolta anche il granchietto di sabbia e di scoglio può essere molto produttivo. Negli ultimi anni si sono diffusi come esche alcuni "vermi" marini quali il bibi, l'arenicola, l'americano o il coreano, con risultati spesso ottimi anche se con esemplari di misura ridotta. L'amo da utilizzarsi deve essere di misura abbastanza grande e molto robusto per non soccombere sotto la poderosa dentatura del pesce. L'esca d'eccellenza per cercare di catturare un'orata di media/grande dimensione è il granchio di sabbia, innescato talvolta con 2 ami.
L'orata è uno dei prodotti della pesca più diffusi e pregiati del mar Mediterraneo; in Italia rappresenta - assieme al branzino, alla cernia, al tonno, al pesce spada ed al dentice - il pesce più gradito e consumato. Essendo facilmente allevabile, l'orata gode di un costo al dettaglio piuttosto accessibile, anche se la differenza qualitativa tra un pesce allevato intensivamente (con l'impiego di mangime in pellet a base di farine animali) ed uno selvatico è piuttosto marcata; un buon compromesso è costituito dall'orata di vallicoltura.
In cucina, l'orata si presta ad ogni tipo di preparazione, ma le dimensioni e la provenienza possono costituire variabili estremamente utili a prediligere una o l'altra destinazione culinaria. L'orata pescata e fresca può essere consumata: cruda (al carpaccio o come sushi), al forno (al naturale, al cartoccio, in crosta di verdure ecc.), ai ferri (con carbone o legna, a gas diretto o su pietra lavica, su resistenze elettriche), in padella (anche solo i filetti), lessata o al vapore (in una marmitta o in pentola a pressione), in carpione ecc.
Gli esemplari più grossi (>2-3kg), se non preparati al cartoccio (comunque piuttosto impegnativo), necessitano la smembratura in tranci o filetti, in quanto la cottura ai ferri o al forno risulterebbe particolarmente laboriosa.
L'orata è un pesce tendenzialmente magro ma, come per il branzino, presenta una differenza abbastanza evidente tra il pesce allevato (più grasso) e quello pescato (oltre il 250% di grassi in meno); suggerisco quindi di prediligere sempre cotture abbastanza blande, non troppo intense o prolungate, che possano determinare la disidratazione/scolatura dell'acqua e del grasso contenuti in eccesso nella carne e sotto la pelle.
Alcuni utilizzano l'orata anche per comporre la farcia delle paste ripiene.
L'orata contiene una buona porzione di acidi grassi polinsaturi (ma non nelle stesse quantità del pesce azzurro) e monoinsaturi, mentre l'apporto di colesterolo è moderato; si presta dunque all'alimentazione contro il sovrappeso e alla dieta per la cura delle dislipidemie (ipercolesterolemia o ipertrigliceridemia).
L'apporto energetico è fornito prevalentemente dalle proteine ad alto valore biologico (con amminoacido limitante leucina) e in minor parte dagli acidi grassi (con prevalenza dei monoinsaturi o dei polinsaturi a seconda che si tratti di un'orata di allevamento o selvatica).
L'apporto vitaminico è buono e predilige le concentrazioni di niacina (vit. PP) e riboflavina (vit. B2).
LE SPUGNE DI MARE
I poriferi o spugne, dal latino portatori di pori, sono un phylum animale.
Si tratta di organismi pluricellulari, aventi corpi ricchi di pori e canali che permettono all'acqua di circolare attraverso essi; sono fondamentalmente costituiti da un sacco, o spongocele, strutturato come un composto gelatinoso o mesoglea collocato tra due strati sottili di cellule, il coanoderma, interno e il pinacoderma, esterno. Le cellule non differenziate nella mesoglia, o archeoblasti, in grado di trasformarsi ad assumere funzioni specializzate, possono migrare tra gli strati di cellule principali e la mesoglia. Posseggono una struttura scheletrica, l'endoscheletro, formato da spicole calcaree o silicee, o costituite da fibre proteiche di spongina, prodotto da cellule specializzate. Le spugne non hanno apparati o organi differenziati; la maggior parte delle funzioni si basano sul mantenimento di un flusso costante di acqua attraverso i loro corpi per ottenere cibo e ossigeno e rimuovere i prodotti catabolici.
Le spugne sono, come gli altri metazoi, pluricellulari, eterotrofe, non possiedono parete cellulare e producono spermatozoi e ovocellule. A differenza di altri animali, non hanno veri tessuti e organi, e, generalmente, non hanno simmetria somatica. Le forme dei loro corpi sono adattate per la massima efficienza del flusso di acqua attraverso la cavità centrale, dove deposita nutrienti, ed esce attraverso un foro chiamato osculum. Gli scheletri interni sono di spongina e / o formati da spicole di carbonato di calcio o silice. Tutte le spugne sono animali acquatici, in maggioranza marini e sessili; vi sono anche specie d'acqua dolce, e colonizzano ambienti che vanno dalle zone di marea alle profondità superiori a 8000 m.
I tassonomi collocano le spugne in uno dei quattro sottoregni animali, quello dei Parazoi.
Analisi molecolari dal 2001 hanno concluso che alcuni gruppi di spugne sono più strettamente imparentati con gli eumetazoi (la stragrande maggioranza degli organismi animali) rispetto al resto dei poriferi. Tali conclusioni implicano che le spugne non sono un gruppo monofiletico, poiché l'ultimo antenato comune di tutte le spugne sarebbe anche un antenato diretto degli eumetazoi, che non sono spugne. Uno studio condotto sulla base di confronti di DNA ribosomale ha concluso che la divisione più importante all'interno del phylum è tra spugne vitree o hyalospongiae e il resto del gruppo, e che gli eumetazoi sono più strettamente correlati alle spugne calcaree, quelle con spicole di carbonato di calcio, rispetto ad altri tipi di spugna. Nel 2007 una analisi basata sul confronto di RNA e un'altra basata principalmente sul confronto di spicole ha concluso che demosponge e spugne di vetro sono più strettamente correlate tra loro che non altre classi, come le spugne calcaree, che a loro volta sono più strettamente legate agli eumetazoi.
Queste ed altre analisi, hanno stabilito che le spugne sono i più vicini parenti degli antenati comuni a tutti metazoi, ovvero tutti gli animali multicellulari. Un altro confronto nel 2008 di 150 geni in ciascuna di 21 specie che vanno dai funghi all'uomo, ma includente unicamente due specie di spugna, ha suggerito che gli ctenofori siano il lignaggio più basale dei metazoi inclusi nel campione. Se questo è corretto, i moderni ctenofori hanno sviluppato le loro strutture complesse indipendentemente da altri metazoi, o gli antenati delle spugne "erano più complessi" e tutte le spugne conosciute si sono drasticamente semplificate nelle forme. Lo studio raccomanda ulteriori analisi utilizzando una gamma più ampia di spugne e altri metazoi semplici come i placozoi. I risultati di tale analisi, pubblicata nel 2009, suggeriscono che il ritorno alla visualizzazione precedente, con le spugne alla base dell'albero evolutivo, possa essere giustificata. un dendrogramma costruito utilizzando una combinazione di tutti i dati disponibili, morfologici, di sviluppo e molecolari ha concluso che le spugne sono in realtà un gruppo monofiletico, con i cnidari formati il gruppo gemello ai bilateri.
Si era ipotizzata, nel XX secolo, una loro origine filogeneticamente indipendente dagli altri phylum animali, secondo cui i poriferi si sarebbero evoluti da ceppi ancestrali di organismi unicellulari dotati di flagello (protozoi coanoflagellati) aggregatisi in colonie.
Le prime testimonianze fossili della esistenza dei Poriferi risalgono a circa 570 milioni di anni fa (fine del Precambriano): i reperti di quel periodo, la cosiddetta piccola fauna dura (dall’inglese small shelly fauna), sono costituiti in gran parte da ammassi di spicole di poriferi, assieme frammenti o resti disarticolati di altri organismi quali molluschi, brachiopodi, echinodermi.
Fossili di Protospongia sp., un porifero con struttura simile a quella degli attuali Hexactinellida, risalenti al Cambriano inferiore (circa 540 milioni di anni fa) sono stati rinvenuti nell'argillite di Burgess, in Canada, mentre i primi fossili di Demospongiae (Hazelia sp.), risalenti a circa 525 milioni di anni fa, sono stati ritrovati nei giacimenti fossili del Chengjiang (Cina).
I Poriferi o spugne sono animali sessili, cioè vivono attaccati sulle rocce dei fondali marini o sugli scogli. Essi formano il gruppo degli animali più primitivi e presentano una scarsa specializzazione cellulare. Il loro corpo, dalle forme più varie, è formato da tre strati: lo strato esterno funge da rivestimento ed è costituito da cellule appiattite dette pinacociti, quello intermedio contiene delle strutture di sostegno, dette spicole e infine quello interno delimita una cavità ed è formato da cellule dette coanociti.
La struttura base delle spugne è un sacco, chiamato spongocele, con un'apertura principale, l'osculo, e numerosi pori nella parete. La parete è formata da due strati cellulari: il coanoderma e il pinacoderma.
Il coanoderma è lo strato interno; presenta cellule flagellate, i coanociti, che svolgono un ruolo fondamentale sia per la riproduzione sessuale che per l'alimentazione, la quale avviene per filtrazione di microrganismi e particelle alimentari sospese nell'acqua.
Lo strato esterno, spesso vivacemente colorato, è detto pinacoderma ed è formato da cellule appiattite e strettamente appressate, dette pinacociti, che svolgono un ruolo di protezione e rivestimento.
Tra il coanoderma e il pinacoderma è presente uno strato acellulare gelatinoso, il mesoilo o mesoglia, in cui si trovano diversi elementi cellulari, detti archeoblasti, che a secondo delle necessità possono trasformarsi in:
cellule ameboidi, o amebociti, che hanno la funzione di distribuire a tutto il corpo le sostanze nutritive;
cellule sessuali che producono i gameti (micro- e macrogametociti rispettivamente maschili e femminili)
Quasi tutte le spugne posseggono una struttura scheletrica, l'endoscheletro, formato da spicole calcaree o silicee, o fibre proteiche (spongina) prodotte rispettivamente dagli scleroblasti (o sclerociti) e dagli spongoblasti, o (spongociti).
Le spugne silicee hanno generalmente due tipi di spicole: le megasclere e le microsclere.
Le megasclere misurano oltre 100 µm e partecipano alla funzione di sostegno dei tessuti. Le microsclere sono di piccola taglia (1 à 100 µm) e non svolgono il ruolo di struttura scheletrica.
Le spicole silicee costituiscono delle vere e proprie fibre ottiche naturali, il che fa ipotizzare un ruolo di queste strutture nel successo evolutivo delle spugne silicee rispetto a quelle calcaree.
La respirazione avviene attraverso le cellule, il ricambio continuo di acqua permette una continua ossigenazione dell'ambiente detta "respirazione cutanea".
Mancano di un sistema nervoso.
Tutti i tipi cellulari dei Poriferi derivano da un unico gruppo di cellule ameboidi indifferenziate e totipotenti, gli archeociti.
Sebbene i poriferi presentano una struttura molto semplificata, in base alla ramificazione della cavità interna possiamo distinguere tre differenti tipologie strutturali. La più semplice e anche meno diffusa è detta “Ascon” ed ha una tipica forma a vaso. La seconda è la “Sycon”, anche in questa tipologia è mantenuta la forma a vaso, ma le pareti qui presentano delle pieghe. La terza struttura è la più complessa, la forma a vaso è totalmente stravolta e la cavità interna presenta numerosi canali ampiamente ramificati. Questa terza struttura è detta “Leucon” e attraverso le ramificazioni dei canali, l’acqua circola permettendo una maggiore alimentazione per filtrazione.
Le Spugne sono dotate di piccoli elementi scheletrici (spicole), diffusi in tutto il corpo e in base alla costituzione delle spicole abbiamo la classificazione usata attualmente dagli zoologi.
Classe Calcarea: qui le spicole sono date da carbonato di calcio, hanno forma ad ago o a raggio. La struttura del corpo può essere sia ad ascon che leucon e sycon.
Le spicole possono essere silice, fuse tra loro per formare una rete o un raggio a sei punte (Classe Hexactinellida), queste vivono dai 450 m fino ai 900 metri di profondità.
Infine vi è la classe delle Demospongie, spugne silicee o con presenza di una particolare proteina detta “Spongina”, queste spugne sono munite delle più brillanti colorazioni e qui la struttura a leucon può raggiungere dimensioni di 1 metro, sia in diametro che in altezza. Tra le demospugne sono presenti anche alcune specie di acqua dolce.
La vita dei poriferi dipende dalle correnti d’acqua ed è proprio per sfruttarle a pieno che il loro corpo è organizzato intorno ad un sistema di canali e camere acquifere: le modalità di filtrazione dipendono quindi dalle strutture del corpo descritte in precedenza (ascon, leucon, sycon). Una spugna di 1 cm in diametro e 10 cm di altezza è capace di filtrare oltre 20 litri d’acqua in una sola giornata. Mediante la filtrazione i poriferi trattengono particelle alimentari come microalghe, batteri, protesti, gameti di altre animali acquatici e altro materiale organico.
Recentemente sono state scoperte rare specie carnivore (Asbestopluma) che utilizzando le spicole riescono a catturare piccoli crostacei , queste spugne vivono in acque profondissime.
Quasi tutti i poriferi sono ermafroditi (portano ambedue i sessi): uova e spermatozoi vengono prodotti in tempi diversi e rilasciati nell’ambiente marino. La fecondazione avviene in acque libere e porta allo sviluppo di piccolissime larve. In alcune specie i gameti femminili non vengono rilasciati, ma trattenuti all’interno della cavità della spugna, quando questa prende per filtrazione uno spermatozoo della stessa specie, invece di assumerlo come alimento lo utilizza per fecondare i gameti. Dopo la fecondazione, anche qui si forma una larva che viene liberata grazie alle correnti d’acqua che la trasportano all’esterno della cavità dell’animale. Le rare spugne d’acqua dolce si riproducono sessualmente con la produzione di capsule resistenti, dette gemmule, in grado di sopravvivere anche in periodi di essiccamento. Al ritorno delle condizioni favorevoli, con la comparsa d’acqua, la gemmula si sviluppa e si organizza a formare una nuova spugna.
Le spugne contribuiscono alla pulizia e alla nitidezza delle acque, in quanto trattengono con la filtrazione molte particelle responsabili del classico torpore che si trova nelle profondità marine.
Una caratteristica dei Poriferi è la capacità di disgregazione-riaggregazione: se, ad esempio, una spugna viene disgregata con un setaccio si assiste ad una ricostruzione generale dell'organismo da parte degli amebociti. In natura questa capacità permette a questi semplici animali di dividersi in più individui e colonizzare maggiormente il substrato.
Il phylum Porifera è composto quasi esclusivamente da specie acquatiche filtratrici, bentoniche e sessili (vivono ancorate al substrato), in prevalenza marine, diffuse in tutti i fondali, dai tropici ai poli, fino a profondità abissali. Le spugne d'acqua dolce, rappresentate dalla famiglia Spongillidae (Demospongie), abitano i fiumi ed i laghi di tutti i continenti (escluso l'Antartide).
I Poriferi possono avere vita solitaria o costituire dense colonie che, come accade con le madrepore, diventano importanti habitat per comunità animali e vegetali.
Infatti, le loro cavità possono ospitare numerosi organismi simbionti (come piccoli crostacei, alghe unicellulari, cianobatteri, funghi.) In alcuni casi questi microorganismi possono costituire sino al 40% del volume della spugna e possono contribuire in maniera significativa al metabolismo dell'ospite, contribuendo, per esempio, alla fotosintesi o alla fissazione dell'azoto.
Una curiosa associazione mutualistica è quella che si instaura tra alcune specie di paguro e la spugna Suberites domuncula, che si accresce sulla conchiglia di gasteropode utilizzata come protezione dal paguro; in questo modo la spugna trae vantaggio ottenendo mobilità dal crostaceo ed evitando così di riempirsi di sedimento, mentre il paguro evita di essere predato grazie allo sgradevole gusto e odore del porifero. Inoltre la Suberites domuncula si accresce attorno al nicchio ed al paguro consentendogli di vivere tutta la vita all'interno della stessa conchiglia, evitando così di esporre l'addome molle ai predatori durante il cambio di conchiglia, inevitabile per chi non si avvale di tale mutualismo.
I Crostacei del genere Spongicola vivono come commensali all'interno di Ialospongie ma, una volta cresciuti, rimangono intrappolati nella cavità della spugna che, in genere, ne ospita una coppia, costretta così a rimanere "fedele" per tutta la vita.
Le spugne fanno parte della dieta di molti organismi marini (Pesci, Anellidi, Molluschi, Echinodermi, ecc.). Studi sulla dieta della tartaruga marina Eretmochelys imbricata hanno dimostrato che essa è costituita per il 70-95% da spugne della classe Demospongiae, in particolare da specie appartenenti agli ordini Astrophorida, Spirophorida e Hadromerida.
Le spugne naturali sono un prodotto antico, ricco di storia e legato al mare.
Nonostante assomiglino più a piante marine o a coralli, le spugne di mare appartengono, a tutti gli effetti alla famiglia dei Poriferi, animali marini invertebrati.
Esse rappresentano sicuramente il modo più naturale e delicato possibile per prendersi cura del proprio corpo. Sono perfette per massaggiare la pelle, stimolare la circolazione e migliorare la salute della stessa.
Grazie alla loro morbidezza unica, sono inoltre ideali per le pelli particolarmente sensibili, quali quella dei neonati e delle persone anziane. Rispetto alle spugne sintetiche, le spugne naturali sono più durature e resistenti.
La pesca e la lavorazione delle spugne sono mestieri molto vecchi, che risalgono ad epoche precedenti. Provenienti principalmente dal bacino del Mar Mediterraneo e dal Mar Adriatico (Grecia, Libia, Sicilia, Tunisia e Croazia), le spugne vengono pescate ancora seguendo le antiche tradizioni. I pescatori, una volta localizzata una colonia di spugne, si immergono, attrezzati di scafandro, per effettuare la raccolta. Le spugne sono considerate sia eco-compatibili, che sostenibili, in quanto la cura dei pescatori è quella di tagliare la spugna e non strapparla dal fondale, in modo da non rovinare la radice che ne permette una ricrescita più rigogliosa. Mantenendo intatta la base della spugna, esse ricresceranno in pochi anni, spesso più grandi e forti di quelle pescate. Studi effettuati dimostrano che la pesca corretta delle spugne marine permette di incrementare la densità delle stesse.
Dopo la raccolta, le spugne vengono lavate e depurate dalle impurità calcaree ed organiche, che si trovano al loro interno.
Etichette:
animale,
carnivore,
correnti,
filtratori,
fossili,
mare,
pesca,
poriferi,
pulizia,
riproduzione,
spugne,
vita
LE PULCI DI MARE
La pulce di mare (classe Malacostraci) abbonda tra i materiali organici trascinati dalle onde sui litorali marini europei a lieve pendio. Al primo accenno di pericolo trova prontamente rifugio nella sabbia umida. Ha corpo appiattito lateralmente e suddiviso in numerosi segmenti dotati di arti adattati sia alla vita terrestre (quelli anteriori) sia a quella acquatica (quelli posteriori, che, utilizzati come remi, conferiscono alla pulce di mare la caratteristica andatura a scatti). Tipiche della pulce di mare sono le migrazioni giornaliere fra la costa e le spiagge sabbiose, effettuate grazie alla capacità di orientarsi in base alla posizione del sole: ogni popolazione segue una direzione di movimento geneticamente determinata e commisurata all’orientamento della costa su cui vive. La dieta della pulce di mare si basa principalmente sulle alghe putride che affollano i bagnasciuga. Esclusive delle acque fredde e temperate che circondano l’America Settentrionale sono Eudorella emarginata ed Eudorella truncatula.
Si tratta di un organismo di tipo planctonico, che quindi ‘nuota' in mare, e che presenta un involucro rigido ricoperto da una sorta di spine poste a difesa del fragile organismo. Proprio queste spine sono la causa delle punture avvertite dai bagnanti.
Le larve non pungono volontariamente la cute dei bagnanti. In realtà restano semplicemente ‘impigliate' in alcune zone del corpo umano, principalmente tra le dita, o spesso tra i costumi da bagno e la pelle, provocando così il pizzicore, simile a quello che si percepisce quando la pelle entra a contatto con la lana di vetro. Tuttavia l'irritazione non è provocata da sostanze urticanti o velenose di cui le larve sono sprovviste. Va detto che è un fenomeno che si ripete ogni anno e che questa estate non presenta particolari incrementi. In ogni caso, questa fase in cui le larve sono protette dall'involucro spinato, dura circa sette o otto giorni ed il libeccio che sta soffiando con forza le porterà probabilmente al largo anticipatamente.
domenica 27 settembre 2015
ISOLA FANTASMA
In genere le isole fantasma derivano dalle relazioni dei primi navigatori ed esploratori di nuove terre. Solitamente la loro presunta esistenza nasceva da errori di identificazione e localizzazione di isole reali, come nel caso dell'isola di Pepys, o per errore delle coordinate geografiche trasportate sulle mappe.
Altre isole fantasma sono probabilmente dovute ad errori di navigazione, ad errate identificazioni di iceberg e banchi di nebbia o frutto di illusioni ottiche.
L'inesistenza di alcune isole è ad oggi dibattuta o di recente scoperta, come nel caso di Sandy Island (Nuova Caledonia), presente su google maps ma non rilevata da spedizioni scientifiche.
Mentre le isole fantasma non sono mai realmente esistite, altre come l'isola Thompson, Bermeja o l'isola del Podestà, potrebbero essere state isole reali successivamente distrutte da esplosioni vulcaniche, terremoti o frane sottomarine o ancora banchi di sabbia poi ricoperti dall'acqua, tipico esempio è l'isola Ferdinandea.
In altri casi ancora quelle che venivano ritenute isole sono poi state identificate come penisole di terre più grandi: dal sedicesimo ad diciottesimo secolo in molte mappe la California era rappresentata come un'isola.
I geografi sono stupefatti e perplessi: a metà fra l’Australia e il territorio francese di Nuova Caledonia pensavano di trovare l’isola di Sandy. Ma l’isola è scomparsa. Anzi: non esiste proprio. L’«isola fantasma» australiana non è però un caso isolato. Seppur segnalate sulle mappe, sarebbero infatti ancora centinaia le isole «da sogno» che in realtà non esistono affatto. Se non sulle mappe, e non solo su quelle digitali.
Atlanti, carte nautiche e mappe la segnalano nell’oceano Pacifico. C’è anche su Google Maps. Qui, l’isola nel Mar dei Coralli misura poco più di 20 chilometri di lunghezza e circa cinque chilometri di larghezza - non ci sono foto, ma solo una misteriosa macchia nera. Sandy Island, così sembrava, aveva tutte le caratteristiche di un’isola in stile «Lost»: sperduta e disabitata. Oltretutto, il suo nome e la dimensione facevano pensare a lunghe spiagge, a un mare cristallino. Ma non esiste. È erroneamente segnalata sulle carte geografiche da almeno dieci anni. Una spedizione con un gruppo di ricercatori dell’Università di Sydney ha raggiunto ora in nave la zona in cui si sarebbe dovuta trovare la presunta striscia di terra. Cos’hanno trovato? Solamente acqua, acqua profonda a perdita d’occhio e barriera corallina.
L’isola di Sandy è soltanto l’ultima di una lunga serie di isole a dover essere cancellate definitivamente dalle mappe. Nella cartografia si trovano altri pezzi di terra in mezzo al mare dai nomi fantasiosi: Antilia, Frislandia oppure Bermeja, quest’ultima segnalata nel Golfo del Messico davanti alle coste dello Yucatan sin dalle mappe del Cinquecento fino a quelle digitali. Doveva essere grande come l’isola di Föhr (circa 83 chilometri quadrati). Tre anni fa i ricercatori dell’Università di Città del Messico avevano organizzato una spedizione per esplorare le sue risorse naturali. Tuttavia, dopo una settimana di ricerche - con navi e aerei - della striscia di terra non c’era traccia. Nessuno è in gradi di dire quante siano le cosiddette «isole fantasma» - cioè quelle segnalate nel corso del tempo come realmente esistenti, con i contorni delle coste disegnati sulle mappe geografiche, ma rimosse successivamente dopo la dimostrazione della loro inesistenza. Controversi sono anche i tanti isolotti del sud del Pacifico con nomi evocativi quali Ernest Legouvé, Giove, Maria Teresa, Wachusett o Rangitiki. Colpa di esploratori ambiziosi, errori nella trascrizione delle coordinate in fase di disegno delle mappe o anche l’influenza di alcol, sono finite nella cartografia.
In verità, gli studiosi australiani erano partiti con la loro nave da ricerca Southern Surveyor per mappare il fondo dell’oceano. «Abbiamo voluto controllare perché le carte di navigazione a bordo segnavano acque molto profonde nella zona, oltre 1300 metri. La nostra collega Maria Seton ha scoperto questa bizzarra isola sulle nostre mappe meteorologiche, quindi siamo andati a vedere, ma non c’era nulla», ha raccontato Steven Micklethwaite dell’Università di Sydney. «Non lo sappiamo», ha spiegato Seton. «Una delle fonti degli atlanti è la Cia», aggiunge Micklethwaite. «Questo alimenta le teorie del complotto». Ciò nonostante, le isole fantasma hanno spesso una storia molto più antica. Un geografo arabo ne aveva identificato oltre 27.000 già nel dodicesimo secolo.
Nel «Times Atlas of the World» Sandy Island è identificata come Sable Island. Se in quell’area ci fosse effettivamente l’isola, dovrebbe cadere in territorio francese, speculano i giornali australiani. Tuttavia, l’isola di Sandy non compare sulle mappe ufficiali francesi. Secondo il servizio idrogeografico australiano, che produce le carte nautiche del Paese, la sua comparsa su alcune mappe scientifiche e su quelle digitali sarebbe semplicemente legata a un errore umano, ripetuto negli anni. Sandy Island potrebbe essere stata segnalata in seguito all’errata interpretazione dei dati satellitari.
Etichette:
cartine,
errori,
fantasma,
iceberg,
illusioni,
inesistenti,
isole,
mappe,
navigatori,
relazioni
LE CINQUE TERRE
Dal 1997 fanno parte della lista dei Patrimoni dell'umanità dell'Unesco, con la seguente motivazione: "La riviera ligure orientale delle Cinque Terre è un paesaggio culturale di valore eccezionale che rappresenta l'armoniosa interazione stabilitasi tra l'uomo e la natura per realizzare un paesaggio di qualità eccezionale, che manifesta un modo di vita tradizionale millenario e che continua a giocare un ruolo socioeconomico di primo piano nella vita della società". Grazie alle caratteristiche geografiche ed antropiche del territorio dove sorgono, le Cinque Terre sono considerate una delle più suggestive attrattive costiere italiane, per il loro contesto orografico collinare naturalmente aspro e accidentato, addolcito dalla costruzione di terrazzamenti o fasce per la coltura, che cala verso il mare con forti pendenze; nei punti in cui il mare si insinua serpentinamente nella terra sorgono i borghi, snodati a seguire la naturale forma delle colline.
L'opera dell'uomo, nei secoli, ha modellato il territorio costruendo i famosi terrazzamenti sui declivi a mare, dovuta alla particolare tecnica agricola tesa a sfruttare per quanto possibile i terreni posti in forte pendenza che digrada verso il mare, ne ha fatto così uno dei più caratteristici e affascinanti paesaggi della Liguria.
Nel 1998 il Ministero dell'Ambiente ha istituito l'Area marina protetta Cinque Terre per la protezione ambientale, la tutela e la valorizzazione delle risorse biologiche, per la divulgazione e promozione di uno sviluppo socio-economico compatibile con la rilevanza naturalistico-paesaggistica dell'area.
Nel 1999 è stato poi istituito il Parco Nazionale delle Cinque Terre per la conservazione degli equilibri ecologici, la tutela del paesaggio, la salvaguardia dei valori antropologici del luogo.
Le Cinque Terre facevano parte della Comunità Montana della Riviera Spezzina.
Le prime testimonianze della presenza umana nelle Cinque Terre e nelle zone limitrofe sono costituite dai depositi della Grotta dei Colombi all'isola Palmaria, in cui sono stati rinvenuti resti di sepolture umane, ossa e fossili di animali, e alcuni manufatti in selce, riconducibile al Paleolitico, quando, probabilmente, l'isola era ancora unita alla terra ferma.
Il Neolitico è invece testimoniato dal ritrovamento di asce levigate fatte con alcune varietà di actinolite e che fanno supporre che la zona fosse abitata da cacciatori con domicilio stabile o temporaneo in caverne o ripari rocciosi. Inoltre la caccia, favorita da un ambiente estesamente boscoso e ricchissimo di selvaggina, probabilmente rappresentò per millenni, e ancora nell'epoca romana, una fonte primaria di risorse.
Altri segni della presenza dell'uomo in età antiche sono i menhir, ritrovati nella zona di Campiglia Tramonti, nei pressi dell'attuale Cappella di Sant'Antonio e sullo spartiacque presso il monte Capri. Secondo alcuni studiosi, tali pietre, potevano avere funzione legata al calendario; altri li ritengono invece precursori delle statue stele.
Con l'età del bronzo si affermò l'organizzazione sociale detta "pagense", comune ad altri settori liguri: i centri elementari ("vici") erano riuniti in piccole circoscrizioni ("pagi"), facenti capo ai "castellari", ubicati in posizioni dominanti e con prevalenti funzioni difensive. Il castellare più vicino alle Cinque Terre si trova sul monte Castellaro (valle di Pignone) e gli scavi effettuati hanno portato alla luce una notevole quantità di frammenti di vasi decorati, a testimonianza di un insediamento stabile ed importante.
Le cronache militari romane testimoniano come le tribù liguri rappresentarono un forte ostacolo alla romanizzazione del territorio, tanto che i Romani si insediarono e concentrarono le loro attività nella piana lunense nella Val di Magra.
Non è da escludere che nell'età augustea una parte delle popolazioni liguri che abbandonarono le località di collinari per unirsi ai coloni romani arrivassero anche lungo le coste: ne è un esempio la presenza romana a Porto Venere (citato da Strabone nel 40 a.C.), con la testimonianza della villa patrizia del seno di Varignano.
Nessun reperto materiale o prova documentale è giunta fino a noi per dimostrare un'eventuale origine romana dei borghi delle Cinque Terre come attualmente si presentano. Tuttavia l'origine latina di alcuni toponimi locali - come Volastra ("Vicus oleaster", il paese degli olivi), Manarola ("Manium arula", piccola ara dei Mani), Corniglia (fondo di Cornelio), Riomaggiore ("Rivus maior") e Monterosso ("Mons ruber") - fa pensare che l'antico tracciato viario preistorico litoraneo fosse utilizzato dai romani e che vi abbiano fatto sorgere piccoli centri di posta dei cavalli.
I borghi delle Cinque Terre hanno avuto origine, nella struttura attuale, nell'XI secolo, quando le popolazioni della Val di Vara superarono lo spartiacque della catena costiera che la separava dal mare ed andarono ad abitare permanentemente sul litorale marino, formando i cinque paesi. Il documento più antico che ricordi le Cinque Terre risale al marzo 1056, rogato a Monterosso, con cui il marchese "Guido di fu' Alberto" donò, ai monasteri di Santa Maria e di San Venerio, beni immobili situati nelle isole della Palmaria, del Tino, del Tinetto e in Porto Venere.
La ragione di tale fenomeno migratorio della gente del Vara verso la costa è legata a due eventi storici comuni a tutta l'Europa occidentale: l'incremento demografico e la liberazione del Mediterraneo dalla minaccia saracena. Oltre a ciò, lungo la costa si godeva di un clima migliore, più adatto alla coltivazione di alcuni prodotti come la vite e l'ulivo. I paesi delle Cinque Terre non nacquero quindi come borghi marinari, bensì come borghi agricoli, costretti a bonificare quindi un territorio che non era naturalmente adatto alla pratica agricola: nacque così il terrazzamento dei fianchi dei monti.
Naturalmente, dopo un po' di tempo che gli abitanti della Val di Vara si erano trasferiti sul litorale, presero confidenza con l'elemento marino, prima come via di comunicazione più comoda e veloce, poi come risorsa di sostentamento, dividendo quindi le loro attività tra il lavoro nelle campagne e l'andar per mare a seconda delle necessità e delle stagioni. Ciò è confermato dal fatto che nel 1170 una nave galera di Vernazza, insieme ad altre di alcuni borghi della riviera orientale, intraprese la guerra di corsa per conto dei genovesi contro i pisani. Nel 1182, inoltre, ancora gli uomini di Vernazza esercitarono, in tempo di pace, la guerra di corsa per proprio conto, contro navi mercantili dirette a Genova.
Da quando il territorio delle Cinque Terre fu inserito tra i possedimenti genovesi, esso seguì la storia della Repubblica e quindi dell'intero territorio ligure.
Tutto il comprensorio è costituito da una stretta fascia di terra compresa tra il mare e il crinale che la separa dalla retrostante Val di Vara e dal Golfo della Spezia, con crinali secondari che si estendono sino a Punta Mesco delimitandolo dall'area del golfo di Levanto.
I rilievi montuosi della zona, che corrono paralleli alla costa, pur variando tra quote modeste come il Monte Malpertuso (815 metri s.l.m.) o il Monte Vè (486 metri s.l.m.) e nonostante la breve distanza dal mare, determinano un'accentuata acclività di tutto il territorio. La morfologia interna dell'area è caratterizzata da rilievi secondari - che presentano andamenti perpendicolari o obliqui rispetto alla linea di costa - e dalle famose terrazze.
La linea di costa è delimitata sul lato occidentale dal promontorio di Punta Mesco e si sviluppa in modo abbastanza lineare, presentando numerose piccole irregolarità come insenature, capi e promontori fino a Portovenere. La costa è prevalentemente rocciosa e ripida, raggiungendo in molti casi quasi la verticalità sul mare. Le spiagge sabbiose e ciottolose sono localizzate nei pressi di Monterosso (spiaggia di Fegina e di Monterosso vecchio), di Corniglia (spiaggia di Guvano e spiaggia di Corniglia), di Riomaggiore.
Il territorio delle Cinque Terre presenta una rete idrografica caratterizzata da corsi d'acqua a regime torrentizio, con portata massima nei periodi piovosi di autunno e primavera, e minima nel periodo estivo, ma i bacini idrografici sono, in linea di massima, di estensione molto limitata data la vicinanza dei rilievi montuosi alla costa. Gli interventi di trasformazione del territorio avvenuti nei secoli ad opera dell'uomo, con la realizzazione di terrazzamenti per la coltivazione della vite e dell'ulivo e dei muri a secco, hanno assunto un ruolo significativo nella regimazione delle acque anche in relazione alla canalizzazione artificiale delle stesse.
Monterosso al Mare è il borgo più grande delle Cinque Terre e anche quello documentato per primo (1056). Composto da due insediamenti, il borgo vecchio e Fegina, la parte più turistica, Monterosso al Mare vanta importanti monumenti.
Tra questi la trecentesca chiesa di San Giovanni Battista, di fronte alla quale sorgeva il medievale Palazzo del Podestà, di cui restano alcune tracce. Di grande importanza, sul colle dei Cappuccini, il castello dei Fieschi e il monastero la cui chiesa intitolata a San Francesco, contiene opere d'arte d’inestimabile valore, tra cui tele attribuite a Van Dick, Cambiaso, Piola e Guido Reni.
A Fegina si segnalano Villa Montale, dove soggiornò il premio Nobel per la Letteratura, e il Gigante, imponente statua in cemento armato costruita agli inizi del Novecento che, in origine, sorreggeva sulle spalle una terrazza a forma di conchiglia.
Da molti considerata la più suggestiva delle Cinque Terre, Vernazza è documentata per la prima volta nel 1080. Il notevole livello economico e sociale raggiunto dal borgo già nel Medioevo è ancora oggi testimoniato dalla conformazione urbanistica e dalla presenza di elementi architettonici di grande pregio, come logge, chiese, case-torri e porticati. Il paese è dominato dai resti del “castrum”, una serie di fortificazioni medievali risalenti all’XI secolo, con un castello e una torre cilindrica. L’abitato è costituito da abitazioni separate tra loro da un’unica via centrale e, perpendicolarmente, da ripide scalinate dette “arpaie”. Il monumento storico di maggior rilievo è Santa Margherita di Antiochia, una chiesa di stile romanico-genovese, la cui costruzione risale al XIII secolo, e in cui sono riconoscibili un corpo medievale e uno rinascimentale.
Corniglia, unico paese delle Cinque Terre non a contatto con il mare, sorge sopra un promontorio roccioso. Le sue case, basse e larghe, assomigliano più a quelle dell’entroterra che alle tipiche abitazioni costiere, a testimonianza che la tradizionale vocazione del paese è da sempre più rivolta alla terra che al litorale. Il monumento più importante del borgo è la Chiesa di San Pietro, di stile gotico-genovese, edificata intorno al 1350 sui resti di un precedente edificio. La sua facciata, impreziosita da un rosone in marmo, è arricchita da molte decorazioni, tra cui un bassorilievo che raffigura un cervo, l’emblema del paese. Interessanti sono anche l’Oratorio dei Disciplinati, risalente al Settecento e da cui si gode una vista mozzafiato sul mare, e il largo Taragio, la piccola piazza principale di Corniglia, vero e proprio cuore pulsante del borgo.
Frazione di Riomaggiore, Manarola è un gioiello urbanistico, ricca com’è delle tipiche case-torri, di stile genovese. Fondato durante il XII secolo, il borgo deriva probabilmente il suo nome da un’antica "magna roea", una grande ruota di mulino presente in paese. Le prime testimonianze sul paese, risalenti al Duecento, sono relative alle vicende dei Fieschi, mentre nel XVI secolo si ha notizia di una sua strenua resistenza alle incursioni dei pirati. Il monumento principale della frazione è la chiesa di San Lorenzo, la cui costruzione risale al 1338 ad opera degli abitanti di Manarola e di Volastra, come ricorda la lapide sulla facciata. La pianta è a tre navate, mentre la facciata è impreziosita da un rosone di dodici colonne. Importante anche il campanile staccato dal corpo principale della chiesa probabilmente perché, in origine, aveva compiti difensivi.
Le prime notizie di Riomaggiore si hanno solo nel 1251, quando gli abitanti del distretto di Carpena, sparsi a mezza costa, giurarono fedeltà alla Repubblica di Genova. Tra il Duecento e il Trecento gli abitanti di questi insediamenti decisero di scendere verso il mare e dare vita al paese. Uno spostamento che fu favorito dal consolidamento del dominio genovese che consentì un più tranquillo accesso al mare sul quale poter sviluppare commerci veloci e sicuri. Riomaggiore vanta monumenti di grande interesse, tra cui San Giovanni Battista, una chiesa eretta nel 1340 a tre navate con quella centrale doppia rispetto alle laterali (come le altre chiese delle Cinque Terre), e l’Oratorio di Santa Maria Assunta che ospita un Trittico quattrocentesco e una statua lignea del Trecento raffigurante la Madonna. Importante è anche il Castello che domina il centro storico.
Le Cinque Terre hanno tra le loro caratteristiche principali la particolarità del territorio su cui sorgono. In tal senso è significativa l'opera di antropizzazione che l'uomo ha portato avanti nei secoli in perfetta sintonia con l'ambiente e nel rispetto delle biodiversità.
Nel 1999 è stato istituito il Parco nazionale delle Cinque Terre il cui territorio si estende dalla zona di Tramonti di Biassa e di Campiglia, nel comune della Spezia al comune di Levanto. Il parco ha la particolarità di essere l'unico in Italia finalizzato alla tutela di un ambiente antropizzato, uno degli scopi è infatti la tutela dei terrazzamenti e dei muri a secco che li sorreggono.
Prospiciente alla costa è stata istituita l'Area marina protetta Cinque Terre compresa tra Punta Mesco e Punta di Montenero entrambi classificati come zona A. La riserva ha lo scopo di tutelare flora e fauna che data la conformazione rocciosa della costa presentano, già a basse profondità, particolarità non comuni nel resto del Mediterraneo.
Nello spirito di rispetto dei fondali marini, il comune di Riomaggiore utilizza dei sistemi di ancoraggio dei mezzi natanti che approdano nella rada del borgo che evitano di rovinare i fondali marini.
Riomaggiore ha una particolarità: è stato il primo borgo italiano a essere dotato di un impianto televisivo via cavo collegato a un'unica antenna parabolica ricevente di proprietà del Comune, il quale ha vietato l'uso delle normali antenne a tetto per salvaguardare l'estetica del paesaggio. L'impianto consente di ricevere, oltre alle principali emittenti italiane e straniere, una serie di reti locali, tra le quali il canale dell'amministrazione comunale (TeleRio) e quello del Parco nazionale delle Cinque Terre (TeleParco5Terre), nonché alcuni canali che trasmettono le immagini di telecamere fisse che riprendono il paesaggio e i fondali. Anche la rete satellitare di Sky, grazie a un'apposita convenzione, viene trasmessa agli utenti attraverso l'impianto comunale.
Secondo l'Atlante dei Centri Abitati Instabili della Liguria (2001), la costa delle Cinque Terre costituisce una delle quattro zone morfologicamente distinguibili della provincia della Spezia, in un quadro complessivo in cui è evidente la complessità geografica, da cui ne deriva la complessità morfologica caratterizzata dalla presenza di allineamenti montuosi disposti longitudinalmente in cui versanti digradano rapidamente in prossimità del mare e dall'interposizione di aree più depresse con andamento collinare o scarsamente pianeggiante.
All'origine del quadro morfologico vi è una complessa genesi e struttura geologica in cui emerge che nelle Cinque Terre sono presenti due grandi unità litologico-strutturali: le unità toscane e le unità liguri.
Le unità toscane (sedimentatesi fra il Triassico e l'Oligocene), a seguito di movimenti tettonici, si sono sovrapposte al nucleo apuano di base e, attraverso fenomeni di scorrimento, sono state a loro volta ricoperte dalle falde liguri formatesi tra il Giurassico superiore e l'Eocene. In seguito, fenomeni di erosione e movimenti tettonici successivi, hanno condotto all'affioramento localizzato delle falde toscane sotto le unità liguri. Il complesso meglio definito dell'Insieme ligure è L'unità di Canetolo (età compresa tra 65 e 16 milioni di anni) che affiora come un corridoio obliquo nel tratto compreso tra Corniglia-Manarola e la Madonna di Soviore. Correnti di torbida sono alla base del processo sedimentario che ha dato luogo alla sua deposizione sulla falda toscana, che comprende strati argillosi, calcarei, calcareo-marnosi e arenacei erosi in modo selettivo in relazione al diverso grado di compattezza.
Le unità toscane sono costituite da numerose formazioni carbonatiche del Mesozoico comprese tra le evaporiti del Triassico superiore alla base e le torbiditi oligoceniche del Macigno nella porzione sommitale. Il Macigno fa parte delle Arenarie Zonate di Riomaggiore, ha avuto origine da frane sottomarine ed è costituito dall'alternanza di strati arenacei medi e grossolani e siltiti.
Le caratteristiche geologiche, quali composizione, scistosità, stratificazione, erodibilità sono alla base della particolare morfologia dell'area costiera. Gli agenti esterni come il moto ondoso del mare, incidono in modo diverso in relazione alla diversa natura litologica del substrato: le formazioni scistose-argillose e marnose sono più facilmente erodibili e danno luogo a versanti con minore pendenza e ricchi di depositi detritici, mentre le formazioni ofiolitiche e carbonatiche, più resistenti, danno luogo a pendii più ripidi.
Il territorio è stato probabilmente ricoperto da boschi di querce fino all'inizio del Medioevo e le attività umane, in primis la realizzazione di terrazzamenti per l'uso agricolo, il taglio dei boschi per l'utilizzo del legname, l'ampia utilizzo del castagno come materiale da costruzione, il rimboschimento a conifere, gli insediamenti abitativi, la realizzazione delle vie di collegamento, hanno prodotto significativi effetti sulle comunità vegetali e sulla flora.
In conseguenza il paesaggio appare molto vario e comprende una flora con caratteristiche tipiche della macchia mediterranea. Le specie arboree tipiche sono generalmente il Pinus pinaster (pino marittimo), Pinus halepensis (pino di aleppo), Quercus suber (quercia da sughero) e Castanea sativa (castagno).
Negli ambienti rupestri e litoranei sono presenti numerosissime specie arbustive tipiche mediterranee come il Crithmum maritimum (finocchio di mare) e la Cineraria marina e ben visibili ovunque anche arbusteti di Laurus nobilis (alloro), Rosmarinus officinalis (rosmarino), Thymus (timo), Helichrysum (elicriso), Capparis spinosa (cappero) e Lavandula (lavanda) o anche numerose specie arboree e piante grasse ben visibili da molti sentieri costieri.
Non è raro trovare nei pressi delle abitazioni piante ornamentali tipiche come il Pittosporum (pittosporo).
Il Parco nazionale delle Cinque Terre ha redatto l'elenco completo delle specie vegetali (Angiospermae, Gimnosperme e Pteridophyta) presenti nel suo territorio, in un elenco floristico in cui compaiono 618 specie, cioè 1/10 circa dell'intera flora nazionale e 1/5 di quella regionale. Le ragioni di tale ricchezza vanno ricercate nella varietà di ambienti presenti nel Parco determinata dai contrasti fra substrati geologici diversi e fra aree coltivate e naturali. Le presenze più significative all'interno del territorio del Parco sono riconducibili a tre categorie: specie endemiche o subendemiche, specie di interesse estetico-paesaggistico, specie rare o al limite dell'areale.
Le entità endemiche raccolgono specie con areale molto ristretto o con distribuzione limitata alla Liguria e all'alto Tirreno, tra le quali si possono citare: la crespolina ligure (Santolina ligustica), il fiordaliso di Luni (Centaurea aplolepa lunensis), il cavolo delle rupi (Brassica oleracea robertiana) e la campanula media (Campanula medium). Alcune specie poco competitive trovano rifugio in questi ambienti “ostili” perché la concorrenza con altre specie è minore: è il caso della genista di Salzmann (Genista salzamannii), dell'euforbia spinosa ligure (Euphorbia spinosa ligustica) e della festuca a foglie robuste (Festuca robustifolia). Le piante di interesse estetico-paesaggistico sono spesso le più soggette a raccolta e pertanto molte di esse sono tutelate dalla legge regionale nº 9/1984.
Le informazioni relative alla fauna delle Cinque Terre sono più frammentarie rispetto alle conoscenze floristiche in ragione sia della maggiore complessità dei rilevamenti faunistici sia dell'eterogeneità e abbondanza dei gruppi tassonomici.
La fauna del Parco nazionale delle Cinque Terre è oggi molto diversificata e la molteplicità degli ambienti presenti, che vanno dalle rupi alla macchia, dai boschi ai torrenti, favorisce la presenza di una grande varietà di specie tra le quali si annoverano alcune con un apprezzabile valore naturalistico. La presenza e la diversità di specie nel Parco è correlata anche alle trasformazioni dell'ambiente prodotte dall'uomo, alle attività agricole, all'attività venatoria ed alla operazioni di ripopolamenti di alcune specie.
Nel Parco sono stati introdotti animali a scopo venatorio. Il cinghiale (Sus scrofa), introdotto negli anni settanta, si è probabilmente ibridato con i suini domestici. Questa specie, fortemente prolifera, in assenza di predatori naturali, tende a riprodursi senza controllo, divenendo un problema per la salvaguardia delle colture agricole. Verso la metà dell'Ottocento è stata introdotta la Pernice rossa (Alectoris rufa).
L'ambiente, favorevole allo sviluppo della vita e habitat di svariate specie animali come il gabbiano reale, il falco pellegrino e il corvo imperiale. Tra i mammiferi è presente il ghiro, la donnola, la talpa, il tasso, la faina e la volpe. Tra i rettili che nell'ambiente roccioso prosperano si possono trovare la lucertola muraiola, il ramarro e vari serpenti come il biacco, il colubro di Esculapio e la vipera, mentre attorno ai ruscelli vivono anfibi come rane e salamandre.
Le caratteristiche dei fondali e l'intensità e qualità della luce, che varia in relazione alla profondità, influenzano in modo determinante le presenze animali e vegetali dell'ambiente marino, la cui popolazione stabiliscono tra varie specie strette relazioni di interdipendenza dando luogo a diverse biocenosi marine.
L'area marina del Parco nazionale delle Cinque Terre è caratterizzata da fondali costieri essenzialmente di tipo roccioso ad esclusione delle spiagge di Monterosso e Corniglia, caratterizzata da una significativa ricchezza di specie, sia floristiche sia faunistiche tutelate con l'istituzione dell'Area marina protetta Cinque Terre, suddivisa in tre zone di tutela: riserva integrale, riserva generale e riserva parziale.
A partire dal piano sopralitorale, compreso tra il livello superiore delle maree e il più alto livello raggiunto continuamente dagli schizzi dell'acqua marina, si rileva la presenza di licheni. Nelle spiagge più incontaminate, con substrato sabbioso, si trovano pulci di mare, crostacei, numerosi insetti, ragni e i resti della posidonia depositati sulla spiaggia dalle onde. Tra il livello di alta e bassa marea, nel piano mesolitorale, si incontrano i cirripedi, noti comunemente come "denti di cane" (Balanus perforatus, Chthamalus stellatus, ecc.), i mitili (Mytilus galloprovincialis) e la Patella coerulea. Il piano infralitorale, costantemente sommerso, che va da una profondità di 40 a 50 metri, è caratterizzato da un gradiente di luminosità decrescente cui si accompagna la presenza di specie diversamente sensibili alla luce: nella zona più superficiale si incontrano alghe brune tra le quali la Padina pavonica.
Molto variegata la componente animale: Echinodermi, Celenterati, Spugne. Tra i vertebrati, la cernia (Epinephelus guaza), le orate (Sparus aurata), le occhiate (Oblada melanura) e numerose specie appartenenti alla famiglia dei Labridi. L'area marina fornisce un ulteriore ricchezza faunistica. In una superficie di fondale relativamente ridotta, condividono lo spazio vitale numerosissime specie, alcune poco frequenti in altre località del mar Mediterraneo, come per esempio, le gorgonie Eunicella verrucosa e Paramuricea clavata e il mollusco Luria lurida.
Nell'ambiente marino è presente una vasta gamma di specie vegetali tipiche della zona tra cui la Cymodocea nodosa e la Posidonia oceanica.
Le prateria di Posidonia oceanica, diffuse soprattutto, ma non esclusivamente, su zone sabbiose, contribuiscono a creare microambienti molto ricchi di vita, grazie alla elevata produzione di ossigeno e di materia organica, assolvendo ad alcune importanti funzioni quali: il consolidamento dei fondali, proteggendoli dall'erosione provocata dal moto ondoso, e rifugio a numerose specie animali che si nascondono tra le sue foglie e radici. Per queste ragioni è favorita la formazione di ecosistemi particolarmente ricchi di vita nei quali si annovera la presenza di numerose specie, tra cui il cavalluccio marino (Hippocampus hippocampus).
La Posidonia mostra grande sensibilità nei confronti di diversi agenti esterni, inquinamento, torbidità dell'acqua, pesca a strascico, sottrazione di substrato per edificazione, competizione con altri vegetali (Caulerpa taxifolia).
La particolarità del territorio è da ricercarsi soprattutto nella natura agricola delle Cinque Terre, e nell'esigenza di ovviare alla mancanza di spazi adeguati per l'esercizio dell'agricoltura e la produzione di prodotti che anticamente servivano per il sostentamento delle popolazioni locali.
Sulle terrazze a picco sul mare le popolazioni rivierasche coltivano vitigni, sostanzialmente uve bianche come bosco, albarola, trebbiano e vermentino, da cui si ottiene produzioni vinicole di qualità come il vino DOC "Cinque Terre" ed il famoso vino liquoroso Sciachetrà.
Un'altra produzione agricola particolare della zona è sicuramente l'ulivo, con conseguente produzione di olio d'oliva. Sulla strada "Litoranea" è facile inoltrarsi in veri e propri boschi di ulivo che si trovano anche ai bordi della strada. La produzione legata alla coltivazione arborea produce anche alcuni agrumi come i limoni, da cui viene prodotta una tipica marmellata della zona. Piuttosto sviluppata è anche l'apicoltura con la produzione di miele di castagno, di acacia e millefiori.
Da alcuni anni, grazie alla collaborazione con il Consorzio del Biologico della Val di Vara, sono state sperimentate forme di formaggio stagionato nelle vinacce dello Sciachetrà, e la commercializzazione della farina di castagne della Val di Vara e c'è pure grande interesse per il gallo nero gigante.
Il turismo è una delle fonti più redditizie dell'economia delle Cinque Terre.
Si tratta di forme di turismo molto varie e particolari, che vanno dal classico turismo balneare soprattutto nella località di Monterosso, Manarola, Vernazza e Riomaggiore, in cui vi è la possibilità materiale di accessibilità al mare, a forme di turismo sempre più nuove legate alla cultura locale e alla possibilità di praticare sport in un territorio abbondante di ricchezze naturali.
Monterosso in primis ha una strutturalità recettiva molto attrezzata per l'accoglienza del turismo balneare, ma lungo la costa sono presenti tipiche spiaggette sul fondo di piccole insenature naturali; una di queste è la spiaggia di Guvano.
Sulla tavola dei cinque borghi rivieraschi si possono gustare i tipici piatti della cucina ligure su tutti il pesto genovese, soprattutto le pietanze a base di pesce, con alcune tipicità locali come le famose acciughe sotto sale di Riomaggiore. Uno dei dolci più tipici delle località è senz'altro la crostata con la marmellata di limone.
Anche nel settore enologico, le Cinque Terre sono famose. I vini maggiormente conosciuti prodotti nelle Cinque Terre sono il bianco 5 Terre, ma soprattutto lo sciachetrà, un vino passito ottenuto dalla fermentazione di uve lasciate asciugare su tralicci e simbolo commerciale di queste terre, unico e prodotto solamente in questo territorio.
Le attività umane, specialmente la viticoltura, hanno contribuito a creare un paesaggio unico al mondo nel quale lo sviluppo dei tipici "muri a secco", frutto del secolare e duro lavoro dell’uomo, raggiunge complessivamente quello della famosa muraglia cinese.
Mare cristallino, una rete di sentieri tra le più ricche ed invidiabili nelle zone mediterranee e clima mite hanno fatto sì che le Cinque Terre divenissero una delle mete più ambite dai turisti.
La cucina delle Cinque Terre conserva quasi intatte le caratteristiche di un tempo. Da non perdere: le trofie di farina di frumento e di castagne, condite con il pesto, le torte di verdura, preparate con borragine, bietole, carciofi, zucchini, patate e porri, le tagliatelle ai funghi. E per gli amanti del pesce, acciughe ripiene e fritte, frittura di bianchetti, novellame di acciughe e sardine, o rossetti, seppie di scoglio di zimino, polpo all'inferno e totani ripieni.
E col pesce non si può non ricordare l'origano, l'erba che gli abitanti della provincia della Spezia sono soliti impiegare anche per profumare i pomodori.
Chi giunge alle Cinque Terre può scegliere tra un tuffo in mare o un'arrampicata sui colli, tra una passeggiata nei carruggi o una gita in barca, un pellegrinaggio ad un santuario o un immersione, un pranzo a base di pesce, un giro in mountain bike o un pomeriggio sul windsurf.
Etichette:
borghi,
cinque,
costa,
cucina,
cultura,
fauna,
flora,
ligure,
mare,
storia,
terre,
territorio
giovedì 24 settembre 2015
I GLOBICEFALI
Il globicefalo ha un corpo massiccio dotato di due lunghe pinne pettorali a forma di mezzaluna. La testa, globosa, ha fronte sporgente, e termina con un brevissimo rostro. La pelle è nera, biancastra in un'area tra il petto e il ventre. Le sue dimensioni massime arrivano a 8,7 metri di lunghezza.
A volte si osservano dei gruppi praticamente fermi in superficie, tanto da permettere alle imbarcazioni di avvicinarsi. Si osservano spesso lo spyhopping, il lobtailing e anche il breaching ma questo quasi soltanto negli esemplari più giovani.
Le immersioni che effettua per nutrirsi, o meglio per cercare del cibo, possono durare fino a 10 minuti, il suo soffio supera il metro di altezza. Si possono osservare anche a 600 metri di profondità, ma solitamente le sue immersioni si spingono a poche decine di metri.
La specie è stata fortemente sfruttata nei secoli passati, ma in tempi recenti ancora si osserva abbastanza numerosa soprattutto in due luoghi specifici:
Nell'emisfero sud (associata alle correnti di Humboldt, delle Falkland e del Benguela)
Nell'Atlantico del Nord.
Ciò che più colpisce durante l'osservazione di questi delfini è la colorazione nera assai brillante, mentre la pinna dorsale molto arcuata ne è un'altra caratteristica distintiva.
Spesso capita di sorprendere, in mare aperto, gruppi di globicefali quasi fermi sulla superficie dell'acqua, in posizione di jogging: questo permette di osservare gli animali da distanze molto ravvicinate.
Le attività di superficie sono molte tra gli individui più giovani, che si mostrano spesso interessati alle imbarcazioni.
Gli atti respiratori sono intervallati da immersioni della durata di circa dieci minuti.
L'energico soffio, mai superiore al metro di altezza, nelle giornate serene può essere visto ed udito anche a distanza.
Come tutti i Delfinidi, possiede notevoli doti di agilità e velocità, ma sembra che ne facciano un uso limitato. Quando emergono possono espirare producendo un soffio basso e disordinato. Nel loro profilo d’emersione spicca la forma rotonda del capo e la pinna dorsale bassa. L’immersione in genere non dura più di una decina di minuti. Tipico, del Globicefalo, è l’atteggiamento verticale, con il capo fuori dall’acqua (spyhopping) di certo per ispezionare i dintorni. Caratteristica dell’ecologia dei Globicefali è la presenza di branchi particolarmente numerosi, da 10 a 40 individui, formati da animali tutti imparentati tra loro per linea materna, il gruppo sociale prevede la presenza di una capostipite a cui fanno riferimento gli altri componenti del gruppo (pod). Il Globicefalo è prevalentemente teutofago. Un esemplare adulto necessita dai 50 ai 100 kg di calamari al giorno (a seconda del sesso).
La parola faroese Grindadráp viene spesso tradotta come caccia alle balene, pur trattandosi generalmente di caccia a vari generi di delfini. Questa è infatti una delle più grandi risorse economiche del XX secolo delle isole Fær Øer, arcipelago situato nell'Oceano Atlantico appartenente alla Danimarca.
Quest'attività è stata approvata dalle autorità faroesi ma non dalla Commissione internazionale per la caccia alle balene. Circa 950 Globicefali vengono uccisi ogni anno, molti dei quali durante l'estate. Più raramente vengono cacciate specie come le balene dal naso a bottiglia e delfini dai fianchi bianchi atlantici. La caccia alle balene non è un'attività commerciale e tutti possono parteciparvi. Inizialmente i cacciatori di balene le cacciavano a bordo di barche disposte nell'acqua in posizione circolare. Oggi le barche si dispongono sparse nelle baie o nei fiordi.
La maggior parte dei faroesi considerano importante questa caccia: infatti, essendo una tradizione molto antica, gli abitanti pensano che vada mantenuta. Nonostante tutto, molte comunità lottano per la tutela di questi mammiferi marini. I cacciatori però, hanno fatto in modo che i giornalisti sappiano il meno possibile di quest'attività, per evitare maggiori critiche.
In lingua faroese la parola grind (prefisso di grindadráp) può avere diversi significati. Con l'espressione ein grind si può intendere un branco di balene. Il plurale, grindir, invece, indica due o più branchi di balene. Ma il grind è anche un avvenimento odierno degli abitanti faroesi. La parola grind deriva dalla lingua norrena. In lingua faroese balena di dice grindahvalur o grindafiskur, letteralmente pesce-grind. Dráp significa invece uccisione o macello. Quindi, la giusta traduzione di grindadráp sarebbe uccisione della balena o macello della balena. Comunque, tradizionalmente la parola grindadráp viene resa in italiano come caccia alla balena, sebbene esista una parola, in italiano, che descrive perfettamente questa pratica: mattanza
Nell'antichità, quando si avvistava un branco di balene, si urlava grindaboð. Le parole grind e boð significano rispettivamente balena e urlo. Quindi, la traduzione letterale sarebbe messaggio-grind, ovvero messaggio balena; o ancora, forse più correttamente, notizia-di-grind, cioè notizia di balena, "Eccola".
La caccia alle balene è un'attività svolta da diversi secoli. Essa era inizialmente molto sviluppata in Islanda, sulle isole Ebridi, sulle isole Shetland e sulle isole Orcadi.
Insediamenti, che sono stati fondati dai Norreni dal XII secolo, come Norðragøta, mostrano che nell'antichità la caccia alle balene era molto importante per la sopravvivenza economica della famiglia. Inoltre la carne e il grasso di balena costituiva una buona parte della dieta degli antichi faroesi. Il grasso, in particolare, divenne molto importante per la trasformazione in olio, il quale veniva usato per l'illuminazione e per altri scopi. La pelle veniva infine utilizzata per la produzione di corde e funi.
Per la tutela delle balene nel medioevo furono stese delle leggi. Alcune citazioni di queste norme sono state ritrovate in Norvegia; il documento legislativo più antico ritrovato sulle isole Fær Øer, chiamato "Sheep Letter", risale al 1298. Esso include leggi che limitano il numero di uccisioni di balene.
La caccia alla balena delle Faroe, o grindadráp, viene svolta in vari passaggi. Prima di tutto bisogna avvistare un branco di balene nei pressi di una spiaggia autorizzata. Una volta avvistata, si chiamano altre imbarcazioni che circondano il branco e lo spingono a riva. Infine ogni balena viene spiaggiata, uccisa e lavorata.
Per la caccia alla balena è stato escogitato un sistema molto efficace. Il reverendo Lucas Jacobsøn Debes migliorò e mise in atto questo sistema, il quale fu utilizzato sin dal XVII secolo ad oggi. Il sistema antico consisteva nell'avvistare un branco di balene e, una volta fatto questo, avvisare gli abitanti nei dintorni. A quel punto, con un fuoco si avvisavano anche gli abitanti delle isole vicine, che accorrevano per l'elaborazione della balena cacciata.
Questo sistema è considerato il più antico tra tutti. Questo perché occorrevano molte più persone e di conseguenza molte più barche per uccidere un branco di balene rispetto agli altri metodi. Oggi, comunque, la notizia dell'avvistamento di una balena viene diffuso nei dintorni attraverso cellulari e altri mezzi di comunicazione moderni.
Il piccolo villaggio di Hvalvík (letteralmente baia delle balene) sull'isola di Streymoy è noto per la sua fiorente attività di caccia alle balene.
La localizzazione scelta per la caccia alla balena è ovviamente scelta in base al numero di animali presenti nella zona. È illegale uccidere balene in posti con condizioni inappropriato, ad esempio con villaggi e città nei pressi. Il fondale marino dev'essere in pendenza dalla riva al largo, senza buche più profonde o rialzi per una buona caccia alla balena. Infatti, un fondale leggermente in pendenza è l'ottima condizione per trascinare alla riva una balena intrappolata senza rovinarla. Quando si avvista un branco di balene, le barche si avvicinano ad esse per intrappolarle, e questo, per una buona caccia, deve avvenire all'estremità di una baia o di un fiordo. Sulle isole Fær Øer ci sono 17 città e villaggi in grado di ospitare una buona caccia alle balene, e pertanto sono legali per quest'attività. Questi sono Bøur, Fámjin, Fuglafjørður, Syðrugøta, Húsavík, Hvalba, Hvalvík, Hvannasund, Klaksvík, Miðvágur, Norðskáli, Sandavágur, Sandur, Tórshavn, Tvøroyri, Vágur e Vestmanna. Queste città sono alcune tra i maggiori posti in cui vengono uccise le balene secondo le statistiche, iniziate nel 1854, che continuano fino a oggi.
Negli inizi del XIX secolo, nel Parlamento faroese (Løgting) si decise di rendere le regole sulla caccia alle balene più rigide. Il 4 giugno 1907 il Parlamento danese (in lingua faroese amtmaður) stese una bozza di legge per evitare l'estinzione delle balene. Negli anni seguenti, queste leggi persero importanza, ma nel 1932 fu istituita la prima regola nelle isole Fær Øer sulla protezione delle balene. Dopo questo avvenimento, ogni parte di svolgimento della caccia alle balene fu adattata in base alle leggi. Questo non solo fece in modo che fossero uccise meno balene, ma aiutò anche a conservare la tradizione di un tempo, quando non si riusciva a cacciare tante balene per carenza di tecnologie. Nel regolamento è compreso l'utilizzo degli abiti antichi, che però sono scomodi e inappropriati.
Dal 1832 le isole Fær Øer sono divise in distretti per spartire la caccia alle balene omogeneamente e per evitare un numero eccessivo di uccisioni di questi animali. Le balene vengono trasportate nelle apposite industrie, presenti in tutti i distretti, in modo tale che i residenti abbiano una possibilità di lavoro.
Prima della messa in atto della legge del 1948, il Parlamento danese aveva la responsabilità di supervisione delle balene nelle isole Fær Øer. Oggi la supervisione è responsabilità del governo delle Fær Øer. Il governo ha l'incarico di assicurare che siano rispettati i regolamenti e le disposizioni relative alla caccia della balena pilota. Nella pratica, ogni caccia si svolge sotto la supervisione di un rappresentante locale del potere legislativo che è responsabile della preparazione, della caccia vera e propria e della distribuzione del pescato.
Gli elementi che costituiscono la caccia alla balena sono ami, funi e strumenti per la misurazione delle balene. Una barca equipaggiata in questo modo è sicuramente riservata a questa attività. La barca per la caccia alla balena non è come la tradizionale piccola imbarcazione faroese, ma neanche un grande veicolo come quelli riservati alla guardia costiera, e non contengono i moderni macchinari. La barca per la caccia alla balena è semplicemente descritta come una piccola barca, la quale è inoltre usata per la lavorazione del pescato.
Quando i cacciatori incontrano una balena, hanno la possibilità di spostarla. Si ha questo diritto solo quando si incontra, in un fiordo o in una baia, un branco di balene, e ovviamente quando le condizioni marine lo permettono. Tra il codice di leggi sulla caccia alla balena, c'è una regola che dice che se si incontra un branco di balene lo si può incastrare e portare a riva. Per condurre verso la riva il branco di balene le barche formano un semicerchio. Al segnale del caposquadra del gruppo di cacciatori, delle pietre vengono lanciate nell'acqua dietro il branco di balene, così si è più facilitati a spostare le balene fino alla spiaggia, dove verranno poi trasportate nelle fabbriche per il loro lavoro. Non è permesso, nell'oceano aperto, acchiappare le balene con una fune. Lo spostamento di un branco di balene deve sempre avvenire sotto la supervisione di un'autorità del luogo.
Le balene che non vengono arenate sulla spiaggia sono spesso sottoposte all'estrazione del grasso con un oggetto affilato (chiamato in lingua faroese sóknarongul), dopodiché vengono tirate a terra. Ma, dopo l'accusa di maltrattamento di animali, i cacciatori faroesi hanno iniziato a usare oggetti che permettono alla preda di morire prima, per non farla soffrire troppo (questo oggetto in lingua faroese si chiama blásturongul). Oggi questo utensile viene utilizzato solo per arenare questi cetacei sulla spiaggia. Gli oggetti più primitivi, che furono inventati nel 1993, furono accettati, ma sostituiti da ulteriori utensili più efficaci e moderni. Comunque, gruppi contro la caccia alla balena come Greenpeace e l'Associazione per la tutela dei delfini e delle balene (WDCS) richiedono la diminuzione di uccisione di animali.
Inoltre, nel 1985, le isole Fær Øer hanno vietato l'uso di strumenti come arpioni e lance per l'attività di caccia alla balena, considerati non necessari, ma anche crudeli, perché non uccidono subito la vittima, ma la fanno soffrire.
Dopo aver arenato le balene sulla spiaggia, i cacciatori tagliano il dorso delle prede presso la spina dorsale con uno speciale coltello, chiamato in lingua faroese grindaknívur. Date le circostanze, questo coltello è considerato il miglior modo per uccidere una balena, perché la uccide subito senza farla soffrire tanto tempo. Naturalmente, neanche con questo metodo, la morte è istantanea. Dopo aver tagliato la balena, essa può essere ancora viva pochi secondi o pochi minuti. La media aritmetica che è stata calcolata è di circa 30 secondi.
Durante il taglio alla spina dorsale di una balena, le loro maggiori arterie vengono recise. Questo causa una colorazione del mare circostante rosso-sangue. Questo causa molte polemiche e critiche da parte di gruppi per la tutela dei cetacei.
Da quando armi da fuoco, arpioni e lance non vengono più usate in questa attività, ogni cetaceo deve essere ucciso individualmente sulla battigia utilizzando l'apposito coltello.
Ólavur Sjúrðaberg, presidente dell'associazione faroese dei cacciatori di balene, descrive la caccia alla balena in questo modo: "Sono sicuro che nessuno uccida i propri animali senza sentirsi scosso. È una cosa che vuoi essere fatta nel modo più rapido possibile e con la minima sofferenza per l'animale. Posso ben capire le forti reazioni che la gente ha nei confronti delle immagini della caccia alla balena nelle Faroe, ma ogni tipo di carne era prima una creatura vivente che qualcuno ha dovuto uccidere per poterla avere nel piatto. La gente sembra dimenticare questa semplice realtà della vita".
La maggior parte della dieta tradizionale faroese è costituita da carne. Questo perché, le isole Fær Øer, avendo un clima freddo, poco soleggiato ed estremamente ventoso, non consentono un buono sviluppo dell'attività agricola. Durante l'inverno, i feroesi mangiano per lo più carne salata o cibo essiccato (comprendente pesci, carni - per la maggior parte di pecora-, uccelli e balene). Questo ha fatto che, per gli abitanti degli Stati del Nord Atlantico, la balena fosse una grande e pregiata risorsa cibaria tradizionale.
Il grasso e la carne delle balene vengono prevalentemente mangiate, in queste isole, nelle case più antiche. Questo ha fatto in modo che la carne non venisse venduta al supermercato, ma ridistrubuita gratuitamente tra gli abitanti. Benché le isole Fær Øer esportassero pesce, la balena non viene commerciata (a differenza con quanto avviene, ad esempio, in Islanda). Su circa 956 balene (dati medi tra il 1990 e il 1999), cioè 500 tonnellate di carne e grasso, il 30% è prodotto nell'arcipelago.
La carne e il grasso delle balene costituiscono una specialità tipica faroese. Fino allo scorso secolo, questo cibo costituiva la maggior parte della dieta degli abitanti dell'arcipelago. Carne e grasso possono essere cucinati in vari modi, il più famoso dei quali è grind og spik. Quando è ancora fresca, la carne viene bollita e servita tagliata in fette. La bistecca di balena in lingua faroese è chiamata grindabúffur. Carne, grasso e patate in buccia vengono messi in una pentola e fatti cuocere per circa un'ora. Sottili fette di grasso sono tipicamente accompagnate al pesce essiccato.
Per conservare il cibo, un tempo, sulle isole Fær Øer, si salava o si lasciava all'aria aperta in modo da essiccarlo. Oggi, più frequentemente, si lascia in freezer. Il modo tradizionale è meno utilizzato, ma comunque, di rado, è ancora attivo, soprattutto nei villaggi più piccoli.
I turisti che visitano l'arcipelago, e che vogliono assaggiare le specialità del posto, possono degustare nelle varie feste, soprattutto estive, in cui carne e grasso di balena vengono venduti per le strade delle città e dei villaggi.
La caccia alla balena occupa una parte importante nella cultura faroese. Gli uomini faroesi ritengono che l'attività di grindadráp fa sentire faroesi. Le donne non prendono parte all'attività, ma sono favorevoli a quanto dicono i maschi.
Documenti sulla caccia alla balena esistono dal 1584; le statistiche sulle uccisioni, invece, sono state svolte ininterrottamente dal 1709, anno facente parte del periodo in cui la caccia agli animali era molto sviluppata, ritenuta un hobby, a oggi.
La pesca è conosciuta, in lingua faroese, come skinn, il quale nome era più anticamente un indicatore nell'agricoltura. Uno skinn equivale a 38 chilogrammi di carne di balena e più di 34 chilogrammi di grasso: in totale sono 72.
Le balene uccise ogni anno vengono registrate.
Secondo la lista IUCN di specie minacciate, quella dell'Unione Internazionale per la Conservazione della Natura (IUCN), le balene pilota del nord-Atlantico non sono minacciate. Per IUCN 778.000 balene si trovavano nell'Oceano Atlantico settentrionale nel 1992. Associazioni favorevoli alla caccia alla balena, come la commissione marina dei mammiferi del nord Atlantico, ritengono che la caccia alla balena sia una tradizione da non perdere.
Dal 1997 al 1999, 956 balene all'anno furono uccise, quindi poco più dello 0.1% della popolazione totale.
Nonostante i dati ufficiali, molti gruppi ecologisti sostengono che la caccia sia una grave minaccia alla popolazione dei globicefali, perché ritengono poco affidabile il dato sulla quantità totale di quenti animali.
Sono state scattate molte fotografie durante le attività di caccia alla balena, molte delle quali riportano il mare color rosso sangue causato dalle balene uccise in acqua. Queste immagini, riportate periodicamente dai quotidiani di tutto il mondo ad opera principalmente di una campagna ambientalista promossa da Sea Shepherd a partire da anni recenti (intorno al 2010), hanno causato molte critiche e quindi hanno dato origine ad associazioni per la protezione di questi animali, come la commissione internazionale per la caccia alle balene e la commissione marina dei mammiferi del nord Atlantico (anche NAMMCO).
Molti faroesi (anche se non la totalità della popolazione) ritengono che cacciare le balene sia una cosa complessivamente positiva per mantenere la propria tradizione, che è presente nella loro comunità da secoli e che ne assicurerebbe la sopravvivenza indipendente dal commercio con l'estero e anche nell'epoca futura "post picco del petrolio". Con questa motivazione i faroesi si giustificano contro le varie associazioni per la protezione degli animali, come anche Greenpeace che ritiene che la caccia alla balena sia un inutile insieme di uccisioni. In secondo luogo, questa popolazione, cacciando le balene, ha sviluppato una tradizione culinaria originale.
Un'altra critica riguarda la commestibilità attuale della carne di globicefalo. Negli anni recenti l'autorità sanitaria locale Feroese ha posto limiti crescenti alla consumabilità di questa carne a causa della presenza di mercurio (che, presente nell'ambiente marino, tipicamente si accumula nei pesci più grandi). Il lato paradossale -e problematico nella discussione- è che la critica alla consumabilità del cibo tradizionale è limitato dalla presenza di inquinanti prodotti dall'industria propria di quei paesi da cui provengono le critiche più forti.
LEGGI ANCHE : http://marzurro.blogspot.it/2015/09/le-isole-faer-oer.html
Etichette:
branco,
caccia,
carne,
cetacei,
cibo,
Faer Oer,
globicefali,
grasso,
industrie,
isole,
localizzazione,
mattanza
Iscriviti a:
Post (Atom)