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martedì 7 febbraio 2017

TARTARUGHE IN INVERNO



La tartaruga Caretta caretta è diffusa nel Mediterraneo, ma in Italia sta patendo e rischia l’estinzione.

Le Caretta caretta possono raggiungere i 150 chilogrammi di peso. Sono riconoscibili per il tipico carapace rossastro, e le cinque placche dello scudo dorsale. Nonostante l’attitudine alla respirazione polmonare, possono rimanere parecchio tempo sott’acqua, ma quando le temperature diventano troppo rigide possono soffrire di ipotermia.

Le tartarughe marine restano in medio- alto Adriatico anche nel periodo invernale, quando le temperature dell’acqua scendono sotto i canonici 12° fino ad 8°, 7 addirittura.



In Italia sono presenti anche lungo le coste della Calabria, della Sicilia, della Puglia e della Sardegna. Spiaggiamenti, nel tempo, sono stati riscontrati anche in queste regioni, spesso senza comprenderne la causa. Ma la FAO lancia l’allarme dicendo che accidentalmente, ogni anno, in tutto il Mediterraneo, almeno 60mila tartarughe finiscono nelle reti dei pescatori.





lunedì 2 novembre 2015

ACHILLE LAURO



L'Achille Lauro fu ordinata nel 1938 come Willem Ruys, il suo scafo venne impostato nel 1938 a Flessinga (Paesi Bassi) per i Rotterdamsche Lloyd. La costruzione fu ritardata dalla seconda guerra mondiale e da due bombardamenti e la nave non venne varata fino al luglio 1946. La Willem Ruys venne completata alla fine del 1947 e compì il suo viaggio inaugurale il 2 dicembre 1947. Era dotata di un impianto di desalinizzazione per ricavare acqua potabile dall'acqua di mare. Fino al 1963 rimase in servizio sulla linea Europa-Australia. Successivamente venne usata per crociere nel Mediterraneo.

Nel 1964, venne venduta alla Flotta Lauro e ribattezzata Achille Lauro. Ricostruita estensivamente e modernizzata nei Cantieri del Tirreno di Palermo, rientrò in servizio nel 1966 come nave da crociera. Nell'aprile 1975, mentre si trovava nello stretto dei Dardanelli entrò in collisione con una nave trasporto bestiame, la Yousset, che affondò. Nel 1982, successivamente al fallimento della Flotta Lauro, passò alla Lauro Line della Mediterranean Shipping Company.

Per quattro volte (1965, 1972, 1981 e 1994) fu vittima di incendi, l'ultimo dei quali, scoppiato il 30 novembre 1994 ne causò l'affondamento il 2 dicembre, tre giorni dopo.

Il 7 ottobre 1985, mentre compiva una crociera nel Mediterraneo, al largo delle coste egiziane, venne dirottata da un commando del Fronte per la Liberazione della Palestina (FLP). A bordo erano presenti 201 passeggeri e 344 uomini dell'equipaggio.

Dopo frenetiche trattative diplomatiche, si giunse in un primo momento ad una felice conclusione della vicenda, grazie all'intercessione dell'Egitto, dell'OLP di Arafat (che in quel periodo aveva trasferito il quartier generale dal Libano a Tunisi a causa dell'invasione israeliana del Libano) e dello stesso Abu Abbas (uno dei due negoziatori, proposti da Arafat, insieme a Hani El Hassan, un consigliere dello stesso Arafat), che convinse i terroristi alla resa in cambio della promessa dell'immunità.

Due giorni dopo si scoprì tuttavia che a bordo era stato ucciso un cittadino statunitense, Leon Klinghoffer, ebreo e paralitico: l'episodio provocò la reazione degli Stati Uniti.

Dopo aver lasciato Alessandria d'Egitto e aver effettuato uno scalo in Grecia, l'Achille Lauro si diresse verso Napoli, quando la CIA passò un'informazione, forse proveniente dai servizi egiziani, relativa alla possibile presenza di esplosivo su alcune casse caricate ad Alessandria. Pur non potendo verificare la veridicità dell'informazione il SISMI, in accordo con il comandante della nave, decise per precauzione di far gettare in mare alcune casse di cui non era stato possibile controllare il contenuto.

La nave fu acquisita nel 1987 dalla Mediterranean Shipping Company S.A.. Il 30 novembre 1994, mentre era in navigazione al largo della Somalia, scoppiò un incendio che tre giorni più tardi, il 2 dicembre 1994 ne causò l'affondamento.



Giù in dieci minuti, ruotando su se stessa. Ventiquattromila tonnellate, 30 milioni di dollari e cinquecento sogni di esotismo a buon prezzo risucchiati dall' abisso. Quel patetico vagare sbilenco per sessanta miglia nelle correnti, trascinandosi dietro un grattacielo di fumo e il luccichio dell' incendio mai domato, l' ultimo giro di valzer a 95 miglia al largo della Somalia, poi il viaggio lento di cinquemila metri verso il fondo. Nel buio delle profondità tropicali si è parcheggiata la "grande nave blu", in buona compagnia di tanti relitti di ex giganti del mare uccisi dal fuoco o dai tifoni. Muore così, l' Achille Lauro due giorni e mezzo di agonia e forsennate illusioni di recupero di quella balena di ferro e comfort per una babele di turisti. Pochi minuti prima di andare sotto, l' aveva agganciata a poppa il rimorchiatore olandese "Solano". Un' esplosione improvvisa ma prevedibile, il "Solano" che molla in fretta quella scatola vuota fumante, l' Achille Lauro che si capovolge e sparisce. Crollati i ponti, devastata dal fuoco tutta la fiancata a dritta, il transatlantico degli immigrati prima, poi autobus di lusso per crociere tropicali, ha così smentito una maledizione che la voleva bruciare ma non affondare. La "vecchia signora" maledetta s' era raddrizzata di venti gradi nelle ultime ore, riconquistando una migliore linea di galleggiamento dopo la montagna d' acqua sbattutale addosso per domare le fiamme. I sette compartimenti e le 133 porte tagliafuoco non erano stati capaci di fermare l'incendio. La condanna era scritta. Nicola Coccia ha spiegato che l' affondamento è avvenuto mentre il rimorchiatore "Solano" stava iniziando la manovra di trascinamento della nave. I rimorchiatori in azione erano due. La società aveva un contratto di recupero con la "Murri International Salvage freres" che aveva spedito il "Bison I" il quale ha poi chiesto rinforzi al "Solano". Il patto era che i cinque miliardi, valore della grande ferraglia, andassero divisi a metà. Appena il "Solano" ha iniziato a trascinare l' "Achille", il bastimento è sbandato. E' bastato perché un' altra valanga d' acqua l' invadesse. E si è spalancato il gorgo. La "nave blu" resterà sul fondo, come si conviene, con tutti i suoi tesori compresi i gioielli imprigionati nelle cassaforti delle cabine.



domenica 1 novembre 2015

IL DILUVIO UNIVERSALE



Hanno trovato i resti di un edificio sommerso oltre 7 mila anni fa dall’innalzamento del Mar Nero le cui acque invasero immensi territori dando poi vita al racconto biblico del Diluvio Universale. Li ha fotografati una sonda calata a circa 90 metri di profondità e a 12 chilometri dalla costa turca, da Robert Ballard, l’ esploratore che nel 1985 individuò il relitto del Titanic. La sonda Argo ha inviato alla nave di superficie immagini che mostrano un edificio rettangolare di circa 4 metri per 15 con mura formate da un impasto di fango e canne che si sono conservate grazie al fatto che le acque profonde del Mar Nero sono prive di ossigeno; condizione questa che ha permesso anche la conservazione di grosse tavole lavorate che probabilmente coprivano l’ edificio. L’ occhio di Argo è riuscito a fotografare anche manufatti di pietra inglobati nella fanghiglia del fondo. «La tipologia dell’ edificio e le caratteristiche dei manufatti di pietra - ha dichiarato Ballard - sono perfettamente coerenti con le caratteristiche osservate dagli archeologi nei villaggi neolitici della terraferma. Questo edificio a 90 metri di profondità dimostra che oltre 7 mila anni fa questi territori erano all’ asciutto e il cataclisma che li sommerse dette origine al racconto del Diluvio». Stesso entusiasmo da parte di Fredrik Hiebert, responsabile archeologico della spedizione. «Questa è una scoperta che imporrà di riscrivere la storia delle culture che si svilupparono in quel periodo in Europa, in Asia e nel Medio Oriente. L’ assenza di ossigeno che ha permesso la conservazione di materiali organici lascia sperare che si possano trovare anche ossa di animali e umane». La scoperta è stata fatta nel corso di una spedizione che sta operando nelle acque del Mar Nero in cerca di prove geologiche e archeologiche in grado di confermare una teoria avanzata nel 1997 da due ricercatori americani. Secondo i due studiosi, William Ryan del servizio geologico degli Stati Uniti e Walter Pitman della Columbia University, le più antiche narrazioni dei Sumeri relative a un grande diluvio e il successivo racconto biblico del Diluvio Universale, non sono frutto di pura fantasia, ma il «ricordo» di un cataclisma realmente verificatosi sulle coste del Mar Nero. Secondo gli studiosi, la catastrofe che sconvolse la vita delle popolazioni agricole che vivevano nelle fertili regioni costiere della Russia Meridionale, della penisola balcanica e sulle coste della Turchia settentrionale, fu l’ effetto ultimo di profondi cambiamenti climatico-geologici iniziati millenni prima. Circa 12 mila anni fa l’ ultima glaciazione era giunta al termine e il clima divenne sempre più caldo provocando lo scioglimento dei ghiacci polari; il livello degli oceani cominciò ad aumentare e il bacino Mediterraneo prese a colmarsi, rimanendo ancora separato dal lago d’ acqua dolce esistente dove oggi c’ è il Mar Nero. Attorno ai 7500 anni fa, però, le acque del Mediterraneo superarono la «diga» naturale in corrispondenza del canale del Bosforo e una cascata di acqua salata sempre più imponente iniziò a versare acque salate nel bacino del Mar Nero: il grande lago si alzò di livello dilagando nelle pianure fra i villaggi degli agricoltori neolitici. E per almeno 100 anni le acque avanzarono, sommergendo per sempre i villaggi. Interi popoli dovettero così abbandonare i loro territori alla ricerca di nuove terre: alcuni presero la via dell’ oriente, altri si diressero verso l’ Europa, portando così l’ agricoltura sempre più a occidente. Una catastrofe che cambiò l’ aspetto del pianeta e sconvolse la vita di genti che tramandarono per millenni il ricordo della tragedia, trasformata poi nel «mito» del Diluvio Universale. L’ ipotesi venne presentata con prove geologiche che spinsero Ballard e lo stesso National Geographic ad avviare la ricerca di testimonianze archeologiche che potessero confermare la sorprendente teoria.



Il Diluvio sarebbe avvenuto in conseguenza di uno tsunami (1630 a.C.-1600 a.C.) causato dall'Eruzione minoica di Thera; sembra però che questa eruzione abbia colpito il Mar Egeo e Creta non toccando la Grecia.

Il Diluvio sarebbe avvenuto in conseguenza alla caduta di un meteorite nell'Oceano Indiano (3000-2800 a.C.) creando un cratere di 30 km, generando giganteschi tsunami e colpendo coste e isole. Un'altra ipotesi fa riferimento al presunto cratere corrispondente al lago Umm al Binni, nell'Iraq meridionale, causato probabilmente dalla caduta di un meteorite o di una cometa verso l'inizio della civiltà di Sumeri, cioè tra il 5000 e il 4000 a.C.

Il presunto impatto sarebbe quindi avvenuto in un periodo storico del quale i discendenti di quelle antiche popolazioni potevano aver memoria, e questo spiegherebbe un riferimento a questa catastrofe presente nell'Epopea di Gilgamesh, tanto più che il cratere si troverebbe proprio in una delle aree di nascita della civiltà sumera, circa 100 km a Est della città di Ur dei Caldei. Il fatto narrato nel poema, pur essendo un episodio mitologico, avrebbe fatto riferimento a una catastrofe realmente avvenuta in quella stessa zona alcuni millenni prima.

In questo caso l'impatto, che avvenne in un luogo a quel tempo sotto il livello del mare o comunque molto vicino alla costa, avrebbe provocato frequenti piogge nella zona per l'evaporazione dell'acqua e forse un'enorme tsunami, di cui si sarebbero trovate tracce in un deposito di sedimenti sabbiosi spesso più di due metri scoperto proprio a Ur. L'effetto di questo ipotetico tsunami in Mesopotamia sarebbe effettivamente paragonabile a quello del mitico diluvio universale, mentre è possibile supporre che le piogge abbiano portato prosperità e fertilità del terreno anche in una zona come quella del vicino Deserto Arabico.

Nella mitologia norrena, esistono due diluvi separati. Secondo l'Edda in prosa di Snorri Sturluson, il primo si ebbe all'alba dei tempi, prima che il mondo fosse creato. Ymir, il primo gigante, venne ucciso dal dio Odino e dai suoi fratelli Víli e Vé, e quando Ymir morì, perse così tanto sangue dalle sue ferite che annegò quasi l'intera razza di giganti, con l'eccezione del gigante di brina Bergelmir e di sua moglie. Essi scapparono su una nave e sopravvissero, divenendo i progenitori di una nuova razza di giganti. Il corpo di Ymir venne usato per formare la terra mentre il suo sangue divenne il mare.

Il secondo diluvio, nella linea temporale della mitologia norrena, è destinato ad accadere nel futuro durante il Ragnarök, la battaglia finale tra gli dei e i giganti. Durante questo evento apocalittico, Jormungandr, il grande serpente marino che giace nelle profondità del mare circondante Midgard, il regno dei mortali, salirà dagli abissi marini e si unirà al conflitto; questo causerà un'alluvione catastrofica che sommergerà la terra. Tuttavia, dopo il Ragnarök la terra rinascerà, e comincerà una nuova era per l'umanità.



Secondo il Lebor Gabála Érenn, un libro che racconta la mitologia irlandese, i primi abitanti dell'Irlanda, guidati dalla nipote di Noè, Cessair, vennero quasi tutti spazzati via da un'inondazione 40 giorni dopo aver raggiunto l'isola; si salvò soltanto una persona. Più avanti, dopo che il popolo di Partholon e Nemed ebbe raggiunto l'isola, ci fu un altro diluvio che uccise tutti gli abitanti tranne una trentina, che si sparsero per il mondo. Dato che i primi a scriverne la storia furono monaci cristiani (prima era tramandata oralmente), è possibile che i riferimenti a Noè siano stati inseriti nella storia, nel tentativo di cristianizzare il paese.

Deucalione e Pirra, rispettivamente figli di Prometeo e Epimeteo, erano due anziani coniugi senza figli, scelti per salvarsi dal diluvio che sarebbe caduto sulla terra e quindi per far rinascere l'umanità. Su ciò che avviene dopo il diluvio esistono due versioni, che comunque portano allo stesso epilogo. Secondo la versione di Igino nelle Fabulae (153) i due coniugi hanno, come premio per la loro virtù, diritto a un desiderio, ed essi chiedono di avere con loro altre persone; Zeus consiglia allora ai due superstiti di gettare pietre dietro la loro schiena, e queste non appena toccano terra si mutano in persone, in uomini quelle scagliate da Deucalione, in donne quelle scagliate da Pirra. Invece secondo il racconto di Ovidio (Metamorfosi I, vv. 347-415) l'idea di gettare pietre deriva da una profezia dell'oracolo di Temi, che indicava ai due di lanciare dietro di loro le ossa della loro madre: essi comprendono allora che l'oracolo si riferisce alla Terra, ricordiamo che entrambi sono figli di Titani, e agiscono di conseguenza. Il mito è spesso collocato nell'Epiro, sull'Etna o in Tessaglia.

Il racconto biblico dell'Arca di Noè presenta delle somiglianze con il mito babilonese dell'epopea di Gilgamesh, che narra di un antico re di nome Utanapishtim che fu aiutato dal dio della giustizia e della saggezza, Ea, a costruire un'imbarcazione, nella quale avrebbe potuto salvarsi dal diluvio inviato dal Enlil. La più antica versione dell'epopea di Atraasis (di origine sumera) è stata datata all'epoca del regno del pronipote di Hammurabi, Ammisaduqa (tra il 1646 a.C. e il 1626 a.C.), ed ha continuato ad essere riproposta fino al primo millennio a.C.

La leggenda di Ziusudra, a giudicare dalla scrittura, potrebbe risalire alla fine del XVI secolo a.C., mentre la storia di Utnapishtim, che ci è nota grazie a manoscritti del primo millennio a.C., è probabilmente una variazione dell'epopea di Atraasis di origine sumera.

Le varie leggende mesopotamiche sul Diluvio hanno conosciuto una notevole longevità, tanto che alcune di esse sono state trasmesse fino al III secolo a.C.

Gli archeologi hanno trovato un considerevole numero di testi originali in lingua sumera, accadica e assira, redatti in caratteri cuneiformi. La ricerca di nuove tavolette prosegue, come la traduzione di quelle già scoperte.

Secondo un'ipotesi scientifica, l'evidente parentela tra la tradizione mesopotamica e quella biblica potrebbe avere come radice comune la rapida salita delle acque nel bacino del Mar Nero, oltre 7 millenni fa, a causa della rottura della diga naturale costituita dallo stretto del Bosforo.

L'epopea di Atraasis, scritta in accadico (la lingua dell'antica Babilonia), racconta come il dio Ea ingiunge all'eroe di Shuruppak di smantellare la propria casa, fatta di canne, e di costruire un battello per sfuggire al diluvio che il dio Enlil, infastidito dal rumore delle città, intende mandare per sradicare l'umanità.
Il battello deve disporre di un tetto "simile a quello di Apsû" (l'oceano sotterraneo di acqua dolce di cui Ea è signore), di un ponte inferiore e di uno superiore, e deve essere impermeabilizzato con bitume.
Athrasis sale a bordo con la sua famiglia e i suoi animali, e ne sigilla l'entrata.
La tempesta e il diluvio cominciano, "i cadaveri riempiono il fiume come libellule", e anche gli dei si spaventano.
Dopo 7 giorni il diluvio cessa, e Athrasis offre dei sacrifici. Enlil è furioso, ma Enki lo sfida apertamente, dichiarando di essersi impegnato alla preservazione della vita. Le due divinità si accordano infine su misure diverse, per regolare la popolazione umana.
Della storia esiste anche un'altra versione assira più tarda.
La leggenda di Ziusudra, scritta in sumero, è stata ritrovata nei frammenti di una tavoletta di Eridu. Essa narra di come lo stesso dio Enki avvertì Ziusudra, («egli ha visto la vita», in riferimento al dono di immortalità che gli fu concesso dagli dei), re di Shuruppak, della decisione degli dei di distruggere l'umanità ad opera di un diluvio, il passaggio con la spiegazione di questa decisione è andato perduto. Enki incarica allora Ziusudra di costruire una grande nave, ma le istruzioni precise sono andate anch'esse perdute. Dopo un diluvio di sette giorni, Ziusudra procede ai sacrifici richiesti e si prostra poi di fronte ad An, il dio del cielo, ed Enlil, il capo degli dei. Riceve in cambio la vita eterna a Dilmun, l'Eden sumero.
L'epopea babilonese di Gilgamesh racconta le avventure di Utanapishtim (in realtà una traduzione di «Ziusudra» in accadico), originario di Shuruppak. Ellil (equivalente di Enlil), signore degli dei, vuole distruggere l'umanità con un diluvio. Il dio Ea (equivalente di Enki) consiglia ad Uta-Napishtim di distruggere la sua casa di canne e di utilizzarne il materiale per costruire un'arca, che deve caricare con oro, argento, e la semenza di tutte le creature viventi e anche di tutti i suoi artigiani. Dopo una tempesta durata sette giorni ed altri dodici giorni passati alla deriva sulle acque, l'imbarcazione si arena sul monte Nizir. Dopo altri sette giorni Uta-Napishtim manda fuori una colomba, che ritorna, poi una rondine, che torna indietro anch'essa. Il corvo, alla fine, non ritorna. Allora Uta-Napishtim fa sacrifici agli dei a gruppi di 7. Quelli sentono il profumo delle libagioni e affluiscono "come le mosche". Ellil è infuriato che gli umani siano sopravvissuti, ma Ea lo rimprovera: "Come hai potuto mandare un diluvio in questo modo, senza riflettere? Lascia che il peccato riposi sul peccatore, e il misfatto sul malfattore. Fermati, non lasciare che accada ed abbi pietà". Uta-Napishtim e sua moglie ricevono allora il dono dell'immortalità, e se ne vanno ad abitare "lontano, alla foce dei fiumi".



Nel III secolo a.C. Berosso, gran sacerdote del tempio di Marduk a Babilonia, redasse in greco una storia della Mesopotamia (Babyloniaka) per Antioco I, che regnò dal 323 a.C. al 261 a.C. L'opera è andata perduta, ma lo storico cristiano Eusebio di Cesarea, all'inizio del IV secolo, ne trasse la leggenda di Xisuthrus, una versione greca di Ziusudra ampiamente simile al testo originale. Eusebio riteneva che l'imbarcazione fosse ancora visibile "sui monti corcirii d'Armenia; e la gente gratta il bitume con il quale essa era stata rivestita all'esterno per utilizzarlo come antidoto o amuleto »."

Il protagonista del racconto biblico, che occupa il settimo e l'ottavo capitolo della Genesi, è Noè. Incaricato da Dio di costruire un'arca per raccogliere tutti gli animali terrestri, all'inizio della catastrofe si rifugia all'interno dell'imbarcazione con la moglie, i figli e le loro mogli. Per quaranta giorni e quaranta notti la tempesta ricopre la superficie terrestre, fin sopra a tutte le montagne più alte; dopo quaranta giorni Dio fa cessare vento e pioggia e le acque cominciano a ritirarsi dopo centocinquanta giorni. L'arca - sempre secondo il racconto biblico - si arena sul Monte Ararat: Noè decide quindi di lasciare andare un corvo per capire se le acque si sono abbassate completamente. L'uccello però non fa più ritorno, così decide di impiegare una colomba. La prima volta torna indietro perché non trova una superficie dove posarsi; al secondo tentativo fa ritorno portando un ramo d'ulivo in bocca, a significare che la terra è nuovamente visibile; la terza volta la colomba non torna, e Dio ordina a Noè di scendere dall'arca mentre nel cielo appare uno sfolgorante arcobaleno, segno della nuova alleanza tra Dio e gli uomini.

Precedentemente al diluvio universale 1/3 dell'umanità perse la vita in un'altra alluvione. Una delle cause principali della punizione fu il peccato di molti animali accoppiatisi tra loro anche se di specie differente a cui si riferisce il versetto: ...e la Terra era corrotta infatti, imitando i peccatori, anche il cane peccava unendosi con i lupo ed il gallo con l'anatra; un altro grave peccato fu la perdita sulla terra del seme maschile. I peccati furono l'idolatria, l'omicidio, l'immoralitá (alcuni individui possedevano due donne, una per aver figli e l'altra per soddisfare le proprie passioni; commettevano poi adulterio scambiandosi le mogli) ed infine il furto infatti anche i giudici erano corrotti non rispettando le leggi ed i tribunali (Bereshit Rabbah).
Tra gli animali rimasti vivi non vi furono animali ibridi inoltre i pesci non vennero puniti perché rimasti "innocenti".

Longanime, Dio attese molto la Teshuvah di quella generazione, prima di punire con il diluvio, persino concedendo dei giorni di grande bellezza perché rinsavissero e si pentissero ma questo non avvenne: furono soprattutto nel periodo di lutto per la morte di Matusalemme a cui Dio volle dare onore e per cui attese ancora.
Inoltre, prima di esso, tutte le montagne erano ricoperte di alberi e vegetazione.

Le acque sgorgarono anche dalle riserve sotterranee e, mischiatesi persino al Ghehinnom, esse sciolsero la carne dei peccatori per l'enorme calore delle stesse e bruciarono anche le loro ossa; inizialmente essi cercarono di impedire che l'acqua fuoriuscisse dalle fonti ponendo i loro figli come ostacolo, essi non si pentirono neanche durante l'ultimo momento in cui stava per manifestarsi la giustizia divina: furono tanto sfacciati ed iniqui da dire a Noè che l'acqua non sarebbe giunta nemmeno al loro collo e che ne avrebbero fermato la fuoriuscita con i loro talloni.
La tradizione spiega che essi non resusciteranno durante l'era messianica nemmeno per ricevere la punizione della vergogna.

Dio mantenne tre fonti d'acqua calda zampillante come ricordo: una è in Tiberiade. (Bereshit Rabbah 33, 4; Matanot Kehunà)

Le fonti di quanto sopraccitato sono tratte dal testo "Il Midrash racconta. Libro Bereshit. Parte I" edito da Mamash.

Il Corano racconta una storia simile a quella ebraico-cristiana del diluvio della Genesi, le maggiori differenze sono che solo Noè e pochi seguaci laici entrarono nell'arca. Il figlio di Noè (uno dei quattro) e sua moglie rifiutarono di entrare nell'arca pensando di poter affrontare il diluvio da soli. L'arca coranica si posò poi sul monte Judi, tradizionalmente identificato con una montagna vicino Mossul nell'odierno Iraq; il nome pare derivi dal nome locale del popolo curdo del luogo, anche se questo non è certo.

Ben diversa invece la storia del crollo della diga di Ma'rib in Yemen e la susseguente inondazione, di cui parla lo stesso Corano, che avrebbe innescato mutamenti profondi nel tessuto antropico dell'Arabia, col mescolamento delle tribù arabe settentrionali e meridionali.

Il mito del diluvio è presente nel Satapatha Brahmaa (I, 8, 1). Manu incontra un pesce mitico nell'acqua che gli era stata portata per lavarsi. Esso gli promette di salvarlo se egli, a sua volta, lo salverà. Manu conserva il pesce in un vaso, poi lo porta al mare. Si costruisce un battello e, nell'anno predetto dal pesce, avviene il diluvio. Il pesce nuota verso il battello di Manu e aggancia il suo corno all'imbarcazione conducendola fino alla montagna del nord. Manu è l'unico essere umano sopravvissuto. Pratica l'ascesi e compie un sacrificio dal quale, dopo un anno, nasce una femmina e da lei egli procreò questa posterità, che è la posterità di Manu (op. cit.).

Nella versione riportata nel Bhagavata Puraa (VIII, 24, 7 e segg.) il diluvio sopraggiunge durante il sonno di Brahma. Anche qui la rivelazione degli eventi spetta ad un pesce che poi diventerà lungo un milione di miglia. Per miracolo l'arca della salvezza è concessa al re e al capo dei sacerdoti. Il pesce mitico è un avatara di Visnu.

Nelle leggende delle tribù aborigene che abitarono le Isole Andamane, le persone divennero remissive ai comandi dati loro. Puluga, il dio creatore, cessò di far visita a loro e senza avvertimenti mandò una devastante inondazione. Solo quattro persone sopravvissero: due uomini, Loralola e Poilola, e due donne, Kalola e Rimalola, che ebbero la fortuna di trovarsi su canoe. Quando scesero a terra scoprirono di aver perso il fuoco e tutti gli esseri viventi erano morti. Puluga allora ricreò gli animali e le piante, ma non diede loro ulteriori istruzioni, e non restituì loro il fuoco.



Esistono molte fonti di leggendarie alluvioni nell'antica letteratura cinese. Alcune appaiono come un diluvio mondiale, ma molte versioni vengono reportate come inondazioni locali - un certo numero di esse ha come tema l'alluvione causata da dei ostili; altre sono basate su eventi storici.

Shu Jing, o Libro della Storia, probabilmente scritto attorno al 500 a.C. o prima, inizia con l'Imperatore Yao mentre affronta il problema delle acque alluvionali che hanno "raggiunto i cieli". Questo è il contesto per l'intervento del famoso Da Yu, che riuscì con successo a controllare le acque. E fondò poi la prima dinastia cinese. La traduzione dell'edizione del 1904 datò il diluvio cinese al 2348 a.C. circa, calcolando che questo fu lo stesso anno del diluvio biblico.
Shan Hai Jing, i Classici delle Montagne & Mari, si conclude con il regnante cinese Da Yu che spende dieci anni a controllare un diluvio le cui acque alluvionali avevano raggiunto il cielo.
Chu Ci, il Liezi, Huainanzi, Shuowen Jiezi, Siku Quanshu, Songsi Dashu, e altri libri, come pure molte leggende popolari, contengono tutti riferimenti ad una donna di nome Nüwa. Nüwa riparò i cieli dopo la grande alluvione o calamità, e ripopolò il mondo con le persone. Esistono molte versioni di questa leggenda.
Le antiche civiltà cinesi concentrate attorno al Fiume Giallo, vicino alla odierna Xian, credevano che le alluvioni del fiume fossero causate da draghi (rappresentanti dei) che vivevano nel fiume, quando si arrabbiavano per gli errori commessi dagli uomini.

Nelle tradizioni del popolo Batak, stanziato nell'odierna Sumatra, la terra poggiava su di un enorme serpente chiamato Naga-Padoha che un giorno, stanco del pesante fardello scaricò la terra in mare. Il Dio Batara-Guru sostituì il serpente con una montagna per salvare la propria figlia, che divenne la capo-stipite della razza umana. La terra successivamente venne rimessa sulla testa del serpente.

Secondo la leggenda di Khun Borom, fondatore delle stirpi tai, le trasgressioni degli esseri umani furono punite dal Re degli Spiriti Celesti Phya Theng con una devastante alluvione. I sopravvissuti raggiunsero il Cielo a bordo di un'imbarcazione galleggiante ed ottennero il perdono da Phya Theng. Tornati sulla terra si moltiplicarono generando il caos e Phya Theng inviò il figlio Khun Borom a civilizzarli.

Si venne a creare una razza superiore che si suddivise in diversi gruppi etnici, tra cui i principali furono i siamesi nell'odierna Thailandia Centrale, i laotiani nel Laos e nella Thailandia del Nordest, i lanna nella Thailandia del Nord, gli shan in Birmania e i dai nel sud della provincia cinese dello Yunnan e nel Vietnam del Nord.

Secondo gli antichi abitanti della regione del Jakun, la terra era solo una sottile crosta su un abisso d'acqua. Il Dio Pirman spezzò la crosta, inondando e distruggendo il mondo. In precedenza, Pirman aveva creato un uomo e una donna e li aveva messi in salvo su un'imbarcazione coperta di legno di pulai. Quando la nave finalmente si fermò, la coppia si ritrovò su di una terra smisurata. Il sole non era ancora stato creato e quando si fece la luce, videro sette arbusti di rododendro e sette ciuffi d'erba sambau. La donna concepì un maschio che nacque dal polpaccio destro e una femmina da quello sinistro, dai quali sarebbe discesa tutta l'umanità.

Secondo la leggenda dei Temuan, i peccati degli abitanti di una delle 18 tribù Orang Asli della penisola malese, fecero arrabbiare gli dei e gli antenati che li punirono con un'alluvione, il celau (tempesta della punizione). Solo due persone della tribù Temuan, Mamak e Inak Bungsuk, sopravvissero al diluvio scalando un albero sulla Gunung Raja (Montagna Reale), che divenne il luogo di nascita e la casa ancestrale della tribù Temuan.

Secondo alcuni aborigeni australiani, durante l'era dei sogni una gigantesca rana bevve tutta l'acqua del mondo dando inizio a una grande siccità. L'unica maniera per far terminare la siccità era quella di farla ridere. Dopo che ci avevano provato tutti gli animali australiani, ci riuscì un'anguilla. La rana si svegliò, cominciò a tremare, la sua faccia si rilassò, e alla fine scoppiò in una risata che risuonò come un tuono. L'acqua eruppe dalla sua bocca in un enorme inondazione che riempì tutti i fiumi e ricoprì la terra. Solo le montagne più alte erano visibili, come isole in mezzo al mare. Molti uomini e animali annegarono. I pellicani all'epoca erano completamente neri, mutarono il colore usando argilla bianca e passarono da isola in isola in una grande canoa, a salvare altri animali neri. Da quei tempi, il pellicano è bianco e nero in ricordo della grande alluvione.

Secondo la tradizione dei Ngati Porou, una tribù maori della costa est della Nuova Zelanda, Ruatapu si arrabbiò quando il padre Uenuku elevò il fratello minore Kahutia-te-rangi a un rango più alto del suo. Ruatapu invitò Kahutia-te-rangi e un grande numero di giovani di alto rango nella sua canoa, e li portò in mare dove li annegò. Egli chiamò gli dei del mare e li inviò a distruggere la terra con un'inondazione. Mentre lottava per non annegare, Kahutia-te-rangi invocò delle megattere (paikea in Maori) per portarlo in salvo. Fu l'unico sopravvissuto del diluvio e prese il nome Paikea.

Diverse storie di alluvioni e diluvi si sono tramandate nella tradizione orale dei polinesiani, anche se nessuno di essi raggiunge le proporzioni del diluvio biblico.

Gli abitanti di Ra'iatea narrano che i due amici Te-aho-aroa e Ro'o stavano pescando e accidentalmente svegliarono il dio dell'oceano Ruahatu con i loro ami da pesca. Arrabbiato, il dio disse loro che avrebbe fatto scomparire Ra'iatea sotto il mare. Te-aho-aroa e Ro'o chiesero perdono, e Ruahatu li avvertì che l'unico modo per salvarsi era quello di portare le loro famiglie sull'isolotto di Toamarama. Questi così fecero, durante la notte l'isola scivolò sotto l'oceano e riaffiorò il mattino successivo. Nessuno sopravvisse ad eccezione delle due famiglie, che eressero sacri marae (templi) dedicati al dio Ruahatu.

Una leggenda simile è presente a Tahiti, secondo cui l'intera isola affondò nell'oceano ad eccezione del monte Pitohiti, dove una coppia di esseri umani riuscì a fuggire con i propri animali e a sopravvivere.

Nelle Hawaii, Nu'u e Lili-noe sopravvissero ad un'inondazione rifugiandosi sulla cima del Mauna Kea. Nu'u fece sacrifici alla luna, alla quale aveva erroneamente attribuito la sua salvezza. Kane, il dio creatore, discese sulla terra su di un arcobaleno, e spiegò a Nu'u il suo errore, e accettò il suo sacrificio.

Nelle Isole Marchesi, il dio della guerra Tu si rattristò per i rimproveri ricevuti dalla sorella Hii-hia. Le sue lacrime passarono attraverso il cielo fino al mondo di sotto e crearono un torrente di pioggia che portò via tutto sul suo cammino. Solo sei persone sopravvissero.

Nella mitologia Mi'kmaq, il male e la cattiveria tra gli uomini crebbero al punto che essi cominciarono a uccidersi tra di loro. Questo causò un grande dispiacere al dio-creatore-sole, che pianse lacrime che divennero pioggia, sufficienti a creare un diluvio. Le persone tentarono di salvarsi salendo su canoe di corteccia, ma solo un uomo vecchio e una donna sopravvissero e popolarono la terra.

Secondo la mitologia hawaiana gli dèi fecero venire un grande diluvio e solo Nu'u si salvò costruendo una grande nave dove furono ospitati tutti gli animali.

Nella mitologia Caddo, quattro mostri crebbero in altezza e potenza fino a che non raggiunsero il cielo. A quel tempo, un uomo udì una voce che gli ordinò di piantare una canna vuota. Egli così fece, e la canna crebbe alta molto in fretta. L'uomo entrò nella pianta con sua moglie e una coppia di tutti gli animali buoni. Le acque si alzarono, e coprirono tutto tranne la cima della canna e le teste dei mostri. Una tartaruga quindi uccise i mostri, le acque si placarono e i venti asciugarono la terra.

Nella mitologia Hopi, le persone disobbedirono molte volte al loro creatore Sotuknang. Egli distrusse il mondo la prima volta col fuoco, poi col gelo, e lo ricreò entrambe le volte per le persone che ancora seguivano le sue leggi, che sopravvissero nascondendosi sottoterra. Quando le persone divennero corrotte e bellicose per la terza volta, Sotuknang li portò dalla Donna Ragno, ed ella tagliò canne giganti e riparò le persone nelle cavità dei gambi. Sotuknang quindì causò una grande inondazione, e le persone galleggiarono sulle acque nelle loro canne. Le canne quindi si posarono su di una piccolo pezzo di terra, e le persone emersero, con tanto cibo quanto ne avevano all'inizio. Le persone viaggiarono con le loro canoe, guidati dalla loro saggezza interiore (che si dice derivò da Sotuknang). Viaggiarono verso nord-est, passando per isole sempre più grandi, fino a che non raggiunsero il Quarto Mondo. Quando raggiunsero il Quarto Mondo, le isole si inabissarono nell'oceano.

Nel manoscritto azteco chiamato Codice Borgia (Codice Vaticano), si racconta della storia del mondo diviso in età, l'ultima terminò con un grande diluvio per mano della dea Chalchitlicue.

Nella mitologia inca, Viracocha distrusse i giganti con una grande inondazione, da cui si salvarono soltanto due persone, all'interno di caverne sigillate, che poi ripopolarono la terra.

Nella mitologia del popolo maya-quiché (e nel Popol Vuh) si parla di un Gran Diluvio di pioggia nera, inviato dal dio Haracan per distruggere gli uomini di legno.

Nella mitologia Mapuche, la leggenda di Trenten Vilu e Caicai Vilu racconta che una battaglia tra due mitici serpenti provocò una grande inondazione; e successivamente creò il mondo Mapuche così come lo conosciamo.

Nella mitologia Muisca, il dio Chibchacún causò l'inondazione dell'altopiano di Bogotá. Il dio superiore Bochica ritornò dal suo esilio volontario, cavalcando un arcobaleno, e asciugò la pianura aprendo la cascata del Tequendama con un colpo del suo bastone sulle rocce. Quindi punì Chibchacún obbligandolo a portare la terra sulle sue spalle. Ogni volta che si scrolla le spalle causa un terremoto.





lunedì 12 ottobre 2015

I VORTICI



Esistono  quattro mega vortici situati nell’oceano Indiano, a nord ovest dell’Australia. Il più impressionante di questi giganteschi vortici anticiclonici, chiamati in inglese eddies mesoscale, e che si muovono in senso orario nel nostro emisfero e antiorario in quello boreale, muove una massa d’acqua la cui superficie totale è pari alle aree di Lombardia, Sicilia e Veneto messe insieme, e sprofonda per più di 1000 metri nell’oceano. Si muove molto lentamente, si ritiene si sia formato a causa dello spostamento di correnti di acqua fredda e salata, che tendono a scendere verso il fondo e di quelle calde e a minore salinità, che salgono verso la superficie e che si spostano dal Pacifico verso l’Africa meridionale. Si parla di una portata d’acqua 250 volte più ampia di quella del Rio delle Amazzoni. L’acqua fredda e salata precipitando verso il fondo come in un una catarrata crea, nell’incontro con una corrente di acqua calda e salata che tende a salire verso la superficie, un vortice. Si parla infatti di circolazione termoalina, ed è nel mare della Groenlandia, che la circolazione oceanica globale ha il suo settore chiave.

Le osservazioni scientifiche del fenomeno dei vortici nell’oceano Indiano, scoperto nell’ultimo lustro, si stanno dimostrando molto utili anche per lo studio dei fenomeni meteorologici che si formano proprio in quella zona del Pacifico e che influenzano le condizioni atmosferiche di Australia e zone limitrofe.

Michael Bernitsas, ingegnere dell’università del Michigan, ha messo a punto il primo dispositivo in grado di generare energia elettrica sfruttando la forza delle correnti ed i vortici creati dalle stesse.

Il dispositivo si chiama VIVACE che è l’acronimo di Vortex Induced Vibrations for Aquatic Clean Energy e si basa sullo sfruttamento delle vibrazioni provocate dai vortici che si creano con lo scorrere delle correnti anche di soli 2 nodi. Solitamente questo tipo di vibrazioni sono origine di danni anche molto gravi a ponti e piattaforme marine ed è questa la prima volta che la ricerca invece di cercare di eliminare il problema, lo amplifica e addirittura lo ricrea in laboratorio con il fine costruttivo di creare energia pulita, rinnovabile e su larga scala.



Grazie a un progetto di ricerca sui neutrini dell‘Istituto Nazionale di Fisica Nucleare è stato possibile osservare per la prima volta nel Mediterraneo la presenza di estese catene di vortici marini alla profondità di oltre i 2500-3000 metri, nel cuore degli abissi del “mare Nostrum”. In pratica si tratta di grandi strutture d’acqua, del diametro di circa 10 chilometri, lentamente in moto alla velocità di circa tre centimetri al secondo. Lo studio è stato effettuato da un gruppo di ricercatori dell’Istituto di Fisica Nucleare di Roma e Catania e dei Laboratori Nazionali del Sud. Le misure oceanografiche svolte nell’ambito dell’esperimento denominato “Nemo” (Neutrino Mediterranean Observatory), che prevede la realizzazione di un apparato strumentale per la rivelazione su fondali oceanici del passaggio di neutrini di alta energia provenienti dallo spazio profondo, hanno indagato il mar Ionio a una profondità di 3.500 metri.

“Lo scopo di Nemo è riuscire a vedere il risultato delle interazioni dei neutrini, che sono particelle che interagiscono molto poco e quindi hanno bisogno di tanta materia per dare luogo a qualche evento che produca particelle elementari che provino il loro passaggio” – come spiega Antonio Capone, uno degli studiosi dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare. I dispositivi dell’esperimento “Nemo” sono collocati sul fondale marino in modo che l’acqua funzioni da “schermo” rispetto ai raggi cosmici, le cui interazioni con la strumentazione potrebbero fornire dei falsi positivi, mentre si dà la caccia ai neutrini. E’ stata così posizionata una serie di strumenti per la misura delle correnti e della temperatura, raccogliendo lunghe serie temporali annuali di dati. L’analisi di questi dati ha messo in luce la presenza di queste grandi catene di vortici marini profondi che la comunità oceanografica non si attendeva in un bacino chiuso come il Mediterraneo.

Si tratta di vortici che a quella profondità non si sono mai riscontrati, se non negli oceani. Potrebbero essere arrivati lì da lontano, come se fossero stati trasportati da una sorta di fiume sottomarino e in questo senso possono dirci qualcosa sia sull’acqua del luogo da cui provengono. Di certo la scoperta di questi insoliti vortici, per giunta molto grandi (più di quanto si poteva immaginare), ha spiazzato oceanografi e tanti altri studiosi. Tali formazioni vorticose possono essere definite insolite o addirittura anomale per un mare chiuso come il Mediterraneo, ma non di certo per un oceano, come l’Atlantico o il Pacifico. Ad esempio, quando le acque del Mediterraneo attraversano lo stretto di Gibilterra, si vanno a inabissare nell’Oceano Atlantico formando grandi vortici lentiformi che si propagano a circa 1.500 metri di profondità, perché le acque del nostro mare hanno una densità maggiore rispetto a quelle oceaniche atlantiche. Secondo Giueppe Manzella, oceanologo dell’Enea, uno dei principali enti di ricerca italiano, “Un fenomeno di questo genere potrebbe essersi verificato anche nel caso del sistema Adriatico-Mediterraneo durante lo scorso inverno, infatti, si sono formate nell’Adriatico delle acque più dense, che quindi tendono a inabissarsi verso il fondo del mare. Queste acque più pesanti una volta uscite dal bacino Adriatico, probabilmente si sono disposte secondo una configurazione lenticolare, che solitamente è dello spessore di poche centinaia di metri, e hanno cominciato a ruotare per effetto della rotazione terrestre ma anche in seguito alla dinamica della stessa uscita dal bacino. Si tratta di fenomeni che, normalmente, possono sopravvivere qualche mese prima di disperdersi e che rappresentano per il mare un elemento di vitalità, dato che portano con sé delle quantità supplementari di ossigeno”. Di questi vortici, comunque, non è stata ancora chiarita l’origine.

Gli autori di questa interessante ricerca non escludono un’origine abbastanza remota legata a processi di instabilità fluidodinamica nelle acque dell’Adriatico, come è stato spiegato, o anche del mar Egeo. Questi processi darebbero appunto luogo a strutture rotanti e lentiformi in grado di percorrere centinaia di chilometri senza perdere le loro caratteristiche dinamiche e idrografiche. Ma questi vortici potrebbero essere generati anche dall’interazione di opposte correnti marine, derivate da forti “gradienti di densità e salinità” che scorrono lungo gli abissi. Nel Nord Atlantico, attorno alla Groenlandia e nel mar di Norvegia, ed attorno alla Penisola Antartica, nel Mare di Weddel e di Ross, l’acqua alla superficie diventa talmente densa che scivola fino al fondo dell’oceano, verso gli abissi. Sul fondo, le correnti si organizzano in grandi fiumi che attraversano gole sottomarine e scorrono lungo i fianchi delle scarpate continentali e delle grandi dorsali oceaniche. Esse costituiscono l’analogo abissale delle grandi correnti superficiali oceaniche, come la Corrente del Golfo, ma hanno una velocità alquanto inferiore, pochi centimetri al secondo. Con questo moto lentissimo le correnti abissali immettono sul fondo di tutti gli oceani acque di origine polare che mescolandosi con acque meno fredde raggiungono una temperatura di circa +1° +2°.




lunedì 28 settembre 2015

L'ISOLA FERDINANDEA



Tra la Sicilia e l’Africa settentrionale, il Mediterraneo centrale è caratterizzato dall’allineamento dei bacini subsidenti di Pantelleria, Linosa e Malta che, nel loro insieme, sono organizzati a formare il Canale di Sicilia. Il canale è il prodotto della collisione tra l’Africa e l’Europa, la quale è ancora in atto e si esercita lungo traiettorie circa nord-sud. In questo contesto, il canale è controllato da due sistemi principali di faglie, orientati rispettivamente NW-SE e circa nord-sud. Le discontinuità che individuano e bordano i bacini sono sede di subsidenze veramente importanti, che superano 3.000 m nella fossa di Linosa.

A partire da circa 8 milioni di anni fa, nel canale ha preso posto un vulcanesimo toleiitico e alcalino, che ha creato le due isole vulcaniche di Pantelleria e Linosa ed un numero elevato di apparati sottomarini, molti dei quali ancora sconosciuti. Il vulcanesimo è ancora attivo e le eruzioni storiche sono tutte sottomarine; per alcune di esse abbiamo solo indicazioni vaghe, altre sono state segnalate ma mai controllate; possediamo notizie certe solo delle due attività che hanno portato alla formazione delle isole effimere di Ferdinandea (1831) e Foerstner (1891), quest’ultima 4-5 km a NW delle coste dell’Isola di Pantelleria.
La nascita dell’Isola Ferdinandea fu annunciata, tra il 22 ed il 26 giugno del 1831, da terremoti avvertiti fino a Marsala, Trapani, Palermo e che a Sciacca causarono lesioni alle abitazioni e caduta di calcinacci. Poi in successione, il 28 giugno il capitano C.H. Swinburne della marina inglese segnalò di aver «visto un fuoco in lontananza in mezzo al mare»; il 2 luglio l’acqua ribolliva alla Secca del Corallo (oggi Banco Graham), dove alcuni marinai, che raccoglievano il pesce ucciso dalle attività vulcaniche, svennero nelle loro barche a causa delle esalazioni; il 5 luglio forti scosse sismiche furono sentite fino a Marsala; infine, il 7 luglio 1831, F. Trefiletti, comandante del Gustavo, vede per primo l’isola, 33 miglia a sud-ovest da Sciacca, alta 30 palmi sul pelo del mare, che «sputa cenere e lapilli».



Di notte l’attività era ben visibile da Sciacca, Menfi, Mazzara e Marsala. L’eruzione, ormai subaerea, costruì un’isola, il cui colore dominante era il nero e che risulterà alla fine alta 60 m, larga poco meno di 300 e con un perimetro di quasi 1 km. Le attività eruttive interagirono per tutto il tempo con il mare e il cratere, rotondeggiante e largo poco meno di 30 m, fu sempre invaso dall’acqua, che si abbassava e s’innalzava nel condotto e, traboccando, formava un fangoso ruscello che scendeva fino al mare e lo intorbidiva. Tutto l’edificio era saturo d’acqua. Sui pendii del cono, a 25 m dalla riva, furono descritti due laghetti, il più basso pieno di acque giallo-solfuree, il secondo di acque giallo-rossastre, che ribollivano gorgogliando; probabilmente erano crateri secondari, perché durante l’eruzione furono segnalate fino a tre alte colonne di fuoco che s’innalzavano contemporaneamente.

Il governo borbonico, intanto, aveva inviato sul posto il fisico Domenico Scinà, il quale compilò una relazione intitolata Breve ragguaglio al novello vulcano apparso nel mare di Sciacca. Il professor Carlo Gemmellaro, docente di Storia Naturale presso l'Università degli Studi di Catania, provvide invece a stilare una relazione circostanziata che suscitò l'interesse di molti illustri uomini di cultura scientifica, soprattutto stranieri.

L'isoletta suscitò subito l'interesse di alcune potenze straniere europee, che nel mar Mediterraneo cercavano punti strategici per gli approdi delle loro flotte, sia mercantili che militari.

L'Inghilterra, che col suo ammiraglio sir Percival Otham si trovava nelle acque dell'isola, dopo un'accurata ricognizione prese possesso di questa in nome di sua maestà britannica. Il 24 agosto giunse sul posto il capitano Jenhouse, che vi piantò la bandiera britannica, chiamando l'isola "Graham". Il nome "Banco di Graham" è utilizzato nella cartografia recente per indicare il banco sottomarino costituente l'area su cui si trova il vulcano che diede origine all'isola Ferdinandea.

Questi avvenimenti fecero montare una protesta degli abitanti del Regno delle Due Sicilie, che assieme a quelle del capitano Corrao, arrivarono anche alla casa borbonica. Si propose di nominare l'isola "Corrao", chiedendo inoltre al re provvedimenti contro il sopruso inglese.

Il re Ferdinando II che rivendicò l'isola come territorio dello stato borbonico.
Il 26 settembre dello stesso anno la Francia, per contrastare l'azione inglese, inviava il brigantino La Fleche, comandato dal capitano di corvetta Jean La Pierre, il quale recava con sé una missione diretta dal geologo Constant Prévost insieme al pittore Edmond Joinville, al quale si devono i disegni di quel fenomeno eccezionale.

I francesi fecero approfonditi rilievi e ricognizioni accurate fino al 29 settembre, e il materiale raccolto venne inviato al viceammiraglio della flotta francese De Rigny e relazionato alla Société géologique de France, durante la seduta del 7 novembre 1831. Il contenuto di queste relazioni stabiliva che l'isola, sotto l'azione delle onde, aveva subito diverse frane, che a loro volta avevano provocato grandi erosioni sui fianchi; quindi i crolli avevano trascinato con sé una grande quantità di detriti. Pertanto l'isola, non avendo una base consistente, si poteva inabissare bruscamente.

Come gli inglesi, anche i francesi approdarono sull'isola senza chiedere alcun permesso a re Ferdinando II di Borbone, nonostante l'isola fosse sorta entro acque prossime alle coste siciliane. Anzi i francesi la ribattezzarono "Iulia" in riferimento alla sua comparsa avvenuta nel mese di luglio, poi posero una targa a futura memoria con la seguente iscrizione: "Isola Iulia – i sigg. Constant Prévost, professore di geologia all'Università di Parigi – Edmond Joinville, pittore 27, 28, 29 settembre 1831" e in segno di possesso venne innalzata sul punto più alto la bandiera francese.



Il re Ferdinando II, constatando l'interesse internazionale che l'isoletta aveva suscitato, inviò sul posto la corvetta bombardiera Etna al comando del capitano Corrao il quale, sceso sull'isola, piantò la bandiera borbonica battezzando l'isola "Ferdinandea" in onore del sovrano.

Sembrava che l'evento non suscitasse altro clamore, invece giunse sul posto il capitano Jenhouse con una potente fregata inglese e il Corrao, grazie alla mediazione del capitano Douglas, ottenne di rimettere la questione ai rispettivi governi.

L'isola avrebbe goduto, all'epoca, dello stato di Insula in mari nata, cioè, in quanto emersa dal mare, la prima nazione o persona a mettervi piede avrebbe potuto rivendicarla legittimamente (in questo caso gli Inglesi). Il fatto che l'isola fosse nata nelle acque siciliane, però, complicava la situazione.

Non passò molto tempo che il pronostico francese cominciò ad avverarsi. Le persone che viaggiavano sul vaporetto Francesco I riferirono che l'isola aveva un perimetro di mezzo miglio e l'altezza si era abbassata.

Verso la fine d'ottobre del 1831 il governo borbonico prese posizione ufficiale e inviò ai governi di Gran Bretagna e Francia una memoria con la quale dette loro notizia dell'evento, ricordando che a norma del diritto internazionale la nuova terra apparteneva alla Sicilia. Tuttavia, a quanto sembra i due governi non risposero e fra le due nazioni, entrambe interessate a favorire le loro posizioni strategiche nel Mediterraneo, iniziarono le rivalità.

Il 7 novembre di quell'anno, l'inglese Walker, capitano dell'Alban, misurò l'isola, che risultava ridotta a un quarto di miglio con un'altezza di venti metri. Il 16 novembre si scorgevano soltanto piccole porzioni e l'8 dicembre il capitano Allotta, del brigantino Achille, ne constatò la scomparsa, mentre alcune colonne d'acqua si alzavano e si abbassavano. Dell'isola rimaneva un vasto banco di roccia lavica.

Nel 1846 e nel 1863 l'isoletta è riapparsa ancora in superficie, per poi scomparire nuovamente dopo pochi giorni. Di essa rimangono solo i molti nomi avuti in seguito alla disputa internazionale: Giulia, Nerita, Corrao, Hotham, Graham, Sciacca, Ferdinandea.

Con il terremoto del 1968 nella valle del Belice le acque circostanti il banco di Graham furono viste intorbidirsi e ribollire, cosa che venne interpretata come un probabile segnale che l'isola Ferdinandea stesse per riemergere. Così non fu, ma venne segnalato un movimento nelle acque internazionali di alcune navi britanniche della flotta del Mediterraneo. A scanso di equivoci i siciliani posero sulla superficie del banco sottomarino una targa in pietra, sulla quale si legge:

« Questo lembo di terra una volta isola Ferdinandea era e sarà sempre del popolo siciliano. »
Andata successivamente distrutta, probabilmente colpita da un'ancora, la targa è stata prontamente sostituita.

Successivamente il vulcano è rimasto dormiente per decenni, con la cima circa 8 metri sotto il pelo dell'acqua.

Nel 1986 fu erroneamente scambiato per un sottomarino libico e colpito da un missile della U.S. Air Force nella sua rotta per bombardare Tripoli.

Nel 2002 una rinnovata attività sismica nella zona ha indotto i vulcanologi a congetturare sopra un imminente nuovo episodio eruttivo con conseguente nuova emersione dell'isola. Per evitare in anticipo una nuova disputa di sovranità, dei sommozzatori italiani hanno piantato un tricolore sulla cima del vulcano di cui si aspettava la riemersione. Anche allora le eruzioni non si sono verificate e la cima di Ferdinandea è rimasta circa 8 metri sotto il livello del mare.

Nel mese di settembre del 2006, una spedizione subacquea della LNI di Sciacca e del Dipartimento della Protezione civile Siciliana, coordinata dal professor Giovanni Lanzafame dell'Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia di Catania, da bordo di un'unità della Guardia Costiera, ha posizionato un sensore di pressione sulla vetta sottomarina della Ferdinandea, per il monitoraggio dell'attività sismica dell'importante edificio vulcanico. Il "sarcofago" contenente lo strumento di misurazione registratore è stato recuperato da un'altra équipe il 22 settembre 2007.

L’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV) ha compiuto dal 17 al 21 luglio 2012 la prima campagna di monitoraggio sottomarino nell’area, effettuando un rilevamento geofisico ad alta risoluzione sopra il Banco Graham (-6,9 m sotto il livello marino) e i banchi Terribile (-20 m) a est e Nerita (-16,5 m) a NE con la nave da ricerca Astrea dell’ISPRA. Questa prospezione ha permesso di riconoscere la presenza di 9 crateri vulcanici monogenici, distinti fra loro, a cui dovrebbero corrispondere altrettante eruzioni avvenute nell'area.





LA LURIA LURIDA



Luria Jousseaume, è un genere di molluschi gasteropodi appartenente alla famiglia delle Cypraeidae.

Ha conchiglia leggermente convessa nella parte dorsale e con un’apertura stretta e caratterizzata dalla presenza di numerosi dentelli. Di colore marrone più o meno intenso può presentare anche tre bande nere sul dorso: la superficie è lucida e liscia al tatto. Raggiunge la lunghezza massima di 5 cm.
Vive in fondali rocciosi ad una profondità compresa tra i 2 ed i 40 metri (spesso la si rinviene nelle grotte ricche di spugne).



Attivo soprattutto durante la notte è un animale assolutamente unico nel suo genere ed uno dei pochissimi esemplari di cipree del Mediterraneo.
Di giorno si ripara sotto le rocce e/o in cavità è un animale di estrema lentezza, quando trova ostacoli rimane come interdetto, quasi come se pensasse al da farsi.
Carnivoro a sessi separati,la conchiglia è abbastanza pesante.





L'ORATA



L’orata è un pesce osseo di mare e di acque salmastre, appartenente alla famiglia Sparidae.
Il nome deriva dalla caratteristica striscia di color oro che il pesce mostra fra gli occhi.

L’orata è presente in tutto il bacino del Mediterraneo e nell’Atlantico orientale, dall'estremo sud delle isole Britanniche a Capo Verde. È un pesce strettamente costiero e vive tra i 5 e i 150 m dalla costa; frequenta sia fondali duri che sabbiosi, è particolarmente diffusa al confine fra i due substrati. Normalmente conduce una vita solitaria o a piccoli gruppi. È una specie molto eurialina, tanto che si può frequentemente rinvenire in lagune ed estuari, ma è estremamente sensibile alle basse temperature. È molto comune nei mari italiani.

Si distingue per avere il profilo del capo assai convesso e la mandibola leggermente più breve della mascella superiore. Sulla parte anteriore di ciascuna mascella sono presenti 4-6 grossi denti caniniformi, seguiti da 3-5 serie di denti molariformi superiori e 3-4 inferiori.
Il corpo è ovale elevato e depresso. La pinna dorsale è unica con 11 raggi spinosi e 12-13 molli. Sono assenti le scaglie sul muso, sul preorbitale e sull’interorbitale. La linea laterale include 75-85 squame. Il dorso è grigio azzurrognolo ed i fianchi argentei con sottili linee grigie longitudinali. Una banda nera e una dorata sono interposte fra gli occhi. La regione scapolare è nera, questo colore continua sulla parte superiore dell’opercolo, il cui margine è rossastro. La pinna dorsale è grigio azzurrognola, con una fascia mediana longitudinale più scura.
La lunghezza massima dell’orata è 70 cm, ma la più comune è tra i 20 e 50 cm; può raggiungere un peso di 10 kg circa.
Le orate sono ermafrodite proterandriche: la maggior parte degli individui subiscono l’inversione sessuale all’età di 2 anni (33-40 cm di lunghezza). La riproduzione (con più cicli di ovodeposizione) avviene tra ottobre e dicembre.

L’alimentazione in natura consiste prevalentemente di molluschi e crostacei a cui sminuzza il guscio con le forti mascelle provviste di denti.

L'orata è oggetto di pesca sportiva e commerciale su tutte le coste mediterranee. In crescita è l'allevamento in acquacoltura, importante voce dell'economia di molte località costiere lungo tutta la costa europea mediterranea. In Italia particolarmente rinomato è l'allevamento (in vasca a terra come in gabbie in mare) nelle lagune adriatiche e lungo le coste toscane soprattutto nella Laguna di Orbetello e nella zona di Capalbio e Ansedonia.
Le orate pescate presentano carni più magre di quelle d'allevamento (dovuto alla minor possibilità di muoversi e alla maggior quantità disponibile di cibo di queste ultime); segnalato anche un maggior contenuto di acidi grassi essenziali.



La pesca con la canna viene effettuata soprattutto in zone di costa bassa e sabbiosa con la tecnica del surf casting ma, data la frequenza e l'adattabilità della specie, anche in località di foce o dove siano presenti coste rocciose non troppo alte. La pesca consiste nel proporre al pesce l'esca locale (di solito si usano le cozze con guscio o crostacei ed anellidi marini) facendola arrivare sul fondo. Il terminale è molto semplice e deve essere molto lungo(circa 1,5/2 metri) in modo da non far insospettire il pesce e ad avvertire bene le toccate. L'orata è infatti un pesce molto sospettoso ed ha l'abitudine di girare l'esca tra le labbra più volte prima di ingoiarla, è quindi importante non ferrare subito la canna ma aspettare l'abboccata (la punta della canna si fletterà di più rispetto alle mangiate precedenti). L'esca ideale è la cozza locale ma talvolta anche il granchietto di sabbia e di scoglio può essere molto produttivo. Negli ultimi anni si sono diffusi come esche alcuni "vermi" marini quali il bibi, l'arenicola, l'americano o il coreano, con risultati spesso ottimi anche se con esemplari di misura ridotta. L'amo da utilizzarsi deve essere di misura abbastanza grande e molto robusto per non soccombere sotto la poderosa dentatura del pesce. L'esca d'eccellenza per cercare di catturare un'orata di media/grande dimensione è il granchio di sabbia, innescato talvolta con 2 ami.

L'orata è uno dei prodotti della pesca più diffusi e pregiati del mar Mediterraneo; in Italia rappresenta - assieme al branzino, alla cernia, al tonno, al pesce spada ed al dentice - il pesce più gradito e consumato. Essendo facilmente allevabile, l'orata gode di un costo al dettaglio piuttosto accessibile, anche se la differenza qualitativa tra un pesce allevato intensivamente (con l'impiego di mangime in pellet a base di farine animali) ed uno selvatico è piuttosto marcata; un buon compromesso è costituito dall'orata di vallicoltura.
In cucina, l'orata si presta ad ogni tipo di preparazione, ma le dimensioni e la provenienza possono costituire variabili estremamente utili a prediligere una o l'altra destinazione culinaria. L'orata pescata e fresca può essere consumata: cruda (al carpaccio o come sushi), al forno (al naturale, al cartoccio, in crosta di verdure ecc.), ai ferri (con carbone o legna, a gas diretto o su pietra lavica, su resistenze elettriche), in padella (anche solo i filetti), lessata o al vapore (in una marmitta o in pentola a pressione), in carpione ecc.
Gli esemplari più grossi (>2-3kg), se non preparati al cartoccio (comunque piuttosto impegnativo), necessitano la smembratura in tranci o filetti, in quanto la cottura ai ferri o al forno risulterebbe particolarmente laboriosa.



L'orata è un pesce tendenzialmente magro ma, come per il branzino, presenta una differenza abbastanza evidente tra il pesce allevato (più grasso) e quello pescato (oltre il 250% di grassi in meno); suggerisco quindi di prediligere sempre cotture abbastanza blande, non troppo intense o prolungate, che possano determinare la disidratazione/scolatura dell'acqua e del grasso contenuti in eccesso nella carne e sotto la pelle.
Alcuni utilizzano l'orata anche per comporre la farcia delle paste ripiene.
L'orata contiene una buona porzione di acidi grassi polinsaturi (ma non nelle stesse quantità del pesce azzurro) e monoinsaturi, mentre l'apporto di colesterolo è moderato; si presta dunque all'alimentazione contro il sovrappeso e alla dieta per la cura delle dislipidemie (ipercolesterolemia o ipertrigliceridemia).
L'apporto energetico è fornito prevalentemente dalle proteine ad alto valore biologico (con amminoacido limitante leucina) e in minor parte dagli acidi grassi (con prevalenza dei monoinsaturi o dei polinsaturi a seconda che si tratti di un'orata di allevamento o selvatica).
L'apporto vitaminico è buono e predilige le concentrazioni di niacina (vit. PP) e riboflavina (vit. B2).



domenica 20 settembre 2015

IL MAR EGEO



Il mare era tradizionalmente conosciuto col nome di Arcipelago, nome con cui poi si indicarono le isole del mare ed in seguito passò ad indicare ogni gruppo di isole, dato che il mar Egeo è noto per la grande quantità di isole e arcipelaghi.

Nei tempi antichi furono proposte varie spiegazioni al nome Egeo. Si diceva che fosse stato nominato così per la città greca di Aigai (Ege), o Aigaion, "mare delle capre", un altro nome di Briareo, uno degli antichi ecatonchiri, o, specialmente tra gli ateniesi, per Egeo, il padre di Teseo, che si gettò in mare quando vide la nave del figlio con le vele nere, poiché credeva che l'eroe fosse morto cercando di portare a termine la sua missione. In realtà Teseo aveva solo dimenticato di issare vele bianche, che avrebbero invece simboleggiato la buona riuscita dell'impresa.

Una possibile etimologia deriva dal greco  aiges = "onde", da cui "mare ondoso", si consideri anche aigialos "costa".

La linea di costa odierna risale circa al 4000 a.C. Prima di allora durante il picco dell'ultima era glaciale (circa 16000 a.C.) il livello del mare era 130 metri più basso, e c'erano larghe pianure costiere al posto dell'odierno mar Egeo settentrionale. Quando vi si insediarono gli esseri umani, le odierne isole, inclusa Milo con la sua importante produzione di ossidiana, erano probabilmente ancora connesse con la terraferma. La forma generale della linea costiera odierna apparve circa nel 7000 a.C., mentre il livello del mare post-era glaciale sarebbe continuato a risalire per altri 3000 anni.

Le successive civiltà dell'età del bronzo in Grecia e la loro connessione con mar Egeo hanno dato origine al termine generale di civiltà egea. Nei tempi antichi il mare fu il luogo d'origine di due antiche civiltà: la civiltà minoica a Creta e quella micenea nel Peloponneso.

In seguito sorsero le città stato (poleis) di Atene e Sparta, tra le molte altre che andavano a costituire l'area di influenza ateniese e la civiltà ellenica. Platone descriveva i greci che vivevano intorno all'Egeo "come rane intorno ad uno stagno". Il mar Egeo fu poi invaso dai persiani e dai romani, amministrato in seguito dall'impero bizantino, dai veneziani, conquistato dai turchi selgiuchidi e dall'impero ottomano fino alla resurrezione greca del 1821 della quale fu teatro importante. L'Egeo fu il luogo d'origine della democrazia nonché culla della civiltà ellenica, e le sue rotte furono le vie di contatto tra varie civiltà differenti del Mediterraneo orientale.

Molte delle isole del mar Egeo hanno porti e baie sicuri, ed in passato la navigazione attraverso il mare era più semplice che viaggiare attraverso il terreno accidentato della terraferma greca e dell'Anatolia. Su le altre isole vengono estratti il marmo ed il ferro. Le isole più grandi hanno alcune valli fertili e pianure in genere costiere. Le isole del mar Egeo, 1 415 tra isole e isolotti, appartengono nella quasi totalità alla Grecia e solo due isole appartengono alla Turchia: Tenedo ed Imbro.

Il mar Egeo è un mare del mar Mediterraneo situato tra la parte meridionale della penisola balcanica e quella occidentale dell'Anatolia. A nordest è connesso con il mar di Marmara e quindi con il mar Nero attraverso lo stretto dei Dardanelli ed il Bosforo. Le isole egee si trovano al suo interno, mentre viene delimitato a sud dalle isole di Creta e Rodi.

L’Egeo è una delle nove regioni geografiche della Grecia. È suddiviso in due regioni amministrative, l’Egeo Settentrionale e l’Egeo Meridionale che a est confinano con la Turchia. L’Egeo bagna anche le coste occidentali della Turchia, suddivise amministrativamente in nove province che costituiscono la regione egea. La zona settentrionale del Mar Egeo a nord del 40º parallelo, è detta Mar di Tracia.



Il mar Egeo copre un'area di circa 214 000 km², e misura circa 610 km in longitudine e 300 km in latitudine. La profondità massima è 3 543 m al largo della costa orientale di Creta. Le isole egee si trovano nelle sue acque, con le seguenti isole che delimitano il mare a sud (da ovest verso est): Cerigo, Cerigotto, Creta, Caso, Scarpanto e Rodi.

La parola arcipelago veniva applicata in origine al mar Egeo ed alle sue isole. Molte delle isole egee o delle catene di isole sono in effetti estensioni delle catene montuose della terraferma. Una catena si estende attraverso il mare fino a Chio, un'altra si estende attraverso l'isola di Eubea fino a Samo, ed una terza si estende attraverso il Peloponneso e Creta fino a Rodi, dividendo l'Egeo dal Mediterraneo.

Il trattato di Losanna del 1923, che fissò i confini della Grecia, attribuì a tale Paese la maggioranza di tali isole, le quali fanno parte di due divisioni amministrative, l'Egeo Settentrionale e l'Egeo Meridionale. Alla Turchia furono invece assegnate le isole Imbro e Tenedo, di fronte allo stretto dei Dardanelli.

Il nome Isole italiane dell'Egeo, note semplicemente come Dodecanneso, è presente soprattutto nella storiografia italiana per riferirsi alle isole egee conquistate durante la guerra italo-turca del 1912, e annesse al Regno d'Italia con il trattato di Losanna dello stesso anno. Il Dodecanneso, con Rodi e Castelrosso, dopo una breve occupazione tedesca iniziata l'8 settembre 1943 venne occupato dagli inglesi. Nel 1947 anche il Dodecanneso passò alla Grecia.

Le insenature dell'Egeo cominciando da sud e muovendosi in senso orario includono su Creta, il golfo di Mirabella, la baia di Almyros, la baia di Souda ed il golfo di Canea, mentre verso la terraferma si trovano il mar di Myrtoön ad ovest, il golfo Saronico a nordovest, il golfo di Petali, da cui si entra nel golfo meridionale di Eubea, il golfo di Volos, da cui si entra nel golfo settentrionale di Eubea, il golfo di Salonicco a nordest, la penisola Calcidica, che include i golfi di Cassandra e del Monte Athos, a nord il golfo di Orfani e la baia di Kavala; le restanti insenature si trovano in Turchia: il golfo di Saros, il golfo di Edremit, il golfo di Dikili, il golfo di Çandarli, il golfo di Smirne, il golfo di Kusadasi, il golfo di Gökova ed il golfo di Güllük.

Le acque superficiali del mar Egeo si muovono in senso antiorario, con le acque a salinità superiore del Mediterraneo che si muovono verso nord lungo la costa occidentale della Turchia prima di venire disperse dal flusso di acqua meno denso proveniente dal mar Nero. La densa acqua del Mediterraneo scende in profondità sotto il flusso del mar Nero a circa 23 - 30 m e quindi scorre attraverso lo stretto dei Dardanelli dentro il mar di Marmara ad una velocità di 5- 15 cm/s. Il flusso in uscita dal mar Nero scorre verso ovest lungo le coste settentrionali della Grecia.

L'oceanografia fisica del mar Egeo viene controllata soprattutto dal clima regionale, dall'introduzione di acque fresche dai grandi fiumi che scorrono nell'Europa sudorientale e dalle variazioni stagionali nella corrente superficiale proveniente dal mar Nero.

Le analisi del mar Egeo durante il 1991 ed il 1992 hanno rivelato tre masse d'acqua distinte:

Acque egee di superficie - di 40 - 50 m di spessore, con temperature estive di 21 - 26 °C e temperature invernali che variano da 10 °C al nord ai 16 °C del sud.
Acque egee intermedie - si estendono dai 40 - 50 m ai 200 - 300 m con temperature oscillanti tra i 11 °C ed i 18 °C.
Acque egee di profondità - si estendono al di sotto dei 200 - 300 m con temperature (13 - 14 °C) e salinità (39,1 - 39,2%) uniformi.

Nel punto più profondo raggiunge i 2591 metri di profondità, precisamente a nord dell’Isola di Scarpanto. .

In seguito alla ratifica da parte greca (1° giugno 1995) della Convenzione internazionale sul diritto del mare (stipulata nel 1982 a Montego Bay, Giamaica), si acuiva nuovamente la tensione fra Grecia e Turchia per il controllo del Mare Egeo. La Convenzione, infatti, autorizzava gli Stati firmatari a estendere le proprie acque territoriali fino a 12 miglia marine dalla linea di base. Già la precedente regola delle 6 miglia riduceva grandemente, a vantaggio della Grecia, gli spazi internazionali nel Mare Egeo. L'eventuale estensione dei limiti territoriali a 12 miglia da parte greca avrebbe portato in pratica allo sbarramento dell'Egeo, creando una fascia continua di acque territoriali greche fra le isole di Eubea e Samo a N e fra l'estremità sudorientale del Peloponneso e Rodi a S. La prospettiva appariva intollerabile alla Turchia (ma in realtà anche a molti altri Paesi), giacché avrebbe potuto impedirle il libero accesso non solo ai suoi porti sull'Egeo, ma anche alla capitale Ïstanbul e al Mar Nero. Il problema si riproponeva negli stessi termini anche per la sovranità sugli spazi aerei, la cui gestione appariva più delicata avendo già dato luogo a diversi incidenti (compreso l'abbattimento di aerei militari turchi nel 1995-96). La tensione tra i due Paesi raggiungeva un momento critico nel gennaio 1996, quando la Turchia effettuava uno sbarco sull'isolotto disabitato di Imia, sotto sovranità greca, a NE dell'isola di Calimno (Kálymnos): una mediazione internazionale impediva che vi fossero conseguenze più serie, ma non si è trattato di un fatto isolato, dal momento che più volte in precedenza, la Turchia aveva sollevato il problema. Oltre agli aspetti strategico-militari e marittimi, nella controversia giocava un ruolo importante l'aspettativa che i fondali dell'Egeo presentassero idrocarburi in quantità economicamente rilevanti, anche se al riguardo, non essendo stati effettuati sondaggi, si avevano semplicemente delle stime. Soltanto un accordo sull'estensione delle acque territoriali e, soprattutto, su una divisione consensuale delle zone esclusive di sfruttamento tra Grecia e Turchia avrebbe consentito a entrambi i Paesi di procedere, nel caso, all'avvio di operazioni di ricerca. La diplomazia internazionale, anche sotto gli auspici dell'Unione Europea, ha tentato più volte di risolvere la questione dell'Egeo e sono stati firmati al proposito accordi bilaterali fra Grecia e Turchia (Dichiarazione di Madrid, firmata anche dagli Usa, nel 1997) nei quali le parti si impegnano al rispetto reciproco e rinunciano alla forza per la soluzione del problema. Con l'aprirsi del nuovo secolo, le relazioni bilaterali fra i due Paesi, pur permanendo tese in particolare per la questione di Cipro, attraversano una fase di distensione.


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IL GRAMPO



È identificato come il delfino dai graffi; gli individui anziani a causa della gran quantità di lesioni cutanee sono spesso totalmente bianchi.
Le caratteristiche cicatrici presenti sulla superficie del corpo permettono di riconoscerne con facilità la specie di appartenenza, gli individui hanno infatti l'aspetto segnato da una vita di combattimenti e da profonde cicatrici e graffi causati dai denti degli altri grampi.

Le dimensioni medie di un esemplare adulto si aggirano attorno ai 3.5 m, con un peso medio di 300-400 kg; le dimensioni massime possono arrivare a sfiorare i 4.5 m con un peso attorno ai 600 kg. Il Grampo presenta una colorazione caratteristica che ne permette un facile riconoscimento da parte del “whale-watcher”: la tonalità passa dal grigio chiaro, tipica degli esemplari giovani, al grigio acciaio con presenza di graffiature bianche che tendono a rendere meno omogenea la tinta, soprattutto nella zona rostrale.
Il nuoto a differenza di altre specie, è piuttosto lento, con emersioni per la respirazione all’incirca ogni 15 sec. Vivono generalmente in branchi composti da un numero variabile di individui da 3 ad oltre 50. Un atteggiamento curioso è il cosiddetto “headstanding” (o verticale) nel quale l’animale si pone a testa in giù con la coda fuori dall’acqua, mentre già più rara è la situazione opposta, il cosiddetto “spyhopping”, comportamento peraltro facilmente osservabile nei Delfinidi. Il Grampo è un animale che predilige acque temperato-calde (con una temperatura che non scenda al di sotto dei 10°C).

Il capo è senza rostro; la fronte bombata, ma non globosa, presenta un caratteristico solco a forma di V nel mezzo, con l’apice rivolto verso il basso. La mascella superiore sporge leggermente. La pinna dorsale si trova circa a metà del corpo, molto alta, appuntita e falcata. Pinne pettorali lunghe e appuntite. Questa specie ha pochissimi denti perché si nutre di prede viscide quali i calamari.

La livrea è molto caratteristica: i neonati sono grigio chiarissimo uniforme, ma crescendo diventano prima di color brunastro e poi del grigio ardesia dell’adulto. Con il passare degli anni il corpo viene ricoperto da numerosissime ed estese graffiature chiare, che finiscono col fargli assumere una colorazione quasi bianca, soprattutto nella parte anteriore.
Si ritiene che tali graffiature siano un effetto di interazioni sociali, ma l’eventuale funzione adattativa di questa particolarissima depigmentazione rimane un mistero. Si pensa che alcuni graffi derivino dai morsi dei calamari. In alcuni esemplari è visibile una gualdrappa sottile e appena accennata. Sul lato ventrale è presente una macchia biancastra a forma di ancora, simile per forma e posizione a quella dei globicefali.

Anche se è capace di notevole agilità (può raggiungere i 25 km/h.), il grampo ha di solito movimenti lenti e rilassati. A differenza dei delfino comune e del tursiope, le barche non sembrano attrarre questo cetaceo, ma non è difficile avvicinarlo. Si ritiene che sia in grado di compiere buone immersioni, ma dati oggettivi al riguardo non esistono. Il grampo tira la coda fuori dall’acqua e rimane immobile per parecchi secondi, in verticale a testa in giù.

Particolari della riproduzione poco conosciuti: sembra che in Mediterraneo si accoppino in autunno. Le femmine partoriscono un piccolo lungo circa 1,5 m; il peso del neonato non è noto.



Si nutre soprattutto di cefalopodi e occasionalmente di pesci.

Si pensa che segua uno schema di movimenti stagionali, ma non se ne conoscono i particolari.

Di solito vive in piccoli gruppi di 5-10 esemplari (ma a volte si raggruppano anche 100 animali) che spesso si sparpagliano in cerca di cibo dando così l’impressione di essere solitari. Occasionalmente sono stati avvistati gruppi di ben 1000 esemplari. Lo si può vedere anche insieme ad altre specie di cetacei, soprattutto globicefali.

È una specie circumglobale pelagica e di mare profondo, ma non è raro incontrarlo vicino a costa. È frequente nei mari tropicali e temperati caldi di tutto il mondo (Oceano Atlantico, Oceano Pacifico e Oceano Indiano), in estate si spinge anche in acque più fresche.

Nel Mar Mediterraneo è piuttosto comune, soprattutto in Mar Ligure, nell'Arcipelago Toscano e a nord della Sicilia.

Le minacce per questo cetaceo sono rappresentate dall'inquinamento acustico dovuto principalmente all'attività militare (sonar), ai sismografi di profondità ed alla pesca accidentale. Inoltre l'uomo compete sottraendo le prede, principalmente calamari. Tuttavia, tenuto conto della vastità dell'areale e della consistenza della popolazione, la Lista rossa IUCN ha attribuito a questa specie lo status "LC" (rischio minimo).


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IL PESCE BALESTRA



La presenza di Balistes carolinensis (Gmelin, 1789) in Mediterraneo è documentata da tempi remoti, addirittura dal Neolitico, con riferimento alle coste mediterranee di Israele. Il limite termico di questo pesce oscilla tra un minimo di 18°C e un massimo di 24 °C (Whintehead & al., 1984), non tollerando, questa specie, generalmente acque al di sotto dei 12°C.
Il nome “pesce balestra” nasce da una caratteristica tipica della prima pinna dorsale che, dotata di robusti raggi spinosi, può essere sollevata o abbassata a piacimento con un movimento a scatto; a riposo, la pinna e i suoi robusti raggi alloggiano in un’apposita scanalatura presente sul dorso, scomparendo quasi alla vista.
Il movimento a scatto, simile a quello effettuato per armare il grilletto nelle antiche armi da fuoco a pietra focaia (e forse, precedentemente, anche delle balestre), ha ispirato il singolare appellativo, che deriva dalla traduzione del termine anglosassone “trigger fish”, che letteralmente significa poi “pesce grilletto”.

Nel Mediterraneo, la famiglia è rappresentata da una sola specie che ha una forma inconfondibile. Non è molto comune.

Ha corpo ovale, molto compresso lateralmente e piuttosto alto. E’ ricoperto di pelle spessa, cuoiosa e armata interamente di placchette a losanga, che formano una specie di corazza. La testa termina con un muso appuntito. Le aperture branchiali sono ridotte a delle fessure inclinate, situate poco al disopra dell’inserzione delle pinne pettorali. L’occhio è piccolo, situato molto in alto verso il profilo superiore della testa e da esso parte un solco diretto in avanti. Le aperture nasali sono piccolissime, di forma rotonda e situate molto vicine al margine anteriore dell’occhio. La bocca è piccola, con labbra grosse e carnose e porta sulla mascella superiore due file di denti accostate tra loro. Nella mandibola è presente una sola fila di otto denti (centrali più robusti). La linea laterale ha un decorso sinuoso, visibile negli stadi giovanili, non evidente negli adulti, tranne la parte codale.

Le pinne dorsali sono due. L’anteriore è formata da tre spine che si possono ripiegare indietro alloggiandosi in un solco dorsale. La posteriore è ampia e a ventaglio, molto simile alla anale alla quale è opposta. I raggi spinosi della prima dorsale sono articolati tra loro in modo che quando si trovano in posizione eretta, non è possibile abbattere indietro il primo se non si agisce sugli altri due, che formano così come una sicura dì scatto in un grilletto. Da cui deriva il nome di pesce Balestra.
La pinna codale varia di forma a secondo la età e negli adulti gli apici si prolungano quasi in filamento. Le pettorali sono piccole e tondeggianti, mentre le ventrali sono trasformate in una placca mobile, rugosa esternamente, unita a una membrana sostenuta da una dozzina di spine, che si congiunge con l’apertura anale.



La colorazione va dal grigio piombo a grigio azzurrastro, con riflessi verdastri sui fianchi e biancastri sul ventre. Sul dorso grigio violaceo.

Vive in vicinanza della costa su fondali scogliosi e su quelli detritici e algosi con sottofondo di sabbia. E’ un modesto nuotatore e si lascia avvicinare dai sub. La riproduzione si ha verso la fine di giugno o al principio di luglio. La femmina prepara un nido soffiando sulla sabbia del fondo e asportando boccate di sabbia e ciottoli in modo da creare un infossamento, in cui deposita le uova. Durante l’icubazione (circa 3 giorni) il maschio fa la guardia poco distante. Le uova si schiudono di notte. Le larve sono plantoniche. Si nutre di molluschi e crostacei, spezzando coi denti gusci e conchiglie. Si cattura occasionalmente con reti strascico o con tramagli. Di ottimo sapore e in alcuni luoghi la sua carne è molto apprezzata. Arriva fino a 40 cm. di lunghezza, ma la taglia media è sui 25 cm. Raro in Adriatico settentrionale.

B. capriscus è pescato per la qualità delle sue carni, ma sono stati segnalati avvelenamenti da ciguatera (non in Mediterraneo).



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LA RICCIOLA FASCIATA



Questa piccola ricciola è una specie tropicale e subtropicale diffusa nelle regioni calde dell'Oceano Atlantico che è penetrata in anni recenti nel mar Mediterraneo in virtù della tropicalizzazione di questo mare. È segnalata per il bacino occidentale lungo le coste francesi e spagnole ed è abbastanza occasionale. Nei pressi dell'isola di Lampedusa sembra essersi stabilita una discreta popolazione.
Ha corpo allungato e fusiforme, compresso leggermente di lato, discretamente alto (più convesso superiormente che nella parte inferiore). E' coperto di squame piccole e cicloidi. La linea laterale è priva di scudetti.
La bocca è ampia, la mascella è più estesa posteriormente e arriva all'altezza del margine anteriore dell'occhio. I denti sono minuti e disposti a fascia sia nella mascella superiore sia in quella inferiore.
La prima pinna dorsale, normalmente, ha 8 raggi spinosi (negli individui adulti il primo e l'ottavo raggio regrediscono), di cui i centrali sono i più alti. La seconda dorsale ha un raggio spinoso  seguito da 28-33 raggi molli, che dopo il lobo iniziale appena accennato, si mantengono di altezza leggermente decrescente. La pinna anale è poco più della metà della seconda dorsale, ha due piccoli raggi spinosi distaccati, a cui fa seguito un altro raggio spinoso  e 17-20 raggi molli; il suo andamento è simile a quella della seconda dorsale. Le pinne pelviche sono più lunghe delle pettorali. La coda è molto forcuta. Ai lati del peduncolo caudale è presente una carena carnosa e due fossette.


Il colore del dorso è scuro con riflessi rosa-violacei, mentre le regioni addominali e i fianchi sono bianco madreperlaceo. Sul capo presente una fascia scura, che va dall'occhio alla nuca. La pinna dorsale è scura alla base e va schiarendosi verso il margine, fino a diventare biancastro. La pinna anale ha margini e lobo biancastri, per il resto è scura. Le pinne pettorali si scuriscono verso la base. Le pinne pelviche sono biancastre, ma gran parte della superficie dorsale è scura. Una macchia nerastra si nota nella parte centrale della pinna caudale, la quale, nell'insieme, è più chiara delle altre pinne. I giovani portano 8 fasce scure, di cui 7 verticali e discontinue sui fianchi e una sul peduncolo caudale.
Ha abitudini più costiere dei congeneri e frequenta fondali di 50-130 m. I giovani si radunano in superficie sotto oggetti galleggianti. Si nutre soprattutto di calamari. Misura fino a 75 cm e supera il peso di 5 kg.
La sua presenza nei mari italiani sta divenendo sempre più frequente, specie a sud.

Vive solitamente a notevoli profondita' ma sembra che faccia anche migrazioni verticali fino in superficie. Si nutre di Crostacei, Cefalopodi e organismi pelagici.

Si cattura con reti a strascico, occasionalmente con reti da circuizione e talvolta abbocca anche negli ami dei palangresi superficiali.

Ha carni un po' molli ma dal gusto prelibato specie se cucinate per la zuppa.
Gli esemplari piccoli hanno l'abitudine di stare sotto l'ombrello delle Meduse. Sembra che fra maschi e femmine ci sia un dimorfismo sessuale non sempre costante, rappresentato dalla presenza di una colorazione grigiastra e dall'assenza di macchie nere negli esemplari di sesso femminile.

L'animale e' parassitato dai Trematodi Lecithocladium crenatum e Prosorchis legendrei.



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