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martedì 12 aprile 2016

LO STORIONE



Lo storione comune (Acipenser sturio Linnaeus, 1758) è il più grande pesce d'acqua dolce e salmastra diffuso in Europa. Famoso per offrire carni pregiate e caviale.

In Italia la specie è autoctona. Era segnalata in tutti i mari anche se la presenza era rilevante unicamente nel mare Adriatico, oltre che nel Po. Nel 1892 era localizzata fino a Torino. A causa degli sbarramenti la risalita è di fatto impedita.

Secondo diverse fonti, la specie è oggi estinta in Italia allo stato selvatico; in Europa oramai esiste una sola popolazione riproduttiva nel fiume Garonna. Segnalazioni di storioni pescati nelle acque italiane possono riferirsi a una specie affine (Acipenser naccarii) o ad esemplari introdotti dall'uomo.

Gli storioni sono Pesci Ganoidi della famiglia Acipenseridae. Sono caratterizzati dall'avere il corpo allungato, muso prolungato in un rostro più o meno acuto, occhi piccoli, spiracoli piccoli, bocca inferiore, piccola, protrattile, preceduta da 4 bargigli, priva di dentatura, branchie coperte dall'opercolo, ano arretrato, pinne dorsale e anale uniche molto arretrate, ventrali addominali, codale eterocerca. Hanno lo scheletro interno cartilagineo, corda dorsale persistente, scudi ossei cutanei a superficie ruvida disposti in 5 serie longitudinali sul tronco, 4 sulla coda. Gli scudi cutanei formano alla parte superiore del capo un rivestimento completo. Sul corpo, nelle zone non occupate dalle serie di scudi, la pelle è provvista di scutelli ruvidi. Sul margine dorsale della codale fulcri ossei. Il colore è grigio al dorso, più o meno scuro, biancastro al ventre. Hanno la vescica natatoria comunicante col tubo digerente, l'intestino provvisto di valvola spirale, dietro il piloro delle appendici piloriche.
Gli storioni sono pesci anadromi che vivono generalmente nelle acque marine, per lo più in prossimità delle foci dei fiumi, e risalgono questi ultimi per la riproduzione. Alcune specie vivono però sempre nel mare (Acipenser sturio nel Mar Nero) o sempre nelle acque dolci (A. ruthenus). Depongono un grande numero di uova piccole. Si nutrono di pesci e d'invertebrati. Sono distribuiti in tutto l'emisfero settentrionale tra il 30° e il 70° di latitudine.

Gli storioni sono molto ricercati per le loro carni pregiate, per le uova con cui si confeziona il caviale, per la vescica natatoria che dà la colla di pesce o ittiocolla. Particolammente ricca è la pesca di questi Ganoidi nei fiumi della Russia, principalmente in quelli che si versano nel Mar Nero e nel Caspio (Volga); in Russia si ha la maggiore produzione di caviale.



Nell'Europa centrale e occidentale gli storioni sono in continua diminuzione, soprattutto a causa della regolazione dei fiumi, della navigazione, dell'inquinamento delle acque. A evitare la minacciata scomparsa di questi pesci sono stati fatti tentativi di ripopolamento e di allevamento artificiale.

In Italia gli storioni sono ancora frequenti nel Bacino Padano e nei fiumi della Pianura Veneta. Mentre un tempo erano relativamente frequenti nel Tevere, ora vi compare qualche individuo soltanto eccezionalmente.

Si conoscono parecchie specie di storioni; esse sono molto variabili e si ibridano facilmente.

In Europa è più comune l'Acipenser sturio L., che risale i fiumi a primavera e può raggiungere anche 4-6 m. di lunghezza. Nel Bacino Padano, oltre a questo, si trovano anche il cobice o copese (Acipenser Naccarii Bp.; sin.: A. Nardoi Heck., A. Heckelii Fitz.) e il ladano (Huso huso ). Quest'ultimo è il più grande fra gli storioni europei; nei fiumi della Russia raggiunge anche 9 m. di lunghezza e 1400 kg. di peso.

Eccezionalmente sono stati presi nell'Adriatico alcuni esemplari di Acipenser stellatus Pall.

Nei fiumi dell'Europa centrale e orientale che si versano nel Mar Nero e nel Caspio è poi comune lo sterletto (Acipenser ruthenus L.), più piccolo dei precedenti. Altre specie proprie del Mar Nero, del Caspio e dei fiumi che vi si versano sono: A. Güldenstädtii Br., A. glaber Fitz., ecc. Altre specie ancora vivono nei fiumi dell'Asia e dell'America Settentrionale.

È carnivoro e si nutre di crostacei, molluschi e pesci. In acque interne, pesci vivi o morti, molluschi, crostacei e vermi. Gli animali più anziani si alimentano prevalentemente di notte.

Entra nei fiumi a gennaio-febbraio nonostante la fregola non abbia inizio che due mesi dopo. All'alba o al tramonto lo si può osservare mentre compie dei grandi balzi fuori dall'acqua.
La risalita, che i maschi compiono prima delle femmine, si arresta a valle dei corsi d'acqua ove la temperatura non sia troppo bassa e la portata troppo scarsa e ove manchino fondali profondi e tranquilli. Le uova (in numero di 20.000 circa per kg di peso, di colore bruno e del diametro di 3 mm circa) sono deposte in acqua corrente ad una profondità variabile tra i 2 e i 10 m. Esse aderiscono ai ciottoli ed al substrato del fondo e dopo 3-7 giorni si schiudono. Gli avannotti sono lunghi 10 mm circa. Nel giro di 1-3 anni i giovani storioni scendono al mare, rimanendovi fino all'età riproduttiva intorno ai 7-14 anni.

Essendo una specie protetta ne è vietata sia la pesca sportiva che la pesca professionale. Si praticava con lenza a fondo adeguata alle dimensioni della preda. Come esche si utilizzavano lombrichi a fiocco, pesci vivi o morti e pezzi di carne.

L'importanza economica degli storioni è notevole, sia per la prelibatezza delle carni che delle uova da cui si ricava il rinomato caviale. Molti di essi rientrano tra le specie ittiche allevate, sebbene il ciclo di produzione sia variabile con la specie, è comunque piuttosto lungo, da tre a cinque anni per la carne, da sette a quindici anni per le uova. Lo storione comune è stato riprodotto artificialmente in Francia da alcuni esemplari selvatici pescati nella Gironda.

Alcuni storioni sono stati allevate con successo in grandissimi acquari. A causa delle sue dimensioni è adatto soltanto all'allevamento in strutture pubbliche.


mercoledì 23 dicembre 2015

L'OCEANO INDIANO



L'importanza dell'oceano Indiano come rotta di transito tra Asia e Africa lo ha reso sede di numerosi conflitti. A causa della sua grandezza, nessuna singola nazione lo ha dominato fino all'inizio del XVIII secolo, quando la Gran Bretagna riuscì a controllare per diverso tempo gran parte delle terre che lo circondano. La sua importanza strategica è ancora oggi enorme. La sua linea di divisione ufficiale con l'Oceano Atlantico è rappresentata da Capo Agulhas, estremità meridionale del continente africano.

Vicino all'oceano Indiano si sono sviluppate le più antiche civiltà conosciute, nelle valli del Nilo, del Tigri e dell'Eufrate, nella valle dell'Indo e nell'Asia sudorientale. Durante la prima dinastia dell'Egitto (circa 3000 a.C.), una spedizione venne mandata a Punt, che si pensa facesse parte della Somalia odierna. Le navi portarono indietro oro e schiavi. Greci e Fenici frequentarono il Mar Rosso a partire dal VII secolo a.C. al soldo degli Egiziani, e probabilmente superarono lo stretto di Bab el-Mandeb, raggiungendo l'attuale Somalia. I Greci chiamavano l'oceano Indiano mare Eritreo. I Romani commerciavano con i porti dell'oceano: l'anonimo autore del periplo del Mare Eritreo descrive porti, merci e rotte lungo le coste dell'Africa e dell'India attorno alla metà del I secolo d.C.

Probabilmente durante il I millennio d.C., gruppi di persone parlanti lingue austronesiane, simili al malese, attraversarono l'oceano Indiano e si insediarono nel Madagascar. Marco Polo (circa 1254-1324) fece ritorno dall'Estremo Oriente passando attraverso lo Stretto di Malacca. Le spedizioni cinesi raggiunsero l'Africa nel XV secolo, ma i commercianti arabi dominavano le rotte dell'oceano Indiano prima che Vasco da Gama doppiasse il Capo di Buona Speranza nel 1497 e arrivasse all'India, il primo europeo a seguire questa rotta. Dopo questa impresa, il Portogallo cercò di dominare la regione, ma dovette cedere agli olandesi all'inizio del XVII secolo. Cento anni dopo, sia la Francia che l'Inghilterra cercarono di assicurarsi il controllo dell'oceano, ma solo gli inglesi ci riuscirono.

L'apertura del Canale di Suez nel 1869 ravvivò l'interesse europeo per l'Oriente, ma nessuna nazione riuscì a dominare le altre nel commercio. Dopo la seconda guerra mondiale, la Gran Bretagna si è ritirata dall'oceano Indiano, ma è stata solo parzialmente rimpiazzata dall'India, dall'Unione Sovietica e dagli Stati Uniti. A definizione dell'importanza dell'oceano alcune nazioni vi hanno stabilito basi navali.

Negli anni Novanta, l'intervento degli Stati Uniti nella guerra del Golfo (1991), quale forza di maggior consistenza all'interno dello schieramento multinazionale, e la quasi contemporanea dissoluzione dell'Unione Sovietica determinavano un mutamento quantitativo e qualitativo della presenza statunitense in tutta la regione dell'Oceano Indiano e in quella più ristretta del Golfo Persico, dove, tuttavia, l'influenza degli USA assumeva una valenza particolarmente significativa. Tra gli Stati del Consiglio di Cooperazione del Golfo (CCG) e Washington venivano firmati diversi accordi che permettevano agli USA di realizzare manovre militari congiunte e concesso facilitazioni aeree e navali. In queste regioni l'egemonia statunitense diveniva assoluta, oltre che per la sua preponderanza militare rispetto agli Stati della regione, anche per l'incapacità dimostrata dalla Federazione Russa di esercitare sulla zona lo stesso tipo di controllo praticato dalla potenza sovietica. L'assenza di una controparte capace di bilanciare la preponderanza degli Stati Uniti era tangibile anche nelle altre zone dell'Oceano Indiano: nonostante il peso sempre crescente dei giganti locali, quali per esempio, la Repubblica Sudafricana, l'India, l'Australia, nessuno di essi si era dimostrato capace di proporre un progetto politico a scala regionale, tale da unificare i diversi interessi nella comune difesa dell'autonomia e del controllo delle grandi vie marittime di comunicazione, passanti per importantissimi stretti strategici (Bab al Mandab, Hormuz, Palk, Malacca, Sonda, Lombok, Torres). Nel Mar Rosso e nel Corno d'Africa la situazione era molto incerta: l'equilibrio geopolitico si era modificato dopo il conseguimento dell'indipendenza da parte dell'Eritrea (1993), in seguito alla quale l'Etiopia era stata privata dello sbocco al Mar Rosso.

L'oceano Indiano occupa circa il 20% della superficie terrestre coperta da oceani e il suo volume è stimato in 292 131 000 km³. È situato completamente nell'emisfero orientale ed è delimitato a nord dall'Asia meridionale, a nord-ovest dalla Penisola arabica, ad ovest dall'Africa, a sud-ovest dall'oceano Atlantico, a nord-est dall'Indocina, ad est dall'Arcipelago Malese e dall'Australia, a sud-est dall'Oceano Pacifico, a sud dall'oceano Antartico, se lo si considera esistente, altrimenti dall'Antartide.

Comprende i mari: Mar Rosso, Golfo Persico, Mar Arabico, Golfo del Bengala, Mare delle Andamane, Golfo di Aden, Golfo di Oman, Canale del Mozambico, Stretto di Malacca. Molte isole punteggiano i 66 526 km di coste dell'oceano Indiano e alcune di esse sono stati indipendenti: il Madagascar (la quarta isola più grande del mondo), le Comore, le Seychelles, le Maldive, Mauritius e lo Sri Lanka. L'Indonesia si trova al suo confine col Pacifico, ma appartiene a quest'ultimo.


La circolazione delle acque si svolge secondo due sistemi, uno meridionale e uno settentrionale, diversi tra loro. Nel primo le acque si spostano dai pressi dell’Australia occidentale alle coste del Madagascar, si volgono a N, giungendo fino all’altezza del Capo Delgado, sulla costa africana, e qui si dividono in due rami: uno, con direzione nord, entra nel circuito delle correnti settentrionali; l’altro, con direzione sud, dopo aver percorso il Canale di Mozambico (Corrente del Capo o delle Aguglie), si dirige verso le coste sud-occidentali dell’Australia dove devia verso N (Corrente Australiana) e quindi a NO, chiudendo così il circuito delle correnti meridionali. Nella parte settentrionale dell’oceano le direzioni delle correnti si alternano in sensi opposti per l’influenza esercitata dallo spirare dei monsoni.

La salinità delle acque superficiali varia dal 33 al 36‰, ma nel Mar Rosso e nel Golfo Persico può anche superare il 40‰. La temperatura, a cavallo dell’equatore, si mantiene sui 28 °C, mentre scende sui 16 °C nell’area oceanica posta all’altezza della punta meridionale dell’Africa. Ancora più a S, in prossimità dell’Antartide, la temperatura scende a 0 °C. Le maree hanno un’escursione media di 2-4 m e sono generalmente semidiurne; maree diurne si hanno nel Mare Arabico e sulle coste occidentali australiane.

La profondità media dell'oceano è di 3 890 m. Il suo punto più basso, la Fossa di Giava, raggiunge i 7 450 m. A nord della latitudine 50° sud, l'86% del bacino principale è coperto da sedimenti pelagici. Il rimanente 14% è coperto da sedimenti terrigeni, costituiti principalmente dalle due enormi conoidi torbiditiche dell'Indo, a ovest, e del Gange-Brahmaputra, a est del subcontinente indiano. Le latitudini più a sud sono dominate da sedimenti originati dai ghiacciai dell'Antartide.



Le piattaforme continentali orlano con continuità le coste africane, arabiche, indiane, malesi e australiane, come pure la costa occidentale del Madagascar, con un'ampiezza inferiore ai 100 km lungo il versante afro-arabico. Altrove l'ampiezza della piattaforma oscilla tra i 200 e i 300 km, ma supera di gran lunga questi valori nell'Australia meridionale, al largo di Bombay (Mumbai), del Bengala e della Birmania (Myanmar). Le coste indonesiane di Sumatra e Giava, nonché la costa orientale del Madagascar, precipitano, invece, in profonde fosse oceaniche. Le piattaforme continentali, secondo una recente scoperta, sono segnate da una fitta rete di canyons, che, posti per lo più in corrispondenza delle maggiori foci fluviali, si prolungano per centinaia di chilometri fino alle piane abissali. Rilievi e scandagli hanno messo in evidenza come il fondo dell'oceano sia percorso da alcune dorsali sottomarine (di Carlsberg, delle Chagos, dell'Indiano centrale, orientale e sud-occidentale, delle Kerguelen) che individuano vari bacini, quali quelli Arabico, dei Somali, dell'Indiano Centrale, del Madagascar, delle Kerguelen, dell'Australia occidentale, dell'Australia meridionale.La profondità media delle sue acque è di 3900 m, mentre quella massima, misurata nella Fossa della Sonda, a S di Giava, raggiunge i 7450 m. Numerose sono le isole: la maggiore è il Madagascar che, insieme con le Comore, le Seychelles e le Mascarene, è situata nel settore occidentale. Nel Mare Arabico sono le isole di Socotra, le Kuria Muria, le Laccadive e le Maldive; nel golfo del Bengala sono Sri Lanka (Ceylon), le Andamane e le Nicobare e a S, infine, sono le isole Chagos, Mentawai, Christmas, Cocos, Amsterdam, San Paolo, Kerguelen, Crozet, Marion, Principe Edoardo, Heard e McDonald. Per quanto riguarda il clima, a causa del diverso grado di riscaldamento e raffreddamento delle acque oceaniche e delle terre circostanti, si stabilisce nella zona un'ineguale distribuzione delle pressioni, che danno origine a un particolare tipo di venti periodici, i monsoni, spiranti in senso alterno secondo le stagioni, e precisamente dal mare verso terra (monsoni di mare) nel periodo estivo, e dalla terra verso il mare (monsoni di terra) nel periodo invernale, e il cui influsso è soprattutto sensibile nella parte settentrionale dell'oceano. Il regime dei venti influenza notevolmente anche le correnti marine superficiali. Sotto l'azione costante dell'aliseo di SE, le acque si spostano dalle coste occidentali dell'Australia (corrente dell'Australia Occidentale) verso W, formando la Corrente Equatoriale, che, giunta all'altezza del Madagascar, si divide in tre rami: uno scorre verso S lambendo le coste orientali del Madagascar (corrente del Madagascar), il secondo percorre il canale del Mozambico da N a S (Corrente del Mozambico), mentre il terzo volge a N lungo le coste dell'Africa orientale. I primi due rami si riuniscono a S del Madagascar formando la Corrente delle Agulhas (o del Capo); nell'Oceano Indiano settentrionale, invece, le correnti si alternano in senso opposto in corrispondenza all'alternanza dei monsoni. Nel periodo estivo le correnti sono generalmente dirette da W verso E e lambiscono le coste della Somalia da SW a NE; nel periodo invernale, invece, sono dirette in prevalenza da E verso W e si dirigono verso SW lungo le coste della Somalia. La temperatura delle acque superficiali varia da quasi 30 ºC a N (Mar Rosso, Golfo Persico, Golfo del Bengala) a.0º a S, presso l'Antartide: la salinità assume valori compresi tra il 32 e il 36‰. I valori più elevati sono raggiunti nel Mar Rosso, nel Golfo Persico e nel Mar Arabico, quelli più bassi nel golfo del Bengala e nel settore meridionale, a causa della rilevante quantità di acqua dolce apportata, rispettivamente, dai fiumi e dalle acque di fusione dei ghiacciai antartici. I principali fiumi che sfociano nell'Oceano Indiano sono lo Zambesi, lo Shatt al ?Arab (formato dalla confluenza del Tigri con l'Eufrate e tributario del Golfo Persico), l'Indo, il Gange con il Brahmaputra, l'Irrawaddy e il Murray. Gran parte del fondo dell'oceano è ricoperta da uno spesso strato di sedimenti, costituiti prevalentemente da argille rosse nel settore orientale, da melme a globigerine in quello occidentale e da melme a diatomee in quello meridionale.

Numerosi sono i porti che si affacciano all'Oceano Indiano, tra cui gli africani Port Elizabeth, East London, Durban, Maputo, Dar es Salaam, Mombasa, Port Sudan e Suez (all'estremità meridionale del canale omonimo, che collega l'Oceano Indiano col Mar Mediterraneo), gli asiatici Aden, Karachi, Bombay (Mumbai), Colombo, Chennai, Calcutta (Kolkata), e gli australiani Perth e Adelaide. La pesca è largamente praticata dai Paesi rivieraschi del N e dell'E (India, Birmania, Malaysia), dove rappresenta una cospicua risorsa alimentare; lungo il litorale del Mar Rosso è diffusa la pesca delle perle, mentre ai bordi dell'Antartide si caccia la balena. Un cenno particolare merita il notevole incremento turistico registrato in molte parti dell'Oceano Indiano: nel corso degli anni Sessanta e Settanta, le prime mete furono alcune località costiere del Kenya e della Tanzania, nonché del Mar Rosso, ad accogliere un rilevante numero di turisti internazionali, mentre le isole Seychelles già da tempo rappresentavano un'area turistica di élite. In seguito, il movimento ha assunto maggiori proporzioni, investendo anche altre aree, come le Comore e le Maldive, meta di flussi cospicui.

Numerose specie marine in pericolo vivono nell'oceano Indiano, tra cui i dugonghi, le tartarughe e le balene. Il Mare Arabico, il Golfo Persico e il Mar Rosso soffrono di un inquinamento da residui petroliferi.

Nell'Oceano Indiano vivono oltre cinquemila specie ittiche.

Le isole dell’Oceano Indiano sono distribuite irregolarmente: la parte occidentale è ricca di arcipelaghi e di numerose isole, tra cui primeggia quella di Madagascar; la zona meridionale e la orientale, invece, ne sono poverissime. Quelle di origine corallina occupano una zona delimitata a sud da una linea che potremmo tracciare unendo la Baia di Maputo con la punta meridionale di Madagascar e con le isole Houtman Abrolhos (Australia occidentale).

La funzione economica dell’Oceano Indiano è essenzialmente riconducibile allo sfruttamento delle risorse minerarie, in particolare all’estrazione, raffinazione e commercializzazione di petrolio, che hanno del tutto soppiantato le tradizionali attività pescherecce. Si estraggono inoltre minerali di stagno (ai limiti orientali, presso Malacca) e di titanio (lungo le coste occidentali e sud-occidentali dell’Australia). Gli intensi traffici sviluppatisi in funzione di tali risorse e di altre precedenti produzioni (legname, carbone, caucciù) fra i paesi industrializzati dell’Atlantico e del Mediterraneo, alcuni paesi africani e asiatici e l’Australia, hanno determinato l’affermazione di un gran numero di porti, alcuni di notevole importanza strategica e commerciale, altri come sbocchi al mare dei rispettivi retroterra. Tra i primi: Singapore, Colombo, Aden, oltre ai terminali petroliferi del Golfo Persico. Tra i secondi: Mumbai, Durban, Adelaide, Yangon, Calcutta, Chennai, Karachi, Port Elizabeth.

La sua evoluzione è strettamente connessa con la nascita della catena montuosa himalaiana. L’oceano, infatti, si andò individuando allorché l’India si staccò dal Gondwana (circa 100 milioni di anni fa) e migrò verso N, per scontrarsi nel Terziario con la zolla eurasiatica. Lo studio delle anomalie magnetiche misurate sul fondo ha rivelato una evoluzione estremamente complessa, che ha dato luogo a una complicata struttura topografica, caratterizzata da segmenti di dorsali e faglie trasformi. Le dorsali che si elevano dal fondo formano una Y capovolta, delimitando così tre zolle litosferiche divergenti: zolla africana, zolla australiana e zolla antartica. La Dorsale di Carlsberg (il tratto che ha direzione N-S) è posta tra la penisola indiana e il bordo orientale africano: essa è rigettata da una serie di faglie trasformi che la piegano verso il Golfo di Aden. All’estremità meridionale, questa dorsale si biforca: il ramo occidentale, piegando verso SO, corre tra Africa e Antartide per poi congiungersi con la dorsale medioatlantica; il ramo orientale ha invece direzione E e SE ed è situato tra Australia e Antartide. Due dorsali oceaniche non più attive, che decorrono sempre con direzione N-S, sono la Dorsale 90° Est e quella delle Chagos-Laccadive. A E della prima è presente il Bacino delle Cocos, mentre tra le due è situata la Piana di Sri Lanka. A O della Dorsale di Carlsberg si estende il Bacino di Somalia. Sul fondo dell’Oceano I. si accumulano grandi quantità di sedimenti provenienti dall’erosione della catena himalaiana, i quali, trasportati dall’Indo e dal Gange, costruiscono estese conoidi sottomarine.




lunedì 28 settembre 2015

TESORI SOMMERSI



I relitti custoditi dai fondali di mari e oceani sarebbero, calcolando il tutto a partire da circa 3000 anni fa, più di tre milioni. Questo genere di cifre lasciano sempre un po' perplessi. Registri di navigazione con dati attendibili si hanno a partire dall'epoca delle prime grandi navigazioni, ovvero intorno alla fine del 1400. Sui dati relativi alle navi fenicie affondate nel 600 a.C. sembra doveroso dubitare.
Eppure è fuor di dubbio che nella quiete delle profondità marine le navi siano tante; se tre milioni non sono una cifra rigorosamente calcolata, sono però assolutamente verosimili.
Il 12 settembre del 1857 la nave da trasporto Central America affondò al largo della Carolina del Nord, a causa di un uragano. Con una scelta di assoluta imprudenza, 60 banche nord americane avevano stipato la nave di lingotti e monete d'oro, per un valore complessivo intorno ai 200 milioni di dollari. Finirono tutti in fondo al mare e con essi, purtroppo, anche 425 persone che si trovavano a bordo.
In tremila anni, quanto oro è finito in fondo al mare? Quante pietre preziose? Non solo: quanti reperti, di grande valore archeologico e artistico? Anche in questo caso possiamo dire che la mancanza di una valutazione precisa non ci allontana dalla sensazione che immense siano le ricchezze custodite sotto le onde.
Ma una cosa vale tanto se rendere "praticabile" tale valore non richiede costi che lo travalicano. Alcune regioni italiane, per esempio, sono ricchissime di oro, ma si tratta di una presenza molto dispersa: per recuperare un grammo bisognerebbe movimentare 5 tonnellate di terra.

Un mistero marittimo lungo 73 anni delle due navi gemelle, battenti bandiera tedesca, affondate la notte del 19 dicembre 1940 tra Livorno e la Gorgona, per essere finite su un campo minato in mare.
Per trovare il loro tesoro nascosto, un cimitero di lamiere in fondo agli abissi del Mar Tirreno, P. V., professione artigiano, gli istruttori M. B. e D. B. e A. B., hanno studiato mappe e rotte per più di due anni. «L’idea ci è venuta tra il 2010 e il 2011 - raccontano in coro - siamo appassionati di subacquea e di relitti, avevamo sentito parlare di queste navi scomparse ad un’ora di distanza l’una dall’altra e abbiamo iniziato ad informarci». Da allora hanno accumulato foto e notizie spulciando giornali e vecchi registri navali. Durante l’inverno, spesso nel weekend, sono saliti alternativamente a bordo di un gommone e di un’imbarcazione con la strumentazione necessaria, e hanno setacciato l’area dove i piroscafi, lunghi 160 metri ciascuno, potevano essersi inabissati. Nei mesi scorsi le ultime conferme dall’ecoscandaglio che ha fornito l’effettiva posizione della “Geierfels” e della “Freiefels” che tradotto dal tedesco significa, guarda caso, “Avvoltoio sulla roccia” e “Libera sulla roccia”.



«Lo scorso fine settimana ci siamo immersi nel punto dove pensavamo che si trovassero i relitti a circa tre miglia e mezzo a est dell’isola di Gorgona e a 15 da Livorno». Tre dei quattro componenti del Gsd team hanno pinneggiato per quasi 140 metri. Poi in mezzo al blu delle profondità marine è comparso prima il ponte di comando con i sette oblò, le maniche a vento, i pennoni. E ancora gli argani a vapore con i quali venivano caricate a bordo perfino le locomotive, e pure le stive. «In una delle due navi - si legge in una scheda che le riguarda - c’era anche un campo da tennis».
«Purtroppo - vanno avanti - siamo potuti rimanere a quella profondità soltanto per pochi minuti, poi siamo dovuti risalire». Per gli amanti dei numeri i tre sub sono rimasti alla profondità di 140 metri per un quarto d’ora e per risalire in superficie hanno dovuto effettuare una decompressione di 201 minuti, oltre tre ore e mezzo, usando quasi cinque bombole ciascuno.

Un bottino da oltre 1 milione di dollari in monete d'oro. L'ha trovato una famiglia di cacciatori di tesori nelle acque a largo di di Fort Pierce, circa 200 chilometri a nord di Miami, in Florida. Il bottino era contenuto nel relitto di una nave spagnola affondata nel 1715. Tra i tesori, 51 monete d'oro coniate nell'anno del naufragio e collane preziose. "Non è stata un'impresa facile trovare il relitto - spiega Brent Brisben, co fondatore della 1715 Fleet - Queens Jewels LLC che detiene i diritti della scoperta - Nello stesso anno affondarono altri 11 galeoni lungo la stessa rotta a causa di un uragano che interessò la costa della Florida"

Duemila monete d'oro conservatesi per circa 1000 anni sul letto del Mediterraneo. La scoperta è stata fatta da quattro sub mentre facevano immersione nello specchio di mare antistante Cesarea, uno dei siti archeologici romani più importanti di Israele. Le monete risalgono al periodo Fatimidia, il Califfato che intorno l'anno 1000 copriva gran parte del Medio Oriente, dell'Africa del nord e della Sicilia. Il tesoro, ha ipotizzato la sovrintendenza di archeologia marina israeliana, proviene da una nave naufragata in prossimità della costa, che trasportava in Egitto il ricavato della tasse locali o gli stipendi dei soldati fatimiti di istanza a Cesarea.




martedì 15 settembre 2015

IL PESCE PAPPAGALLO



Sparisoma cretense è un pesce appartenente alla famiglia degli Scaridae, ovvero dei "pesci pappagallo".

Il corpo è ovale, poco compresso ai fianchi, simile ad un labride. La sua caratteristica più vistosa è la bocca, che, come in tutti gli scaridi, è munita di un becco osseo formato dai denti saldati. La pinna dorsale è lunga, l'anale meno ampia, la coda a delta. La livrea femminile è molto appariscente: rossa vivo con un'ampia chiazza verdastra orlata di giallo sul capo e un'altra chiazza, gialla e più piccola, sul peduncolo caudale. Il maschio ha una livrea meno appariscente, bruna, con ventre più chiaro.
Raggiunge una lunghezza di 50 cm.



Attualmente, il pesce pappagallo è diffuso nell'Atlantico orientale (Portogallo, Isole Azzorre, Madera, Canarie e Senegal), nonché in tutto il Mar Mediterraneo eccetto le parti più fredde; in Italia è presente in tutti i mari occidentali, dal Mar Ligure allo Ionio, da alcuni anni presente anche nell'Adriatico meridionale e centrale (avvistato nei mari dell'isola di Lastovo, Croazia).

La distribuzione nel Mediterraneo ha avuto certamente delle oscillazioni nel corso della storia, legate sia alla pesca intensa (nell'antichità era considerato particolarmente prelibato) sia a tentativi documentati di ripopolamento in epoca romana. Le oscillazioni più recenti sono legate al fenomeno della meridionalizzazione del Mediterraneo dovuto al riscaldamento delle acque.

Vive su fondi rocciosi o a Posidonia oceanica.

Si nutre prevalentemente di alghe e piccoli invertebrati che raschia dalle rocce con i denti modificati.

La riproduzione avviene in estate-autunno, le uova sono galleggianti.



L’habitat di questo coloratissimo animale, che deve il suo nome alla forma del becco (con cui “becca la roccia, alla ricerca di alghe) simile a quella del famoso volatile e del quale esistono un’infinità di specie e varietà, sono le oceaniche coste tropicali, ma, a causa della tropicalizzazione del mediterraneo, questo pesce si è, negli ultimissimi anni, sempre più affermato sulle nostre coste, diventando antagonista di altre specie tipiche di scogliera, quali la donzella, ad esempio, od il pesce serrano, a cui ruba letteralmente cibo e nutrumento, con conseguente dominanza, portandole alla scomparsa.
Buffo il nuoto che sembra “tirato” solo dalle pettorali.





lunedì 14 settembre 2015

I LAGHI AMARI



I laghi amari sono dei bacini lacustri dell'Egitto nord orientale, lungo ca. 35 km e costituito dal Grande Lago Amaro a N (in arabo, Buheirat Murrat el-Kubra) e dal Piccolo Lago Amaro a S (Buheirat Murrat el-Sughra), tra di loro comunicanti e attraversati dal canale di Suez, di cui propriamente costituiscono una sezione; prima del taglio del canale i laghi erano separati e quasi asciutti.




Il Grande Lago Amaro, al-Buhayra al-Murra al-Kubra è un lago salato situato tra l'Africa e il Sinai che divide in una parte nord e in una parte sud il canale di Suez. È unito al Piccolo Lago Amaro (al-Buhayra al-Murra al-Sughra).

Giacché il canale non ha dighe, l'acqua fluisce liberamente dal Mediterraneo e dal Mar Rosso, rimpiazzando quella persa per evaporazione.

Dopo l'armistizio dell'otto settembre, il Grande Lago Amaro fu usato dagli Alleati per ospitare le navi da battaglia italiane che si erano consegnate a Malta, fra le navi ospitate nel bacino ci furono le corazzate Vittorio Veneto e Italia.



Il 14 febbraio 1945, sul Grande Lago Amaro, il Presidente degli Stati Uniti d'America Franklin D. Roosevelt, venendo direttamente della Conferenza di Jalta, a bordo dell'incrociatore USS Quincy, vi incontrò il re dell'Arabia Saudita, Abd al-Aziz dell'Arabia Saudita. Unico testimone di quella riunione fu l'interprete del presidente statunitense e non esiste nessun verbale conosciuto della discussione tra i due.



LEGGI ANCHE : http://marzurro.blogspot.it/2015/09/il-canale-di-suez.html






venerdì 11 settembre 2015

IL PESCE LUNA



Il pesce luna (Mola mola)  fa parte dell'ordine Tetraodontiformi, detto anche pesce mola, frequente in tutti i mari della zona torrida e diffuso anche in quelli temperati, Mediterraneo compreso: ha forma di un grande disco, compresso lateralmente, che può raggiungere 2 m e più di diametro e fino a 3 o 4 q di peso; ha bocca stretta, occhi piccolissimi, pinne dorsale e anale straordinariamente sviluppate.

Il corpo (inconfondibile e tipico) è ovale, molto schiacciato lateralmente, troncato posteriormente e senza peduncolo caudale. La pelle non ha squame e l'aspetto è rugoso e consistente come cuoio e internamente è foderata da uno strato cartilagineo, che gli conferisce robustezza. Il muso nella parte terminale, specie nei maschi, ha una protuberanza simile ad un naso. L'occhio è abbastanza grande. Manca la vescica natatoria.



La bocca è piccola e non protrattile. I denti, esclusi i faringei inferiori, sono saldati tra loro e formano un becco osseo tagliente in ogni mascella. Le aperture branchiali sono piccole e si trovano subito davanti alle basi delle pettorali.
Le pinne dorsale e anale si uniscono posteriormente in una flangia corrispondente alla pinna codale. La dorsale è unica, alta, triangolare e con 16-20 raggi. La pinna anale è opposta e simile ala dorsale; ha 14-18 raggi.  Le pettorali (12-13 raggi) sono corte, a forma di spatola e innestate su un peduncolo che le orienta verso l'alto. Mancano le pinne ventrali.

In inglese viene chiamato sunfish, presumibilmente tanto per la sua forma, quanto per le sue dimensioni e per il fatto che durante le giornate di sole tende a salire alla superficie dell'acqua.

Quando il pesce luna nuota in prossimità della superficie, visto da una barca, può esser confuso con uno squalo, dato che se ne vede soltanto una pinna.



Spesso risale alla superficie del mare, dove fa galleggiare il corpo in posizione orizzontale. Pare che sia, questo, un sistema per liberarsi dei parassiti, che in questo modo possono venire mangiati dagli uccelli.

Una femmina può deporre fino a 1,5 milioni di uova per volta e fino a 300 milioni di uova durante il ciclo vitale. Le larve hanno il diametro di appena due o tre millimetri.

Il pesce luna si nutre di plancton, di piccoli pesci e di meduse.





domenica 6 settembre 2015

IL PESCE PALLA



Il Pesce Palla appartiene alla famiglia dei Tetraodontiti. Questo termine deriva dalla tradizione greca e sta ad indicare una caratteristica di cui sono in possesso gli appartenenti a quest’ordine: i Tetraodontiti hanno un becco che è composto dalla fusione di quattro placche dentarie. Grazie a questa particolarità riesce a mangiare anche le conchiglie.

Le specie di pesce palla esistenti sono molteplici e arrivano fino a quota 185; vivono principalmente in acque dolci o salmastri, e sono presenti soprattutto in mari tropicali. A volte può capitare di trovarlo con stupore anche nei nostri mari, come accaduto nello Stretto di Messina.

Pur non essendo un ottimo nuotatore per via della rigidità del proprio corpo, il pesce palla non risulta oggetto di predazione poiché dotato di due particolari sistemi di difesa: è in grado di ingurgitare rapidamente grandi quantità di acqua, diventando molto grande e difficile da inghiottire anche per predatori di grosse dimensioni; inoltre la sua carne contiene un veleno molto potente, la tetradotossina, una neurotossina che inibisce la funzione respiratoria, portando rapidamente alla morte.

In questo modo riesce a generare spavento nell’aggressore e a difendersi. Prima che però si sgonfi passano alcune ore.

I pesci palla si cibano prevalentemente di molluschi, crostacei, meduse e polipi dei coralli, di cui spezzano i gusci o la struttura esoscheletrica con il forte becco dentato.

Rispetto alla riproduzione di questo pesce vediamo che il maschio e la femmina si corteggiano prima dell’accoppiamento vero e proprio. Dopo di che rilasciano rispettivamente spermatozoi e uova vicini, in una zona sicura. Il maschio cura per i successivi 6-8 giorni i piccoli, cioè fino alla schiusa. Quando nascono i piccoli vengono accuratamente protetti dal padre che li porta in una buca finchè non saranno in grado di avventurarsi in mare aperto.
Il peso di questa specie può raggiungere i 6,5 kg, per gli 80 cm di lunghezza.



Il pesce palla è un prodotto della pesca tipicamente orientale ed estremamente costoso, in quanto pregiato. Tale caratteristica dipende non solo dalla gradevolezza delle sue carni, ma soprattutto dal fatto che la lavorazione del pesce necessita una maestria che in pochi vantano nel proprio curriculum lavorativo; infatti, il pesce palla è provvisto di alcuni tessuti venefici che, durante la mondatura, possono contaminare la porzione edibile. Trattandosi di tossine pericolosissime anche a basse concentrazioni, il liquido che le contiene non deve assolutamente entrare in contatto con il cavo orale o l'apparato digerente dell'essere umano. A tal proposito, esiste una tecnica parecchio complessa da apprendere, la quale, unita all'enorme responsabilità del cuoco, conferisce al pesce palla la caratteristica di alimento pregiato e costoso.
In Giappone, gli operatori a cui è concesso lavorare la carne del pesce palla sono tutti provvisti di una licenza specifica: inoltre, la vendita dell'animale NON lavorato è totalmente vietata ai consumatori finali. Ciò non nega alla popolazione di approvvigionarsi autonomamente di pesce palla mediante la pesca dilettantistica; ovviamente, la maggior parte dei decessi per avvelenamento (comunque parecchio rari e nemmeno lontanamente paragonabili, per esempio, a quelli da funghi) avviene tra le mura domestiche della popolazione nipponica.

Il veleno del pesce palla è un liquido contenente una tossina estremamente pericolosa e potenzialmente mortale. Si tratta di una neurotossina, ovvero di un elemento che interferisce con la conduzione nervosa di chi lo assorbe. Per la precisione, viene definita tetradotossina (TTX); chimicamente, risulta idrosolubile (solubile in acqua) e termostabile (resistente al calore), il che significa che, anche facendo bollire il pesce palla, se la tossina ha contaminato le carni, queste rimangono non eduli e potenzialmente mortali. Non è ancora ben chiaro come avvenga la produzione di TTX nei visceri (soprattutto fegato, uova, intestino) e nella pelle del pesce palla, ma si è ipotizzato che possa essere il frutto del metabolismo batterico di microorganismi appartenenti ai Generi Vibrio spp. e Pseudomonas spp. D'altro canto, risulta invece parecchio nitida la sua tossicità; questa neurotossina ha dimostrato un potenziale addirittura 1.200 volte superiore rispetto al cianuro di potassio ed agisce paralizzando in muscoli respiratori ed il cuore fino al decesso.
Il pesce palla non è l'unico organismo contenente TTX, sono coinvolti anche molluschi e crostacei come: Jania spp, Astropecten spp., Veremolpa scabra, Charonia sauilae, Rapana venosa, Demania toxica, Yongeichthys criniger e Hapalochlaena maculosa. Ciò lascerebbe dedurre che l'ipotesi della contaminazione batterica possa essere attendibile, ulteriormente supportata dai bassissimi livelli di tossina presenti nei pesci palla allevati. Tuttavia, rimane il beneficio del dubbio, necessario a tenere alti i livelli di guardia.
I sintomi dell'avvelenamento da pesce palla sono piuttosto simili a quelli di altre intossicazioni da biotossine marine e consistono in ottundimento, paralisi, vomito, diarrea, convulsioni e blocco cardio-respiratorio. Ad ogni modo, il potenziale tossico varia in base alla Specie in oggetto, alla localizzazione geografica, al sesso e alla stagione.
Poiché alcune tracce del veleno sono presenti anche nella carne, una normativa comunitaria, ovvero il regolamento CE n. 853/2004, vieta la vendita e la commercializzazione di pesci palla (qualsiasi esemplare della famiglia Tetraodontidae) in tutta la UE, dove invece esiste un controllo sanitario per i prodotti ittici importati da paesi comunitari.


Dal canale di Suez (in Egitto, che mette in comunicazione il Mar Rosso col Bacino del Mediterraneo) avviene continuamente la migrazione di Specie alloctone, tra le quali alcune appartenenti alla Famiglia dei pesci palla. L'ente responsabile del loro riconoscimento è quello veterinario supportato dall'ASL che, grazie alle segnalazioni, ha documentato varie catture simili (dal 2003 in poi) nelle regioni: Lazio, Campania, Sardegna, Sicilia e Puglia. L'esclusione di questi pesci dal commercio nazionale (dagli anni '80) ha azzerato i casi di intossicazione in Italia. Purtroppo, è avvenuto anche qualche tentativo di frode alimentare molto pericoloso; questo ha previsto l'utilizzo di pesci palla in sostituzione alla ben nota rana pescatrice (o coda di rospo) ma, fortunatamente, il tentativo è stato sventato dagli enti competenti.

Il pesce palla è oggetto di numerosissime preparazioni culinarie, crude e cotte, anche se, per ovvi motivi, in Italia non sono particolarmente conosciute.
Il più noto, probabilmente, è il fugu sashi o sashimi di fugu, cioè una tipologia di sushi; la caratteristica di questa preparazione è che, a differenza di quelle a base di salmone, orata, tonno ecc., il fugu va tagliato molto più sottile (probabilmente a causa della consistenza della carne). Come non citare, poi, il pesce palla stufato o fuguchiri, ed il fugu fritto o fugu karaage. Curioso apprendere che, pur essendo un cibo vietato nell'alimentazione dell'Imperatore per il rischio di intossicazione, il pesce palla preparato con grande maestria deve possedere una percentuale di TTX sufficiente ad informicolare ed intorpidire leggermente la fauci del commensale.





domenica 23 agosto 2015

KILLER DEL MEDITERRANEO



A causa dei mutamenti climatici, e dell’aumento della temperature, stanno migrando verso il Mediterraneo, il primo esemplare della specie dei pesci “Lagocephalus sceleratus”, che solitamente abita le acque dell’Oceano Indiano, è arrivato nel Mediterraneo. Deve il suo nome di pesce “Scellaratus” per i terribili danni che provoca all’uomo, in quanto le sue carni sono altamente velenose. Era stato avvistato nel 2004 in Turchia sulle coste di Antalya. Successivamente, fu avvistato nelle acque dell’ Israele fino ad arrivare nel 2006 nelle acque dell’isola di Creta. Un esemplare di “Lagocephalus sceleratus” della famiglia delle Tetraodontidi,  è stato avvistato anche nelle acque di Dubrovnik, isola di Jakljan, come rende noto il “Croatian Times”, lanciando l’allarme della pericolosità della specie per la salute dell’uomo, in quanto  sembra che il pesce Scellaratus, sia entrato nel Mediterraneo dal canale di Suez, e sta risalendo il mare Adriatico. Il pesce Scellaratus ha una forte somiglianza con lo scorfano, ha il ventre nero e delle striature argentee sul dorso, la sua carne contiene una neurotossina la tetrodoxina, della quale non si conoscono antidoti che agisce sul sistema nervoso, causando anche la morte per blocco respiratorio, in Libano nel 2006 sono stai registrati 2 casi di intossicazione da tetrodoxina, presente nella carne del pesce sceleratus.

Thanatos è una alga filamentosa che ricopre i fondali marini al largo de La Ciotat, in Francia. Sarebbe la responsabile dell’eccessivo riscaldamente del mar Mediterraneo. Per gli esperti la sua crescita soffoca la flora spontanea della zona e uccide la biodiversità. Insomma una vera e propria emergenza esplosa negli ultimi anni nel mar Mediterraneo e che ha visto una crescente diffusione. Sotto accusa il cambiamento climatico sta obbligando anche i pesci ad abbandonare i loro habitat in cerca di acque più fresche in cui poter sopravvivere. Si tratta di uno spostamento relativamente lento ma, senza un intervento a livello mondiale per ridurre le emissioni e contenere il riscaldamento globale, quella dei pesci si trasformerà in una vera e propria corsa verso i poli, che altererà la biodiversità e gli ecosistemi marini. L’allarme arriva da un team di ricercato europei, nordamericani e australiani che fa parte dell’iniziativa Ocean 2015.

Allarme allora per la crescita dell’alga killer. Secondo uno studio, pubblicato sulla rivista Science, mira a fornire informazioni utili in vista della conferenza Onu sul clima di Parigi in programma a fine anno. Gli esperti hanno preso in esame due scenari futuri sul cambiamento climatico: il primo prevede interventi per limitare l’aumento delle temperature a due gradi centigradi nel 2100, come stabilito dall’accordo di Copenaghen; il secondo si basa sul trend attuale di emissioni, che secondo gli scienziati porterà la temperatura atmosferica a impennarsi di 5 gradi entro la fine del secolo. In questo secondo quadro, l’abbandono degli habitat da parte dei pesci sarà del 65% più veloce, causando cambiamenti alla biodiversità e alle funzioni svolte dagli ecosistemi acquatici.



Dunque in considerazione che il Mar Mediterraneo necessita di oltre 70 anni per effettuare un ricambio completa delle proprie acque e che, l’acqua ha un grado di salinità sempre più alto, mettendo poi il fattore riscaldamento delle acque, si può comprendere di quanto potrà cambiare la flora e la fauna dei nostri mari nei prossimi anni. L’emergenza va dunque affrontata con urgenza e severità.

Dal lagocephalus sceleratus, il pesce palla argenteo spiaggiato a Lampedusa alla caulerpa taxifolia, l'alga killer delle vegetazioni marine diffusa soprattutto nel Ragusano, sono almeno un migliaio le specie "aliene" che sono penetrate dal mar Rosso e dall'Oceano Atlantico attraverso il canale di Suez o dallo stretto di Gibilterra fino alle coste della Sicilia. Pesci, molluschi, crostacei, alghe tropicali, meduse e altri gruppi animali che dal loro habitat naturale sono migrati negli ultimi anni nel Mediterraneo, per colpa del riscaldamento dei mari e anche dello sfruttamento dei litorali.
Finora sono state ritrovate novanta specie di pesci alieni provenienti da Suez e cinquanta da Gibilterra e sono quindici le specie del Mar Rosso finora catturati dai pescatori siciliani. C'è il pesce flauto, la " Fistularia commersonii", predatore che si è spostato dalle barriere coralline alle coste siciliane, il pesce coniglio (il nome scientifico è Siganus luridus) che si ciba di alghe ma da cui bisogna stare alla larga perché presenta spine pungenti e velenose. Il Percnon gibbesi, un granchio della famiglia " Plagu-siidae", originariamente diffuso lungo le coste dell'oceano Atlantico, dalla Florida al Brasile e dall'isola di Madera al Golfo di Guinea, adesso popola le scogliere di Pantelleria. Tra le alghe, la Caulerpa Raucemosaè presente ormai in quasi tutti i litorali dell'Isola mentre la Taxifoliache s'incagliava fino ad alcuni anni fa nelle reti delle marinerie Ragusane ed era più diffusa nelle spiagge di Donnalucata e Marina di Modica, a Cefalù e a Torre Salsa nell'Agrigentino, ora sta regredendo. Sono alghe che attecchiscono soprattutto negli ambienti degradati.



Dal canale di Suez sono arrivate in Mediterraneo circa 55 specie che si sono adattate alle nuove condizioni e hanno iniziato a riprodursi.
Il veloce adattamento di queste specie è dovuto principalmente a due motivi: il primo motivo è che in Mar Rosso le specie presenti sono circa 1.500 con una competizione tra di loro molto più alta rispetto alle 600 specie del Mediterraneo; il secondo è il vuoto ambientale che è stato lasciato dalla pesca intensiva dei pesci mediterranei, dall’inquinamento di metalli pesanti e pesticidi, dall’aumento della temperatura, dalla riduzione di prateria di posidonia, tutti fenomeni che creano squilibri su flora e fauna marina. Circa una trentina di specie, invece, arrivano dalle coste dell’Africa occidentale e dell’Atlantico, spesso attratte dai resti di cibo gettati dalle navi.
Plotosus lineatus chiamato pesce gatto del corallo, si è stabilito lungo le coste mediorientali. Le spine delle pinne pettorali e della prima dorsale sono velenose.
Fistularia commersonii chiamato comunemente pesce flauto, il corpo allungato e filiforme lo rende molto simile al pesce trombetta; presente dalla Sicilia alla Sardegna, è stato pescato recentemente anche sulle coste dell’Argentario.
Sargocentron rubrum noto comunemente come pesce scoiattolo rosso, diffuso nel mar Mediterraneo sud orientale tra la Libia orientale e la Turchia meridionale. Non è presente nelle acque italiane.
Leiognathus klunzingeri chiamato pesce pony, si è diffuso nel bacino sud – orientale dove localmente ha costituito dense popolazioni; nelle acque italiane la specie è rinvenibile nelle acque della Sicilia.
Upeneus moluccensis e Upeneus pori, due specie di triglie che si sono diffuse in maniera così aggressiva da soppiantare le nostre triglie autoctone.
Le specie lessepsiane hanno colonizzato molto rapidamente la parte orientale del Mediterraneo a causa della povertà faunistica di questa area, dovute a cambiamenti biogeografici che hanno lasciato libere molte nicchie ecologiche. Solo una piccola parte di specie si è diffusa nella parte occidentale del nostro mare, perchè molto più popolato da specie atlantico-mediterraneo.



Tra le specie tropicali che hanno iniziato a popolare il nostro mare, troviamo anche invertebrati introdotti volontariamente come la vongola gigante delle Filippine (Ruditapes philippinarum), originaria del Pacifico. Fu introdotta per scopi commerciali nel 1983 nella Laguna di Venezia, dove a causa di alti livelli trofici, di un particolare sedimento e del movimento delle acque dovuto alle maree, ha trovato un habitat perfetto e si è riprodotta naturalmente, dando vita ad estese popolazioni.
Anche tra i vegetali troviamo casi di tropicalizzazione, come l’alga Caulerpa taxifolia, chiamata in modo un po’ sensazionalistico “alga assassina”, perchè infestante e pericolosa per le praterie di posidonia, il polmone verde del Mediterraneo. Si suppone che l’alga sia stata introdotta involontariamente nel Mediterraneo sfuggita dalle vasche del Museo Oceanografico di Monaco nel 1984. La velocità di propagazione di questa alga è incredibile e nel giro di una decina di anni da dalle coste di Montecarlo si è diffusa in tutta l’Italia.

Il termine “tropicalizzazione” del Mediterraneo non è da confondersi con “meridionalizzazione”. In questo ultimo caso si intende la tendenza di alcuni organismi che vivono nelle acque più calde delle coste meridionali del Mediterraneo, ad ampliare il proprio areale verso zone più temperate dove precedentemente erano assenti. Il fenomeno della meridionalizzazione è stato spesso attribuito al riscaldamento globale, e effettivamente negli ultimi venti anni si è assistito ad un aumento di organismi di acque calde nelle zone più settentrionali dei mari italiani. Gli scienziati, però, stanno ancora studiando se esista una connessione, poiché molte altre specie amanti delle acque calde e simili come esigenze ambientali alle specie che hanno ampliato l’areale, non hanno manifestato lo stesso comportamento.
Un esempio di specie che si sono spostate verso nord negli ultimi anni è quello della Thalassoma pavo, esempio che è sotto gli occhi di chiunque abbia la consuetudine di indossare maschera e pinne nei mari italiani. Questo, infatti, è il conosciutissimo pesce dal nome comune di donzella pavonina, uno dei pesci più comuni da incontrare a pochi metri di profondità e uno dei più variopinti del nostro mare. Fino a una quindicina di anni fa era diffuso solo nelle acque dell’estremo sud dell’Italia e comune solo a Lampedusa e nelle Isole Pelagie, oggi è possibile incontrarlo frequentemente fino a tutto il Mar Ligure (ma non nel nord Adriatico).
Un altro esempio è quello del pesce pappagallo Sparisoma cretense, l’unico pesce pappagallo del Mediterraneo, piuttosto vistoso per la sua colorazione rosso brillante con macchie verdi e i denti saldati insieme in una sorta di becco, che si trovava fino a qualche anno fa solo nelle acque siculo-calabresi e ormai è piuttosto comune nell’Arcipelago Toscano.



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LA FORMAZIONE DEI MARI



Tra le teorie più accreditate c’è quella che mette in relazione l’origine delle acque con il graduale raffreddamento della Terra. Quest’ultima era ricoperta, inizialmente, da una nuvola di gas e vapori incandescenti rilasciati dalla crosta e dai vulcani. Col tempo, il nostro pianeta cominciò a subire un lento e graduale raffreddamento che portò alla condensazione del vapore che, dunque, si trasformò in acqua. Questa precipitò al suolo insieme con l’anidride carbonica dando origine ai primi mari e oceani.

Teorie più recenti hanno invece ipotizzato che parte dell’acqua presente sulla Terra sia stata generata dall’impatto con comete (o altri corpi) ghiacciati. Oggi, infatti, si è scoperto che le comete hanno nuclei ricchi di acqua. Tuttavia, diversi studiosi dissentono con questa teoria in quanto sarebbe stato dimostrato che l’acqua contenuta nelle comete non ha caratteristiche analoghe a quelle dell’acqua terrestre.

Un’ultima ipotesi spiega come l’acqua, inizialmente, fosse contenuta in alcuni tipi di rocce costituite da particolari composti (silicati idrati). Con il passare del tempo (circa un miliardo di anni), tali composti, avrebbero cominciato, lentamente, a liberare l’acqua contenuta al loro interno dando così origine a una sorta di oceano primordiale.

Gli oceani dominano lo scenario attuale della superficie terrestre, occupandone più dei due terzi. Benché sulla Terra l'acqua esista sia in forma di vapore, di liquido e di ghiaccio, la fase liquida è di gran lunga la più abbondante ed è principalmente raccolta nei mari e negli oceani. Il vapore è quella presente in quantità minore. Il rapporto fra il contenuto totale di vapore nell'atmosfera e il contenuto totale degli oceani è meno di 1 a 100.000. In altri termini, gli oceani hanno uno spessore medio di circa 4 chilometri che aumenterebbe di poco più di un paio di centimetri se tutto il vapore dell'atmosfera, condensando, vi venisse riversato.

I ghiacci sono presenti in una quantità intermedia: produrrebbero, sciogliendosi interamente, un aumento di 60 metri del livello del mare.



Gli scambi fra fase liquida e vapore sono particolarmente intensi. La radiazione solare riscalda la superficie oceanica, da cui l'acqua evapora, soprattutto nelle regioni tropicali, ad un ritmo di circa un metro all'anno. Questo processo viene limitato dalla concentrazione massima di vapore nell'aria, che, alla superficie terrestre, è di circa 30 grammi per chilo d'aria: un bicchierino di whisky per ogni metro cubo di atmosfera. Poiché tale valore di saturazione aumenta esponenzialmente con la temperatura, ossia l'aria calda può trattenere una maggiore quantità di vapore dell'aria fredda, il rapporto quantitativo fra vapore e liquido dipende dalla temperatura dell'aria.

L'aria, contenente il vapore prodotto per evaporazione, alla superficie del mare, sale all'interno della troposfera, i 10 chilometri inferiori dell'atmosfera terrestre, si espande al diminuire della pressione con la quota, quindi si raffredda, il vapore condensa, e precipita sulla superficie terrestre come pioggia o neve. Il vapore permane nell'atmosfera in media per una settimana, durante la quale può venire trasportato per migliaia di chilometri.

Le caratteristiche di questo processo ciclico determinano la prevalenza della fase liquida rispetto al vapore e quindi l'esistenza degli oceani nella loro quantità attuale. Questo scenario persiste da più di 4 miliardi di anni, durante i quali gli oceani hanno cambiato forma a causa della deriva dei continenti e quindi anche la loro circolazione si è modificata. Glaciazioni sono state identificate a partire da due miliardi e mezzo di anni fa. Inizialmente gli oceani erano presumibilmente più caldi per effetto di un maggiore effetto serra.

Ma in realtà questi cambiamenti, fondamentali per l'ecosistema ed il clima in cui viviamo, sono piccoli in confronto alla veloce evoluzione iniziale. Infatti, all'inizio della storia della terra una grigia incandescente atmosfera, satura di quantità enormi di vapore d'acqua avvolgeva la terra, e non esisteva nulla di confrontabile con gli oceani attuali. Come si sono formati gli oceani? Sono sempre stati presenti, fin dall'origine della Terra? Le teorie recenti sostengono che il nostro pianeta, al pari di Venere e Marte, si formò con un violento processo circa 4,5 miliardi di anni fa. Nella nube protoplanetaria del sistema solare iniziarono a formarsi dei granuli rocciosi, i granuli crebbero in planetesimi, i planetesimi in corpi di dimensioni variabili da 1 a 100 km ed una successione di violente collisioni determinò la formazione della Terra. Al termine di questo processo di accrescimento sulla Terra assieme agli altri costituenti del pianeta era arrivata anche l'acqua. In realtà, sebbene il nostro ambiente sia dominato dalla presenza dell'acqua, in percentuale non è molta; attualmente solo lo 0,25 per mille della massa totale del pianeta è costituita da acqua.

In altri termini, il rapporto fra la quantità d'acqua presente sulla Terra e la massa totale del pianeta è quello che c'è fra un bottiglione d'acqua e un cubo di ferro il cui lato misura un metro.



Da dove e' arrivata? Oltre ai planetesimi, che erano, probabilmente, corpi ormai privi di apprezzabili quantità d'acqua, anche le comete, proveniente dalle regioni esterne del sistema solare e costituite da grandi quantità di ghiaccio, contribuirono all'accrescimento della Terra.

Secondo alcune stime, le comete portarono, durante la fase di accrescimento, circa 10 volte il contenuto attuale di acqua degli oceani. Quindi al momento della formazione della Terra, la quantità d'acqua oggi riscontrata era ampiamente disponibile. Questa disponibilità, tuttavia, non assicura la formazione di un pianeta ricco di acqua, a causa dell'estrema violenza del processo di formazione: in 100 milioni di anni un corpo di circa 10 chilometri crebbe nella Terra con le sue dimensioni attuali, ossia, oltre 6.000 chilometri di raggio. L'energia degli impatti fuse la superficie terrestre, produsse un oceano di magma, da cui fuoriuscivano getti di vapore e gas che costituivano la primordiale atmosfera. Mentre gli impatti meno violenti aumentavano la massa della Terra, quelli più violenti gliene sottraevano e ne strappavano, proiettandola nello spazio, la primitiva atmosfera. Ancor oggi, le componenti volatili sfuggono all'attrazione terrestre negli strati esterni dell'atmosfera. A 500 chilometri sopra la superficie terrestre, nell'esosfera, la densità è così bassa che le singole molecole di gas, attraversano lunghe distanze, centinaia di chilometri, senza collidere fra loro e possono, al pari di proiettili lanciati lontano dalla terra, sfuggire al suo campo di gravità se superano una velocità di soglia, circa 11 km/s. Questa velocità può essere acquisita attraverso urti con altre molecole, particelle o fotoni. La stessa agitazione termica delle molecole di un gas nell'esosfera ne può determinare la fuga dal campo di attrazione terrestre.

Nella rovente atmosfera iniziale della Terra, questo processo di fuga era molto più efficiente di ora. Esso agì sommato allo svuotamento dell'atmosfera dovuto agli impatti durante l'accrescimento della Terra. Così, è probabile che grandi quantità d'acqua si siano decomposte per fotolisi nella parte esterna dell'atmosfera e siano andate perdute. Questi processi determinarono la scomparsa quasi completa dell'acqua sia in Marte, più piccolo della Terra e quindi con una gravità inferiore e una minore velocità di fuga, sia in Venere, più caldo della Terra per un effetto serra più intenso.

Gradualmente gli impatti diminuirono mentre la massa di asteroidi e planetesimi si concentrava progressivamente nei pianeti attuali e la quantità di corpi con orbite in collisione diminuiva. Gradualmente la Terra si raffreddò. Il rovente vapore dell'atmosfera, invece di sfuggire all'attrazione terrestre, iniziò a condensare e ricadere sulla superficie terrestre per formare i primi mari. Il raffreddamento non fu una tranquilla transizione. Gli oceani furono presumibilmente più volte vaporizzati interamente da colossali impatti. La presenza stessa del vapore acqueo nell'atmosfera determinava un enorme effetto serra e un'altissima temperatura in superficie. Così, nonostante la somiglianze nella composizione iniziale e nella collocazione nel sistema solare di Venere, Marte e Terra, solo quest'ultima riuscì a conservare l'abbondante riserva d'acqua e a formare immensi oceani, che ora possiamo ammirare, consapevoli della loro complessa origine ed iniziale precarietà.






lunedì 17 agosto 2015

I PIRATI



I pirati abbandonando per scelta o per costrizione la precedente vita sui mercantili, abbordano, depredano o affondano le altre navi in alto mare, nei porti, sui fiumi e nelle insenature.

Il sostantivo deriva dal latino ‘pirata, piratae’, che a sua volta deriva dal greco "πειρατής" (peiratès), dal verbo "πειράομαι" (peiráomai) che significa “fare un tentativo, provare un assalto”.

Le aree considerate ad alto rischio perché interessate dalla presenza di pirati sono cambiate nel corso della storia. Tra queste, il Mare Caraibico, la zona dello stretto di Gibilterra, il Madagascar, il Mar Rosso, il Golfo Persico, la costa indiana di Malabar e tutta l'area tra le Filippine, Malesia e Indonesia, dove spadroneggiavano i pirati filippini.

Il Mar Cinese Meridionale ospitava all'inizio del XIX secolo la più numerosa comunità di pirati, si stima circa 40.000, nonché la più temuta per le atrocità di cui si rendevano responsabili.

Il fenomeno della pirateria è antichissimo. Vi sono esempi di pirati nel mondo antico con gli Shardana o classico tra i Greci e i Romani, quando ad esempio gli Etruschi erano conosciuti con l'epiteto greco Thyrrenoi, (da cui poi deriva Mar Tirreno) e avevano la fama di pirati efferati; all’inizio del primo secolo a.C. il giovane Gaio Giulio Cesare fu preso prigioniero da pirati che veleggiavano nelle acque intorno all’isola di Rodi, con grandi flotte di navi enormi, secondo un famoso aneddoto riferito da autori come Svetonio (nelle Vite dei Cesari, libro I) e Plutarco (nelle Vite parallele). Gneo Pompeo Magno condusse una vera e propria guerra contro i pirati, con il sostegno del Senato romano.I pirati erano, quasi sempre, giustiziati pubblicamente.

Man mano che le città-stato della Grecia crebbero in potenza, attrezzarono delle navi scorta per difendersi dalle azioni di pirateria.

Il Mar Mediterraneo vide sorgere e consolidarsi alcune fra le più antiche civiltà del mondo ma, nello stesso tempo, le sue acque erano percorse anche da predoni del mare. L'Egeo, un golfo orientale del Mediterraneo e culla della civiltà greca, era un luogo ideale per i pirati, che si nascondevano con facilità tra le migliaia di isole e insenature, dalle quali potevano avvistare e depredare le navi mercantili di passaggio. Le azioni di pirateria erano inoltre rese meno difficoltose dal fatto che le navi mercantili navigavano vicino alla costa e non si avventuravano mai in mare aperto. L'attesa dei pirati, su una rotta battuta da navi cariche di mercanzie, era sempre ricompensata da un bottino favoloso. I pirati attaccavano spesso anche i villaggi e ne catturavano gli abitanti per chiedere un riscatto o per rivenderli come schiavi.

I pirati più conosciuti nel Medioevo furono i Vichinghi, che dalla Scandinavia attaccarono e depredarono principalmente tra l’ VIII e il XII secolo. Saccheggiarono le coste e gli entroterra di tutta l’Europa occidentale e successivamente le coste del Nord Africa e dell’Italia. La mancanza di poteri centralizzati in tutta Europa nel Medioevo favorì la pirateria in tutto il continente.

I Vichinghi navigatori esperti, i guerrieri norreni originari della Scandinavia e della Danimarca pianificavano i loro attacchi in anticipo e di solito riuscivano a sorprendere le loro prede grazie alla velocità e alla mobilità, elementi chiave delle incursioni norvegesi che le rendeva difficili da prevenire.

I pirati norvegesi si svilupparono nei primi anni dell'epoca vichinga. Dopo un primo periodo di nomadismo, stabilirono basi stabili sulle coste, insediandosi con le loro famiglie in posti come Jorvik (York), Islanda, Novgorod (Russia) e Normandia. La pirateria mise le basi per l'esplorazione finché la civiltà norvegese raggiunse il Nord America. Famosi per la loro abilità di navigatori e per le lunghe barche, i vichinghi in pochi secoli colonizzarono le coste e i fiumi di gran parte d'Europa, le isole Shetland, Orcadi, Fær Øer, l'Islanda, la Groenlandia e Terranova; si spinsero a sud fino alle coste del Nordafrica e a est fino alla Russia e a Costantinopoli, sia per commerciare sia per compiere saccheggi.

Il loro declino avvenne in coincidenza con la diffusione del Cristianesimo in Scandinavia; a causa della crescita di un forte potere centralizzato e al rinforzarsi delle difese nelle zone costiere dove erano soliti compiere saccheggi, le spedizioni predatorie divennero sempre più rischiose, cessando completamente nell'XI secolo, con l'ascesa di re e grandi famiglie nobili e di un sistema semi feudale.



I vichinghi, nell'immaginario moderno, sono associati a falsi miti, tra i quali che fossero molto alti (secondo studi moderni erano solo di media statura), che indossassero elmi con le corna (assai scomodi in battaglia), che vivessero solo per depredare (erano al contrario abili commercianti), usassero i teschi come tazze e fossero selvaggi e sporchi. Il cuore della società vichinga era in realtà basato sulla reciprocità, sia a livello personale e sociale sia a livello politico. Riguardo all'igiene, erano in realtà considerati "eccessivamente puliti" dalle popolazioni britanniche per la loro abitudine di fare almeno un bagno a settimana e usavano pettini e sapone. Ciò non toglie che effettivamente i Vichinghi terrorizzavano chiunque fosse da loro assalito; spesso trucidavano la popolazione locale, depredando tutti i beni e il bestiame, schiavizzavano i bambini e le donne, talvolta arrivando a commettere infanticidio, secondo le loro usanze belliche.

Verso la fine del IX secolo, i Mori si erano instaurati lungo le coste della Francia meridionale e l’Italia settentrionale. Nel 846 i Mori saccheggiarono Roma e danneggiarono il Vaticano. Nel 911, il Vescovo di Narbona fu impossibilitato al ritorno in Francia per via del controllo che i Mori esercitavano su tutti i passi delle Alpi. Dall’824 al 916 i pirati Arabi raziarono per l’intero Mediterraneo. Nel XIV° secolo gli assalti dei pirati Mori e Arabi costrinsero il Ducato Veneziano di Creta a chiedere al Gran Duca di tenere costantemente in allerta la sua flotta navale.

Dopo le invasioni compiute dagli Slavi. della ex provincia romana della Dalmazia nel V e VI secolo, una tribù chiamata Narentani prese comando, a partire dal VII secolo, sul mare Adriatico. Le loro incursioni aumentarono al punto che viaggiare e commerciare attraverso l’Adriatico non era più sicuro.

I Narentani furono liberi di attaccare e saccheggiare nel periodo in cui la Marina Veneziana era impegnata in campagne militari fuori dai propri mari, ma al momento del suo ritorno nell’Adriatico, i Narentani abbandonarono i loro assalti, e furono costretti a firmare un trattato con i Veneziani ed a riconoscere il Cristianesimo. Negli anni 834-835, rotto il trattato precedentemente stipulato, attaccarono nuovamente ai danni di commercianti Veneziani di ritorno da Benevento. Seguirono quindi, negli anni 839 e 840, dei tentativi di punirli da parte dei militari Veneziani che andarono completamente falliti.

Successivamente gli attacchi ai danni dei Veneziani si fecero più frequenti e videro anche la partecipazione degli Arabi. Nell’anno 846, i Narentani saccheggiarono la laguna di Caorle passando alle porte di Venezia. I Narentani rapirono degli emissari del vescovo di Roma, che facevano ritorno dal Consiglio Ecclesiastico di Costantinopoli. Questo causò delle azioni militari da parte dei Bizantini che riuscirono a sconfiggerli e convertirli al Cristianesimo.Dopo le incursioni da parte degli Arabi, sulla costa adriatica nell’ 872 e il ritiro della Marina Imperiale, i Narentani continuato le loro scorrerie nelle acque Veneziane, provocando nuovi conflitti con gli italiani nell’ 887-888.

I Veneziani inutilmente continuarono a combattere contro di loro nel corso dei secoli X e XI.

Il programma di espansione dell'Aragona era incentrato prevalentemente sulle attività marinare di pirateria e di corsa. Molte furono le lamentele da parte di diverse regioni vicine e lontane, attestando così l'efficacia di tali attività.

Nel 1314 due ambasciatori marsigliesi accusarono i pirati Catalani di aver venduto alcuni commercianti e marinai provenzali, dopo averli di beni ed imbarcazioni. Attorno al 1360, sempre da parte dei marsigliesi, si ha notizia dell'invio alla Regina Giovanna di Napoli di ambasciatori per la richiesta di risarcimento di danni conseguenti a razzie catalene, che ammontavano a ben 40.000 fiorini d'oro. I Re Aragonesi non sempre mantenevano un atteggiamento chiaro nei confronti degli alleati, ai quali da un lato promettevano amicizia, mentre permettevano che i propri sudditi si volgessero contro di loro per saccheggi e attacchi ai mercantili. il controllo sul movimento dei porti aragonesi era rigido e veniva precisato da speciali norme che stabilivano le regole e le precauzioni secondo le quali si doveva navigare. L'editto reale del 1354 prevedeva infatti che nessuna imbarcazione potesse salpare dalla spiaggia di Barcellona o da altri porti del Regno, senza una licenza o un lasciapassare e che soltanto le navi armate potessero trasportare merci pregiate.

Una organizzazione così minuziosa dell'attività mercantile sottolinea la volontà di programmare anche il commercio in funzione dei problemi dell'offesa e della difesa e quindi della pirateria e della guerra di corsa.

Fu il Re Enrico III D'Inghilterra (1216-1272) ad emettere le prime lettere di marca conosciute.

Ve ne erano di 2 differenti tipi: in tempo di guerra il re emetteva lettere di corsa che autorizzavano i corsari ad attaccare le navi nemiche, ed in periodo di pace i mercanti che avevano perso le navi od il carico per colpa di pirati potevano richiedere una lettera di marca speciale che permetteva loro di attaccare navi appartenenti allo Stato d'origine del pirata, per recuperare le perdite.

La gravità di questo fenomeno è testimoniata da provvedimenti cruenti ed esemplari come per esempio quello preso dal Re Enrico III nei confronti di un pirata di nome William Maurice, condannato per pirateria nel 1241 e conosciuto come la prima persona ad essere stata impiccata e squartata a fronte di una condanna per atti di pirateria.

L'Ordine dei Cavalieri di San Giovanni, detti anche Cavalieri del Santo Sepolcro, fu fondato nell'XI secolo durante le Crociate con l'intento di difendere Gerusalemme, in mano ai Cristiani, dagli attacchi delle forze dell'Islam (tra i cui attacchi vi era anche la "Corsa barbaresca" alle coste corrispondenti all'attuale area di Israele); Esiste una miniatura che mostra i crociati che caricano le navi per il viaggio in Terra Santa. I Cavalieri costruirono anche ospedali dove ricoverare i crociati feriti.

Nel Mar Mediterraneo operò quella che divenne la pirateria barbaresca, ossia ad opera dei corsari barbareschi, provenienti delle regioni "barbaresche" (cioè a maggioranza berbera che si affacciano sul Mediterraneo), che cominciarono ad operare dal XIV secolo.

Le scorrerie degli arabi nel Mediterraneo iniziarono con l'occupazione del cantiere navale di Alessandria d'Egitto (642) e la successiva costruzione del cantiere navale di Qayrawan, presso Tunisi (690 circa).

Gli Stati barbareschi (Algeri, Tripoli e Tunisi) erano città-Stato musulmane situate sulle coste del Mediterraneo, la cui principale attività era rappresentata dalla guerra marittima di corsa, soprattutto ai tempi delle crociate, guerre religiose che videro scontrarsi, a partire dalla fine dell'XI secolo, cristiani e musulmani.

Fino a circa il 1440, il commercio marittimo sia nel Mare del Nord e nel Mar Baltico era seriamente in pericolo di attacco da parte dei pirati.

I musulmani continuarono anche nel Rinascimento a depredare navi, e finirono progressivamente di operare solo nel XIX secolo, partendo comunque sempre e solo dalle coste marocchine, algerine, tunisine o libiche, ma senza essere pirati; ciò è dimostrato dal fatto che i corsari barbareschi non aggredivano navigli musulmani ma rapinavano esclusivamente imbarcazioni cristiane.

Tuttavia la pirateria moderna inizia realmente solo nel XVII secolo nel Mare Caraibico ed in meno di mezzo secolo si estende in tutti i continenti; il Mar delle Antille rimane ad ogni modo il centro della pirateria, sia perché là i pirati riescono a godere di una serie di appoggi e favori sulla terraferma, sia perché le numerose isole presenti sono ricche di cibo e i fondali bassi impediscono inseguimenti da parte delle già lente navi da guerra. Tra le cause dello sviluppo della moderna pirateria vi fu l'azione della Francia e dell'Inghilterra che, per contrastare la Spagna nel Mare dei Caraibi, finanziarono vascelli corsari che saccheggiassero i mercantili spagnoli. Successivamente, sia per il venir meno dell'appoggio anglo-francese, sia per una acquisita abitudine allo stile di vita libero ed indipendente, molti corsari divennero pirati.

Nel 1717 e 1718 Re Giorgio I di Gran Bretagna offrì il perdono ai pirati nella speranza di indurli ad abbandonare la pirateria, ma il provvedimento si dimostrò di nessuna efficacia. Per rendere i mari più sicuri si organizzò allora una sistematica "caccia ai pirati" da parte di navi corsare, specificamente autorizzate dai governi per combattere i pirati. Infatti, sebbene nel momento della massima espansione, attorno al 1720, i pirati dell'Atlantico non superassero il numero di 4 000, essi furono in grado di porre una pesante minaccia sullo sviluppo capitalistico dei commerci tra Inghilterra e colonie. Ciò fu reso possibile, oltre che dalla oggettiva difficoltà di opporsi alla pirateria, da alcune cause più generali. Con il trattato di Utrecht, la fine della guerra di successione spagnola ed il nuovo equilibrio tra potenze che si venne a creare a partire dal 1714, le marinerie militari di Francia, Spagna e Inghilterra furono molto ridotte e da quel momento fino al 1730 circa vi fu anche una certa diminuzione dei commerci internazionali. La disoccupazione che colpì i marinai, la drastica diminuzione dei salari che ad essa si accompagnò, ed il contemporaneo peggioramento delle condizioni di vita a bordo dei vascelli, spinse un gran numero di marinai verso la pirateria che prometteva loro guadagni più facili e condizioni di vita più umane.

La pirateria è un fenomeno presente anche nel mondo contemporaneo. I pirati d'oggi hanno armi sofisticate, ma usano le stesse tecniche di abbordaggio. Attaccano navi mercantili disarmate e inoffensive; in alcuni casi uccidono i marinai e s'impossessano del carico, altre volte prendono in ostaggio l'equipaggio e chiedono un riscatto. Si calcola che le perdite annue ammontino tuttora a una cifra compresa tra 13 e 16 miliardi di dollari, in particolare a causa degli abbordaggi nelle acque degli Oceani Pacifico e Indiano e negli stretti di Malacca e di Singapore, dove transitano annualmente più di 50 000 carghi commerciali. I più pericolosi sono gli indonesiani, che nel 2000 si sono meritati il nome di "feroci pirati" per aver depredato 86 mercanti.

Mentre il problema si presenta saltuariamente anche sulle coste del Mediterraneo e del Sud America, la pirateria nei Caraibi e in America del Nord è stata debellata dalla Guardia costiera degli Stati Uniti. La pirateria si annida nel Golfo di Aden e Corno d'Africa.

Diversi sono i termini con i quali sono indicati i pirati nel corso del tempo. Tra questi, bucanieri, derivato da Boucan, e filibustieri, derivato dal francese flibustier (in inglese freebooter). Benché spesso accomunati ai pirati, i corsari erano invece combattenti al servizio di un governo che, in cambio di un'autorizzazione a rapinare navi mercantili nemiche (lettera di corsa, da qui corsari), incameravano parte del bottino.

La differenza più evidente fra pirati e corsari era che questi ultimi, se catturati, soggiacevano alle norme previste dal diritto bellico marittimo, venendo imprigionati, al pari di un qualsiasi prigioniero di guerra, mentre i pirati catturati erano sommariamente giustiziati, in genere per impiccagione alla varea (estremità, parte terminale) del pennone di un fuso maggiore, al fine di fornire una tangibile prova della potenza della giustizia umana e fungere al contempo da salutare ammonimento per chi fosse tentato d'intraprendere una simile attività.

Stando al libro sui pirati del capitano Charles Johnson, la vita a bordo di una nave pirata era piena di contrasti. Sulle navi non mancava il lavoro per l'equipaggio impegnato in una costante manutenzione della nave. Le regole che l'equipaggio doveva rispettare erano poche ma molto dure.

Tra queste:

Ognuno ha il diritto di voto, a provviste fresche e alla razione di liquore
Nessuno deve giocare a carte o a dadi per denaro
Le candele devono essere spente alle otto
Tenere sempre le proprie armi pronte e pulite
Ognuno deve lavare la propria biancheria
Donne e fanciulle non possono salire a bordo
Chi diserta in battaglia viene punito con la morte o con l'abbandono in mare aperto.
I pirati prendevano le loro decisioni in maniera collettiva. Non esisteva un leader assoluto; il comandante veniva eletto da tutta la ciurma riunita (dall'ultimo mozzo al timoniere) per effettuare le scelte relative alla conduzione della nave. Il bottino veniva diviso in quote uguali assegnando in certi casi due quote al comandante e una e mezzo al capitano.

Ogni comandante aveva un proprio regolamento che modificava in alcuni punti quello base. I pirati, commettendo attività illecite, si riunivano in basi. La base dei pirati più famosa fu un'isola a forma di tartaruga detta appunto la Tortuga, che si trova nei pressi dell'isola di Hispaniola.

Le prime navi dei pirati furono le galere. Una galera è una grande barca a remi fornita di vele. Quando il vento era a favore, le vele venivano sfruttate per accelerare la navigazione. I pirati avevano galere molto grandi, tanto che erano necessari un centinaio di rematori per muoversi. Quelle navi imbarcavano anche soldati e proprio per questo raramente navi del genere partivano per lunghi viaggi oceanici. C'erano così tanti uomini a bordo che non restava posto per le provviste!



Durante il periodo d'oro della pirateria, la maggior parte delle navi pirata erano velieri, che utilizzavano il vento come forza motrice per i loro lunghi viaggi in cerca di tesori. Tutti i velieri erano abbastanza simili fra loro. Erano di legno e avevano grandi vele di tessuto pesante e resistente. Le vele erano appese a travi trasversali chiamate "pennoni" che a loro volta erano fissati ad alti pali chiamati "alberi". I velieri dei pirati avevano spazi appositi per conservare le provviste e custodire il tesoro. Molti erano armati di cannoni e altre armi da fuoco più piccole per attaccare le navi di passaggio.

Lo Sloop è una delle imbarcazioni preferite dai pirati. Era una piccola barca con un solo albero. Gli sloop dei pirati non potevano trasportare tanti cannoni e uomini come le navi più grandi, ma in battaglia si muovevano molto velocemente. Per i pirati la velocità era fondamentale. Le loro imbarcazioni dovevano cogliere di sorpresa le navi che intendevano attaccare e dovevano anche essere svelte per sfuggire alle navi che volevano attaccare loro!

Il brigantino è uno snello veliero, maneggevole e di dimensioni contenute, dotato di due o tre alberi, con una stazza lorda che va dalle 100 alle 300 tonnellate. Il termine è di origine italiana (derivato da brigante, nella sua espressione originaria di componente una brigata, cioè gruppo di più persone da cui il termine). I "brigantini a palo" avevano tre o più alberi. Erano più lenti delle imbarcazioni più piccole, ma alcuni pirati li preferivano perchè potevano trasportare più cannoni e un bottino più consistente.

La Goletta è un'imbarcazione veloce ma con buon stivaggio, eccelle nelle andature contro vento e venne utilizzata anche nella guerra di corsa. Si tratta di un'imbarcazione a vela fornita di due alberi leggermente inclinati verso poppa ed armati con vele auriche; presenta il bompresso, ossia l'albero inclinato protendente dalla prua dell'imbarcazione. Viene chiamata "goletta a palo" la variante che presenti un terzo albero, collocato a prua e fornito di vele quadre, chiamato albero di trinchetto.

Nessuno potrà mai certificare quante navi pirata siano affondate con i loro ricchissimi carichi o quanti tesori siano stati sotterrati per i tempi futuri e mai più recuperati. Certamente la prima ipotesi é più probabile della seconda visto che i pirati molto difficilmente abbandonavano le proprie navi ma piuttosto affondavano con esse e le ricchezze stivate. Le leggende sui tesori nascosti alla Tortuga o in altre isole Caraibiche si sono tramandate per secoli, mentre i riscontri concreti sono stati veramente pochi. A regolari intervalli vengono ritrovate antiche mappe o presunte tali e documenti che danno nuovi stimoli ed incentivi ai “Cacciatori di tesori”.

Alcuni nomi e località leggendarie sono il tesoro di Cocos Island in Costarica, l’isola che ha ispirato il celeberrimo romanzo di Stevenson “L’isola del tesoro” dove si favoleggia che diversi famosi pirati abbiano seppellito le loro ricchezze; Il tesoro del pirata Jean Lafitte, di William Kidd, del pirata Francesco Nau detto l’Olonese.

Cocos Island è il rifugio di corsari e pirati durante il XVII E XVIII secolo nell’oceano Pacifico al largo del Costarica; Jacques Cousteau che di mari certamente se ne intendeva la definì l’isola più bella del mondo, per molto tempo ignorata dalle carte nautiche. Abbastanza lontana dal continente, ricca di acqua dolce, cascate, anfratti, caverne, ideale per nascondervi forzieri. Si narra che addirittura Morgan vi seppellì il bottino del saccheggio di Panama del 1671. Altre leggende parlano di William Davies nel 1684, Bennet Graham, Lionel Wafer o di Benito "Espada Sangrienta" Bonito nel 1819. Ma c’é di più: si favoleggia che sia qui anche il mitico “Tesoro di Lima”, tonnellate d’oro rubato dalle cupole delle chiese Sudamericane. L’oro navigava sulla “Mary Dear”e nel 1821 scomparve senza lasciare tracce.

Nel 1998 un satellite della NASA rilevò presenze d’oro sull’isola,due tracce sulla terraferma ed una in mare, tanto che anche il governo del Costarica ha promosso ricerche. Si calcola che non meno di 5.000 spedizioni siano state organizzate nel corso dei secoli, alcune artigianali,altre molto professionali ma aldilà di qualche moneta,gioiello e doblone nessuno ha mai messo le mani sul “Grande Tesoro”nonostante gli studi delle antiche mappe e le incisioni trovate sulle rocce dell’isola.