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lunedì 28 settembre 2015
L'ISOLA FERDINANDEA
Tra la Sicilia e l’Africa settentrionale, il Mediterraneo centrale è caratterizzato dall’allineamento dei bacini subsidenti di Pantelleria, Linosa e Malta che, nel loro insieme, sono organizzati a formare il Canale di Sicilia. Il canale è il prodotto della collisione tra l’Africa e l’Europa, la quale è ancora in atto e si esercita lungo traiettorie circa nord-sud. In questo contesto, il canale è controllato da due sistemi principali di faglie, orientati rispettivamente NW-SE e circa nord-sud. Le discontinuità che individuano e bordano i bacini sono sede di subsidenze veramente importanti, che superano 3.000 m nella fossa di Linosa.
A partire da circa 8 milioni di anni fa, nel canale ha preso posto un vulcanesimo toleiitico e alcalino, che ha creato le due isole vulcaniche di Pantelleria e Linosa ed un numero elevato di apparati sottomarini, molti dei quali ancora sconosciuti. Il vulcanesimo è ancora attivo e le eruzioni storiche sono tutte sottomarine; per alcune di esse abbiamo solo indicazioni vaghe, altre sono state segnalate ma mai controllate; possediamo notizie certe solo delle due attività che hanno portato alla formazione delle isole effimere di Ferdinandea (1831) e Foerstner (1891), quest’ultima 4-5 km a NW delle coste dell’Isola di Pantelleria.
La nascita dell’Isola Ferdinandea fu annunciata, tra il 22 ed il 26 giugno del 1831, da terremoti avvertiti fino a Marsala, Trapani, Palermo e che a Sciacca causarono lesioni alle abitazioni e caduta di calcinacci. Poi in successione, il 28 giugno il capitano C.H. Swinburne della marina inglese segnalò di aver «visto un fuoco in lontananza in mezzo al mare»; il 2 luglio l’acqua ribolliva alla Secca del Corallo (oggi Banco Graham), dove alcuni marinai, che raccoglievano il pesce ucciso dalle attività vulcaniche, svennero nelle loro barche a causa delle esalazioni; il 5 luglio forti scosse sismiche furono sentite fino a Marsala; infine, il 7 luglio 1831, F. Trefiletti, comandante del Gustavo, vede per primo l’isola, 33 miglia a sud-ovest da Sciacca, alta 30 palmi sul pelo del mare, che «sputa cenere e lapilli».
Di notte l’attività era ben visibile da Sciacca, Menfi, Mazzara e Marsala. L’eruzione, ormai subaerea, costruì un’isola, il cui colore dominante era il nero e che risulterà alla fine alta 60 m, larga poco meno di 300 e con un perimetro di quasi 1 km. Le attività eruttive interagirono per tutto il tempo con il mare e il cratere, rotondeggiante e largo poco meno di 30 m, fu sempre invaso dall’acqua, che si abbassava e s’innalzava nel condotto e, traboccando, formava un fangoso ruscello che scendeva fino al mare e lo intorbidiva. Tutto l’edificio era saturo d’acqua. Sui pendii del cono, a 25 m dalla riva, furono descritti due laghetti, il più basso pieno di acque giallo-solfuree, il secondo di acque giallo-rossastre, che ribollivano gorgogliando; probabilmente erano crateri secondari, perché durante l’eruzione furono segnalate fino a tre alte colonne di fuoco che s’innalzavano contemporaneamente.
Il governo borbonico, intanto, aveva inviato sul posto il fisico Domenico Scinà, il quale compilò una relazione intitolata Breve ragguaglio al novello vulcano apparso nel mare di Sciacca. Il professor Carlo Gemmellaro, docente di Storia Naturale presso l'Università degli Studi di Catania, provvide invece a stilare una relazione circostanziata che suscitò l'interesse di molti illustri uomini di cultura scientifica, soprattutto stranieri.
L'isoletta suscitò subito l'interesse di alcune potenze straniere europee, che nel mar Mediterraneo cercavano punti strategici per gli approdi delle loro flotte, sia mercantili che militari.
L'Inghilterra, che col suo ammiraglio sir Percival Otham si trovava nelle acque dell'isola, dopo un'accurata ricognizione prese possesso di questa in nome di sua maestà britannica. Il 24 agosto giunse sul posto il capitano Jenhouse, che vi piantò la bandiera britannica, chiamando l'isola "Graham". Il nome "Banco di Graham" è utilizzato nella cartografia recente per indicare il banco sottomarino costituente l'area su cui si trova il vulcano che diede origine all'isola Ferdinandea.
Questi avvenimenti fecero montare una protesta degli abitanti del Regno delle Due Sicilie, che assieme a quelle del capitano Corrao, arrivarono anche alla casa borbonica. Si propose di nominare l'isola "Corrao", chiedendo inoltre al re provvedimenti contro il sopruso inglese.
Il re Ferdinando II che rivendicò l'isola come territorio dello stato borbonico.
Il 26 settembre dello stesso anno la Francia, per contrastare l'azione inglese, inviava il brigantino La Fleche, comandato dal capitano di corvetta Jean La Pierre, il quale recava con sé una missione diretta dal geologo Constant Prévost insieme al pittore Edmond Joinville, al quale si devono i disegni di quel fenomeno eccezionale.
I francesi fecero approfonditi rilievi e ricognizioni accurate fino al 29 settembre, e il materiale raccolto venne inviato al viceammiraglio della flotta francese De Rigny e relazionato alla Société géologique de France, durante la seduta del 7 novembre 1831. Il contenuto di queste relazioni stabiliva che l'isola, sotto l'azione delle onde, aveva subito diverse frane, che a loro volta avevano provocato grandi erosioni sui fianchi; quindi i crolli avevano trascinato con sé una grande quantità di detriti. Pertanto l'isola, non avendo una base consistente, si poteva inabissare bruscamente.
Come gli inglesi, anche i francesi approdarono sull'isola senza chiedere alcun permesso a re Ferdinando II di Borbone, nonostante l'isola fosse sorta entro acque prossime alle coste siciliane. Anzi i francesi la ribattezzarono "Iulia" in riferimento alla sua comparsa avvenuta nel mese di luglio, poi posero una targa a futura memoria con la seguente iscrizione: "Isola Iulia – i sigg. Constant Prévost, professore di geologia all'Università di Parigi – Edmond Joinville, pittore 27, 28, 29 settembre 1831" e in segno di possesso venne innalzata sul punto più alto la bandiera francese.
Il re Ferdinando II, constatando l'interesse internazionale che l'isoletta aveva suscitato, inviò sul posto la corvetta bombardiera Etna al comando del capitano Corrao il quale, sceso sull'isola, piantò la bandiera borbonica battezzando l'isola "Ferdinandea" in onore del sovrano.
Sembrava che l'evento non suscitasse altro clamore, invece giunse sul posto il capitano Jenhouse con una potente fregata inglese e il Corrao, grazie alla mediazione del capitano Douglas, ottenne di rimettere la questione ai rispettivi governi.
L'isola avrebbe goduto, all'epoca, dello stato di Insula in mari nata, cioè, in quanto emersa dal mare, la prima nazione o persona a mettervi piede avrebbe potuto rivendicarla legittimamente (in questo caso gli Inglesi). Il fatto che l'isola fosse nata nelle acque siciliane, però, complicava la situazione.
Non passò molto tempo che il pronostico francese cominciò ad avverarsi. Le persone che viaggiavano sul vaporetto Francesco I riferirono che l'isola aveva un perimetro di mezzo miglio e l'altezza si era abbassata.
Verso la fine d'ottobre del 1831 il governo borbonico prese posizione ufficiale e inviò ai governi di Gran Bretagna e Francia una memoria con la quale dette loro notizia dell'evento, ricordando che a norma del diritto internazionale la nuova terra apparteneva alla Sicilia. Tuttavia, a quanto sembra i due governi non risposero e fra le due nazioni, entrambe interessate a favorire le loro posizioni strategiche nel Mediterraneo, iniziarono le rivalità.
Il 7 novembre di quell'anno, l'inglese Walker, capitano dell'Alban, misurò l'isola, che risultava ridotta a un quarto di miglio con un'altezza di venti metri. Il 16 novembre si scorgevano soltanto piccole porzioni e l'8 dicembre il capitano Allotta, del brigantino Achille, ne constatò la scomparsa, mentre alcune colonne d'acqua si alzavano e si abbassavano. Dell'isola rimaneva un vasto banco di roccia lavica.
Nel 1846 e nel 1863 l'isoletta è riapparsa ancora in superficie, per poi scomparire nuovamente dopo pochi giorni. Di essa rimangono solo i molti nomi avuti in seguito alla disputa internazionale: Giulia, Nerita, Corrao, Hotham, Graham, Sciacca, Ferdinandea.
Con il terremoto del 1968 nella valle del Belice le acque circostanti il banco di Graham furono viste intorbidirsi e ribollire, cosa che venne interpretata come un probabile segnale che l'isola Ferdinandea stesse per riemergere. Così non fu, ma venne segnalato un movimento nelle acque internazionali di alcune navi britanniche della flotta del Mediterraneo. A scanso di equivoci i siciliani posero sulla superficie del banco sottomarino una targa in pietra, sulla quale si legge:
« Questo lembo di terra una volta isola Ferdinandea era e sarà sempre del popolo siciliano. »
Andata successivamente distrutta, probabilmente colpita da un'ancora, la targa è stata prontamente sostituita.
Successivamente il vulcano è rimasto dormiente per decenni, con la cima circa 8 metri sotto il pelo dell'acqua.
Nel 1986 fu erroneamente scambiato per un sottomarino libico e colpito da un missile della U.S. Air Force nella sua rotta per bombardare Tripoli.
Nel 2002 una rinnovata attività sismica nella zona ha indotto i vulcanologi a congetturare sopra un imminente nuovo episodio eruttivo con conseguente nuova emersione dell'isola. Per evitare in anticipo una nuova disputa di sovranità, dei sommozzatori italiani hanno piantato un tricolore sulla cima del vulcano di cui si aspettava la riemersione. Anche allora le eruzioni non si sono verificate e la cima di Ferdinandea è rimasta circa 8 metri sotto il livello del mare.
Nel mese di settembre del 2006, una spedizione subacquea della LNI di Sciacca e del Dipartimento della Protezione civile Siciliana, coordinata dal professor Giovanni Lanzafame dell'Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia di Catania, da bordo di un'unità della Guardia Costiera, ha posizionato un sensore di pressione sulla vetta sottomarina della Ferdinandea, per il monitoraggio dell'attività sismica dell'importante edificio vulcanico. Il "sarcofago" contenente lo strumento di misurazione registratore è stato recuperato da un'altra équipe il 22 settembre 2007.
L’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV) ha compiuto dal 17 al 21 luglio 2012 la prima campagna di monitoraggio sottomarino nell’area, effettuando un rilevamento geofisico ad alta risoluzione sopra il Banco Graham (-6,9 m sotto il livello marino) e i banchi Terribile (-20 m) a est e Nerita (-16,5 m) a NE con la nave da ricerca Astrea dell’ISPRA. Questa prospezione ha permesso di riconoscere la presenza di 9 crateri vulcanici monogenici, distinti fra loro, a cui dovrebbero corrispondere altrettante eruzioni avvenute nell'area.
domenica 27 settembre 2015
ISOLA FANTASMA
In genere le isole fantasma derivano dalle relazioni dei primi navigatori ed esploratori di nuove terre. Solitamente la loro presunta esistenza nasceva da errori di identificazione e localizzazione di isole reali, come nel caso dell'isola di Pepys, o per errore delle coordinate geografiche trasportate sulle mappe.
Altre isole fantasma sono probabilmente dovute ad errori di navigazione, ad errate identificazioni di iceberg e banchi di nebbia o frutto di illusioni ottiche.
L'inesistenza di alcune isole è ad oggi dibattuta o di recente scoperta, come nel caso di Sandy Island (Nuova Caledonia), presente su google maps ma non rilevata da spedizioni scientifiche.
Mentre le isole fantasma non sono mai realmente esistite, altre come l'isola Thompson, Bermeja o l'isola del Podestà, potrebbero essere state isole reali successivamente distrutte da esplosioni vulcaniche, terremoti o frane sottomarine o ancora banchi di sabbia poi ricoperti dall'acqua, tipico esempio è l'isola Ferdinandea.
In altri casi ancora quelle che venivano ritenute isole sono poi state identificate come penisole di terre più grandi: dal sedicesimo ad diciottesimo secolo in molte mappe la California era rappresentata come un'isola.
I geografi sono stupefatti e perplessi: a metà fra l’Australia e il territorio francese di Nuova Caledonia pensavano di trovare l’isola di Sandy. Ma l’isola è scomparsa. Anzi: non esiste proprio. L’«isola fantasma» australiana non è però un caso isolato. Seppur segnalate sulle mappe, sarebbero infatti ancora centinaia le isole «da sogno» che in realtà non esistono affatto. Se non sulle mappe, e non solo su quelle digitali.
Atlanti, carte nautiche e mappe la segnalano nell’oceano Pacifico. C’è anche su Google Maps. Qui, l’isola nel Mar dei Coralli misura poco più di 20 chilometri di lunghezza e circa cinque chilometri di larghezza - non ci sono foto, ma solo una misteriosa macchia nera. Sandy Island, così sembrava, aveva tutte le caratteristiche di un’isola in stile «Lost»: sperduta e disabitata. Oltretutto, il suo nome e la dimensione facevano pensare a lunghe spiagge, a un mare cristallino. Ma non esiste. È erroneamente segnalata sulle carte geografiche da almeno dieci anni. Una spedizione con un gruppo di ricercatori dell’Università di Sydney ha raggiunto ora in nave la zona in cui si sarebbe dovuta trovare la presunta striscia di terra. Cos’hanno trovato? Solamente acqua, acqua profonda a perdita d’occhio e barriera corallina.
L’isola di Sandy è soltanto l’ultima di una lunga serie di isole a dover essere cancellate definitivamente dalle mappe. Nella cartografia si trovano altri pezzi di terra in mezzo al mare dai nomi fantasiosi: Antilia, Frislandia oppure Bermeja, quest’ultima segnalata nel Golfo del Messico davanti alle coste dello Yucatan sin dalle mappe del Cinquecento fino a quelle digitali. Doveva essere grande come l’isola di Föhr (circa 83 chilometri quadrati). Tre anni fa i ricercatori dell’Università di Città del Messico avevano organizzato una spedizione per esplorare le sue risorse naturali. Tuttavia, dopo una settimana di ricerche - con navi e aerei - della striscia di terra non c’era traccia. Nessuno è in gradi di dire quante siano le cosiddette «isole fantasma» - cioè quelle segnalate nel corso del tempo come realmente esistenti, con i contorni delle coste disegnati sulle mappe geografiche, ma rimosse successivamente dopo la dimostrazione della loro inesistenza. Controversi sono anche i tanti isolotti del sud del Pacifico con nomi evocativi quali Ernest Legouvé, Giove, Maria Teresa, Wachusett o Rangitiki. Colpa di esploratori ambiziosi, errori nella trascrizione delle coordinate in fase di disegno delle mappe o anche l’influenza di alcol, sono finite nella cartografia.
In verità, gli studiosi australiani erano partiti con la loro nave da ricerca Southern Surveyor per mappare il fondo dell’oceano. «Abbiamo voluto controllare perché le carte di navigazione a bordo segnavano acque molto profonde nella zona, oltre 1300 metri. La nostra collega Maria Seton ha scoperto questa bizzarra isola sulle nostre mappe meteorologiche, quindi siamo andati a vedere, ma non c’era nulla», ha raccontato Steven Micklethwaite dell’Università di Sydney. «Non lo sappiamo», ha spiegato Seton. «Una delle fonti degli atlanti è la Cia», aggiunge Micklethwaite. «Questo alimenta le teorie del complotto». Ciò nonostante, le isole fantasma hanno spesso una storia molto più antica. Un geografo arabo ne aveva identificato oltre 27.000 già nel dodicesimo secolo.
Nel «Times Atlas of the World» Sandy Island è identificata come Sable Island. Se in quell’area ci fosse effettivamente l’isola, dovrebbe cadere in territorio francese, speculano i giornali australiani. Tuttavia, l’isola di Sandy non compare sulle mappe ufficiali francesi. Secondo il servizio idrogeografico australiano, che produce le carte nautiche del Paese, la sua comparsa su alcune mappe scientifiche e su quelle digitali sarebbe semplicemente legata a un errore umano, ripetuto negli anni. Sandy Island potrebbe essere stata segnalata in seguito all’errata interpretazione dei dati satellitari.
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