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lunedì 28 agosto 2017
PESCE VOLPE
Aristotele, nel suo Historia Animalia, parlava dello squalo volpe: il pensatore e scienziato greco descriveva questi squali come animali molto astuti, particolarmente abili nello sfuggire ai pescatori (ad esempio rompendo le lenze a morsi) e dall'abitudine di ingoiare i propri piccoli per proteggerli (credenza probabilmente basata sul ritrovamento di embrioni prossimi alla nascita all'interno del corpo di qualche femmina). Comportamenti del genere portarono Aristotele a ritenere questo squalo estremamente furbo e a chiamarlo perciò ἀλώπιξ (alopex, "volpe" in greco antico), da cui derivano sia il nome comune che quello scientifico di questo animale.
Lo squalo volpe comune è uno squalo piuttosto robusto con un tronco a forma di siluro e una breve testa larga. Il profilo dorsale della testa si curva in modo uniforme fino al muso conico appuntito. Gli occhi sono moderatamente grandi e privi di membrane nittitanti. La piccola bocca è arcuata e, a differenza degli altri squali volpe, ha solchi agli angoli. Ci sono 32 - 53 file di denti nella mascella superiore e 25 - 50 file di denti nella mascella inferiore; i denti sono piccoli, triangolari e dal bordo liscio, privi di cuspidi laterali.
Le cinque paia di fessure branchiali sono brevi, con il quarto e il quinto paio che si trovano sulle basi delle pinne pettorali. Le lunghe e falcate pinne pettorali si restringono in punte strettamente appuntite. La prima pinna dorsale è alta e posizionata più vicino alle pinne pettorali che alle pinne pelviche. Le pinne pelviche sono grandi quasi quanto la prima pinna dorsale e hanno lunghi pterigopodi sottili nei maschi. La seconda pinna dorsale e la pinna anale sono piccole, con la prima di queste posta davanti a quest'ultima.
Ci sono tacche a forma di mezzaluna sul peduncolo caudale alle origini superiore e inferiore della pinna caudale. Il lobo superiore della pinna caudale è enormemente allungato caratteristico degli squali volpe, lungo quasi quanto il resto dello squalo; il sottile lobo leggermente ricurvo presenta una tacca sul margine posteriore vicino alla punta.
La pelle è ricoperta da piccoli denticoli sovrapposti, ciascuno con tre creste orizzontali e da tre a cinque denti marginali. Questa specie è marrone violaceo metallizzato o grigio sul dorso, diventando più bluastro sui fianchi. Il ventre è bianco, che si estende sopra le basi delle pinne pettorali e pelviche; questa colorazione è in contrasto con quella dello squalo volpe pelagico, che è colorato su queste pinne. La linea di incontro tra la colorazione dorsale e ventrale è spesso irregolare. Ci può essere una macchia bianca sulle punte delle pinne pettorali.
Sono nuotatori attivi e forti; ci sono rari casi in cui saltano completamente fuori dall'acqua. Come i veloci squali della famiglia Lamnidae, lo squalo volpe comune ha una striscia di aerobici muscoli rossi lungo il fianco che sono in grado di contrarsi potentemente ed efficacemente per lunghi periodi di tempo. Inoltre, hanno muscoli dalla lenta ossidazione posizionati al centro del corpo e sistema di vasi sanguigni chiamato rete mirabilia, che permette loro di generare e mantenere il calore corporeo.
La temperatura all'interno dei muscoli rossi di uno squalo volpe comune è in media di 2 ° C superiore a quella dell'acqua di mare circostante, sebbene vi sia una significativa variazione individuale. A differenza dello squalo volpe pelagico e dello squalo volpe dagli occhi grandi, lo squalo volpe comune non ha una rete mirabilia orbitale che protegga i propri occhi e il cervello dalle variazioni di temperatura.
Nel Pacifico orientale, i maschi viaggiano di più rispetto alle femmine, arrivando fino all’isola di Vancouver nella tarda estate e inizio autunno. I giovani tendono a rimanere nelle calde nursery. Sembra che nel Pacifico orientale e nell'Indiano occidentale e forse altrove ci siano separate popolazioni con diverse caratteristiche biologiche; questa specie non compie spostamenti transoceanici.
Nell'Indiano nord - occidentale, maschi e femmine si segregano per posizione e profondità durante la stagione del parto da gennaio a maggio. Analisi del DNA mitocondriale hanno rivelato notevoli variazioni genetiche regionali all'interno degli squali volpe comuni in tutti e tre gli oceani. Questo conferma l'idea che, pur essendo molto mobili, gli squali provenienti da diverse aree raramente s'incrociano.
Gli squali volpe comuni sono abitanti sia delle acque continentali sia dell'oceano aperto. Essi tendono a essere più abbondanti in prossimità della terraferma, in particolare i giovani frequentano gli habitat costieri come baie. La maggior parte degli individui s’incontrano vicino alla superficie, ma questa specie è stata registrata ad almeno una profondità di 550 m.
La specie venne descritta scientificamente per la prima volta dal naturalista francese Pierre Joseph Bonnaterre, il quale nel 1788 la classificava nel suo Tableau encyclopédique et méthodique des trois règnes de la nature col nome di Squalus vulpinus. Il nome scientifico della specie deriva dal latino vulpes, col significato di "volpe". In seguito, la specie venne riclassificata e ascritta al genere Alopias da Rafinesque, col nome di Alopias macrourus ("dalla grande coda"): tuttavia, secondo le regole dell'ICZN, il nome valido rimase quello più assegnato per primo in termini cronologici, ed essendo stato appurato che lo squalo volpe non era strettamente imparentato con le altre specie del genere Squalus il nome scientifico assegnato alla specie divenne Alopias vulpinus.
Si tratta di grandi nuotatori solitari, che percorrono instancabilmente gli oceani alla ricerca di cibo: sebbene sia possibile osservarli in coppie o in gruppetti, tali assembramenti sono il più delle volte dovuti alla presenza di un'abbondante fonte di cibo nelle vicinanze. A volte questi squali possono essere osservati mentre si esibiscono in salti e acrobazie fuori dall'acqua, similmente a quanto osservabile in molti cetacei: si pensa che questo insolito comportamento abbia la stessa funzione del breaching di questi ultimi, oppure abbia un qualche ruolo nella lotta contro i parassiti.
Fra i parassiti di questa specie finora descritti figurano varie specie di copepodi (nove specie del genere Nemesis, che colpiscono le branchie, Gangliopus pyriformis, Bariaka alopiae e Kroeyerina benzorum), il protozoo Giardia intestinalis, i cestodi Paraorygmatobothrium exiguum e Sphyriocephalus tergetinus, e (anche se eccezionalmente) Campula oblonga.
Sebbene si tratti di un predatore posto all'apice della catena alimentare, lo squalo volpe (ed in particolare gli esemplari giovani) può cadere preda di altri squali di maggiori dimensioni: alcune popolazioni di orca, inoltre, sono state osservate cacciare attivamente esemplari di questa specie al largo della Nuova Zelanda.
Una leggenda comune fra i pescatori vede lo squalo volpe come inseparabile amico-nemico del pesce spada: i due animali sarebbero soliti affrontarsi a colpi di coda e spada, e spesso collaborerebbero nella caccia alle balene. Qui i resoconti diventano discordanti: mentre in una versione lo squalo volpe distrarrebbe la preda nuotando in cerchio attorno ad essa e fendendo l'acqua con la coda, permettendo al pesce spada di infilzare indisturbato un punto vulnerabile della balena, nell'altra il pesce spada si piazzerebbe verticalmente al di sotto della balena, mentre lo squalo volpe, saltando sul dorso di quest'ultima e martellando con la coda, la spingerebbe a infilzarsi sulla spada. Altri racconti descrivono lo squalo volpe come cacciatore solitario di cetacei, che aggredirebbe tagliando loro grossi pezzi di carne con la coda.
Tuttavia, né lo squalo volpe, né tantomeno il pesce spada possiedono una dentizione adatta a sopraffare balene e a nutrirsi della loro carne: probabilmente, tali racconti hanno avuto origine da avvistamenti di orche (la cui alta pinna dorsale potrebbe essere stata confusa con la pinna caudale di uno squalo volpe, e che effettivamente annoverano fra le proprie prede anche le balene) nei pressi di qualche balena uccisa e dal ritrovamento di rostri di pesce spada conficcati nel corpo di qualche balenottera, probabilmente dovuti a qualche incidente causato dalle scarse doti di frenata di questo pesce.
La quasi totalità (fino al 97%) della dieta dello squalo volpe è costituita da piccoli pesci ossei pelagici gregari, come aringhe, sgombri, aguglie, pesci serra e pesci lanterna. Di tanto in tanto essi si cibano anche di prede di maggiori dimensioni (come i sauri), così come di calamari e di altri invertebrati pelagici.
Gli squali volpe tendono ad essere abbastanza selettivi ed abitudinari per quanto riguarda le prede, concentrandosi su poche specie, ma divenendo più opportunisti nei periodi caldi, dovuti all'influenza di El Niño: ad esempio, le popolazioni californiane di squalo volpe si nutrono principalmente della sardina Engraulis mordax, ma durante i periodi più caldi cacciano anche altre prede solitamente occasionali, come Sardinops sagax, Merluccius productus, Scomber japonicus e anche invertebrati come Loligo opalescens e Pleuroncodes planipes.
Per cacciare le proprie prede, lo squalo volpe si serve della lunga coda per fendere l'acqua, compattando così i banchi e potendosi nutrire agevolmente attraversandoli senza farli disperdere: spesso quest'azione viene svolta in coppie o in piccoli gruppi, che tuttavia non sono precostituiti ma si incontrano casualmente sul luogo del banchetto.
Nell'immaginario collettivo lo squalo volpe utilizza la lunghissima coda per menare fendenti e scudisciate sulle prede. A supporto di tale credenza vi sarebbero alcuni avvistamenti di squali intenti a compiere questo gesto: nell'inverno 1865 l'ittiologo irlandese Harry Blake-Knox avrebbe osservato uno squalo volpe dilaniare a colpi di coda e poi mangiare una strolaga maggiore (testimonianza questa giudicata poco verosimile, poiché si ritiene che la coda dello squalo volpe non possieda muscolatura sufficiente ad esercitare una forza tale da provocare lesioni sul corpo delle prede), mentre il 14 aprile 1923 un altro esemplare lungo attorno ai due metri colpì con la coda degli Atherinopsis californiensis sotto gli occhi dell'oceanografo W. E. Allen. Inoltre, il fatto che non sia raro trovare questi squali impigliati agli ami dei palamiti per la coda lascia supporre che ciò avvenga quando l'animale tenta di colpire con la coda le prede prese all'amo.
Si tratta di squali ovovivipari: la femmina dà alla luce un numero di piccoli che va da due a sette (nelle popolazioni del Pacifico le nidiate contano solitamente un numero pari di piccoli, mentre nelle popolazioni dell'Atlantico tale numero è solitamente dispari). L'accoppiamento avviene solitamente nei mesi estivi, dimodoché la femmina partorisca in un periodo favorevole dell'anno (marzo-giugno nelle popolazioni californiane, mesi estivi in quelle mediterranee, gennaio-maggio in quelle indo-pacifiche), mentre la femmina ritorna a nord per passare l'estate. Durante la gestazione (che dura circa nove mesi) gli embrioni praticano l'ovofagia, nutrendosi delle uova non fecondate che la madre periodicamente produce. L'embrione assume le uova intere, in quanto i piccoli denti sono ricoperti da tessuto e diventano funzionali solo poco prima della nascita, probabilmente per evitare che i piccoli possano ferire la madre durante la gestazione.
Il fatto che siano state individuate aree di nursery per i piccoli nel sud della California e della Spagna fa pensare che il parto avvenga in aree accuratamente scelte dalle femmine in tutto l'areale occupato dalla specie. Alla nascita i piccoli sono insolitamente grandi, misurando fino a 160 cm di lunghezza (un terzo degli adulti) per un peso di 5–6 kg. Essi crescono a ritmo molto veloce (fino a mezzo metro l'anno) durante i primi anni di vita: la crescita tende poi a stabilizzarsi con l'età, fino a raggiungere valori medi di una decina di centimetri l'anno negli adulti. Attorno ai tre anni, i piccoli lasciano le aree di nursery (site in acque basse e calme, come baie e lagune) e si avventurano in mare aperto.
La maturità sessuale viene raggiunta ad età e dimensioni che sembrano essere differenti sia nei due sessi che nelle varie popolazioni: i maschi generalmente maturano attorno ai 5 anni d'età (2,6-3,4 m di lunghezza) in tutto l'areale occupato dalla specie, mentre le femmine maturano alcuni anni più tardi, a una lunghezza che va dai 2,6 m (Baja California) ai 4,5 m (Oceano Indiano).
Sebbene non si conosca con esattezza la speranza di vita dello squalo volpe, comparando le dimensioni di questa specie con quelle delle altre due specie (che vivono in media 20-30 anni) è stato stimato che lo squalo volpe possa vivere fino a 43 anni o anche di più.
Si tratta di una specie diffusa in tutti i mari temperati e subtropicali del mondo: nell'Atlantico lo si trova ad ovest dal Newfoundland alle Antille e in Brasile e Argentina, mentre ad est è diffuso dallo Skagerrak al Ghana. Nell'Oceano Indiano lo si trova dal Sudafrica all'Indonesia e nell'Oceano Pacifico lo squalo volpe è osservabile dal Giappone alla Nuova Zelanda a ovest e dalla Columbia Britannica al Cile ad est: è inoltre diffuso anche fra le varie isole del Pacifico, specialmente alle Hawaii. Lo squalo volpe è invece assente dal Mar Baltico, dal Mar Rosso e dal Golfo Persico, così come dalle acque circumpolari: lo si trova invece abbastanza di frequente nel Mediterraneo (specialmente nel Golfo del Leone), dove sembrerebbe essere stata addirittura identificata un'area di nursery lungo la costa spagnola, oltre che in almeno una parte del Mar Nero.
La sua così ampia diffusione è dovuta al fatto che gli squali volpe sono animali estremamente mobili che sono soliti compiere lunghe migrazioni, nella maggior parte dei casi dovute allo spostamento delle prede (che seguono le correnti oceaniche) e solitamente dirette verso l'Equatore durante l'inverno e verso i poli durante l'estate. I maschi sembrano essere più propensi a percorrere lunghe distanze rispetto alle femmine, mentre i giovani non compiono spostamenti di una certa entità almeno fino al raggiungimento della maturità. La popolazione residente nella porzione occidentale dell'Oceano Indiano tende altresì alla stanzialità, mostrando separazione dei sessi in base alla differente profondità occupata, segregazione che appare tanto più evidente durante i mesi in cui le femmine partoriscono.
Nonostante questa grossa tendenza a compiere grandi spostamenti, gli squali volpe di differenti popolazioni raramente si accoppiano fra loro: questa caratteristica è emersa dalle analisi del DNA mitocondriale, che hanno evidenziato un marcata variabilità genetica fra le popolazioni di squalo volpe dei tre oceani.
Gli squali volpe mostrano un maggiore attaccamento alle acque costiere rispetto alle due specie congeneri, tenendosi generalmente a ridosso della piattaforma continentale e rivelandosi piuttosto difficili da osservare a più di 30 km dalla costa: i giovani individui addirittura eleggono a propria dimora le acque poco profonde, come baie e insenature, dove trovano riparo dai predatori.
Sebbene la maggior parte degli avvistamenti siano avvenuti nei pressi della superficie, sono stati ripresi squali volpe fino a profondità di 550 m e probabilmente questa specie può spingersi anche a profondità maggiori. Mentre durante il giorno rimangono a più di 100 m di profondità, durante le ore notturne gli squali volpe risalgono a profondità minori per trovare il cibo.
A dispetto delle dimensioni abbastanza ragguardevoli, gli squali volpe non costituiscono un pericolo per l'uomo in quanto esso non è visto come potenziale fonte di cibo: si tratta di animali che ad ogni modo vanno avvicinati con cautela in quanto capaci di infliggere profonde ferite coi denti e di spezzare le ossa con la potente coda. Tale potenziale pericolosità viene però annullata dal fatto che questi squali si rivelino abbastanza timidi e risultino difficili da osservare per i subacquei.
Sino ad oggi sono stati registrati un solo attacco all'uomo e quattro a barche (probabilmente dovuti ad individui pescati accidentalmente e particolarmente battaglieri), oltre a una presunta aggressione a un apneista neozelandese. Circola infine un racconto riguardante un pescatore statunitense decapitato da un colpo di coda di uno squalo volpe di 5 m.
L'uomo, invece, costituisce un pericolo concreto per questo squalo: gli squali volpe cadono infatti abitualmente vittima dei palamiti e dei sistemi di pesca utilizzati per catturare i pesci spada, specie nell'Atlantico. Oltre alla pesca accidentale, esiste un fiorente business che riguarda la pesca dello squalo in generale e minaccia anche questa specie: la pelle viene trattata e commercializzata sotto forma di cuoio, la carne viene commercializzata salata o affumicata per il consumo umano, l'olio estratto dal fegato viene utilizzato in farmaceutica e cosmetica, ma il pezzo pregiato sono le pinne, che vengono pagate a peso d'oro sui mercati asiatici in quanto ingrediente principe della zuppa di pinne di pescecane. Perfino negli Stati Uniti sussisteva una flotta di imbarcazioni preposte alla pesca dello squalo volpe, che nel 1982 arrivò a contare 228 imbarcazioni, garantendo un pescato annuo di 1091 tonnellate: attualmente la pesca allo squalo volpe appare in netta diminuzione, soprattutto a causa del drastico calo del numero di esemplari nella zona.
Lo squalo volpe rappresenta inoltre un ambitissimo trofeo per i pescatori sportivi, in quanto ritenuto (assieme allo squalo mako) un fiero avversario molto difficile da sopraffare: la pesca sportiva a questo squalo viene praticata soprattutto in California, Sudafrica e Nuova Zelanda.
Tutti questi fattori hanno fatto sì che lo status delle tre specie del genere Alopias venisse modificato nel 2007 dall'IUCN, passando da "dati insufficienti" a "vulnerabile". Per evitare di intaccare troppo le popolazioni, come accaduto in California, e per permettere a quelle rimanenti di riprendersi numericamente, alcuni governi hanno imposto precise regolamentazioni sia per ciò che concerne la quantità che le dimensioni degli squali volpe catturabili, in alcuni casi dichiarando fuorilegge la pratica della pesca al solo fine di ottenere le pinne. Simili provvedimenti si sono dimostrati benefici, in quanto ad esempio la popolazione californiana di squalo volpe ha mostrato un incremento annuo compreso fra il 4 ed il 7%.
domenica 24 luglio 2016
GAMBUSIA AFFINIS
Gambusia affinis è un piccolo pesce d'acqua dolce della famiglia dei Poecilidi dell'ordine Ciprinodontiformi.
Questi pesci sono nativi dei bacini del golfo del Messico (Mississippi), acque dolci e salmastre, lente e paludose. Nel corso del XX secolo sono stati introdotti in molte zone paludose del mondo (tra cui l'Italia e tutta l'Europa meridionale) per combattere le zanzare. È inserita nella Lista delle cento specie invasive più dannose.
Gambusia affinis presenta un chiaro dimorfismo sessuale: il maschio è minuto, con testa piccola, dorso incurvato, ventre arrotondato e un lungo e sottile peduncolo caudale, terminante in una coda arrotondata. La pinna dorsale è alta, le ventrali sono appuntite, l'anale è trasformata in organo copulatore (gonopodio). La livrea maschile vede un fondo bruno chiaro, semitrasparente, dai riflessi metallici. La femmina ha corpo più ampio e lungo, con un dorso più lineare e un grande ventre arrotondato. Le pinne sono ampie. La livrea femminile è ancora più semplice: un uniforme colore grigio-bruno, tendente al giallo trasparente.
I maschi raggiungono una lunghezza massima di 3,5 cm, le femmine anche i 7 cm.
La fecondazione è interna e avviene mediante passaggio di spermatozoi dal corpo del maschio a quello della femmina con il gonopodio. La gestazione dura 24-30 giorni, dopo i quali la femmina partorisce circa 30 avannotti bianco-trasparenti e completamente indipendenti.
È nota la loro propensione a cibarsi delle fasi larvali e di pupa delle zanzare. Sono molto resistenti, sopravvivono anche in acque con bassa presenza d'ossigeno, ad alta salinità (che includono due volte quella dell'acqua di mare) ed a temperatura elevata; possono persino sopravvivere in acque fino a 42 °C per brevi periodi.
Per questi motivi, questa specie può essere considerata forse il pesce d'acqua dolce più diffuso al mondo, è stato introdotto come bioregolatore nella lotta biologica contro le zanzare (tra cui la zanzara anofele, portatrice della malaria) nei paesi tropicali e temperati in entrambi gli emisferi e da allora si è diffuso ancor più sia naturalmente che attraverso ulteriori introduzioni.
Molto voraci, questi pesci si cibano di larve di insetti, insetti acquatici, vermi e crostacei (soprattutto le specie appartenenti al genere Daphnia). L'introduzione di gambusie può essere molto nociva alle popolazioni di anfibi, per la predazione su uova e girini.
Anche se non appariscente come Poecilia reticulata, al quale le femmine assomigliano parecchio, questi pesci sono commerciati in tutto il mondo e destinati prevalentemente all'allevamento in stagni e piscinette dei giardini delle case, proprio a causa della loro alimentazione a base di larve di zanzara.
Sono anche utilizzati per fornire cibo vivo alle specie carnivore di pesci d'acqua dolce o alle tartarughe acquatiche.
La lotta sperimentata come realmente efficace, senza effetti collaterali e consigliata dagli esperti è quella larvicida che, eliminando le larve depositate dalle zanzare nelle acque stagnanti, ne impedisce la riproduzione. Risulta invece quasi inutile l’uso di nebulizzazioni di insetticidi chimici per gli individui adulti, ormai resistenti a tali trattamenti.
Si consiglia a chiunque ne abbia la possibilità, di metterlo in piccoli stagni, vasche o acquari cioè, in spazi circoscritti.
I contenitori vanno tenuti all'ombra e, seguendo i consigli degli esperti, questi nuovi amici ci faranno compagnia a lungo aiutando a liberarci dalle zanzare e dai veleni e permettendoci, con poca fatica, di goderci l'estate.
In Italia è stato introdotto nel 1922 nel Lazio, e da lì in tutte le zone malariche d’Italia, al fine di ridurre le zanzare e di debellare la malaria.
LEGGI ANCHE: http://pulitiss.blogspot.it/2015/05/la-zanzara.html
domenica 3 gennaio 2016
MAR LIGURE
In antichità il mar Ligure si chiamava, in latino, Mare Ligusticum, il mare che bagnava le terre abitate dagli antichi Liguri. Nel V secolo a.C. il territorio abitato da questa popolazione si estendeva ben oltre i confini dell'attuale Liguria e la stessa Repubblica di Genova, comprendendo parte dell'attuale costa francese e di quella toscana fino all'altezza di Livorno.
Il mar Ligure a sud-ovest è delimitato da una linea immaginaria che collega Punta di Revellata, a ovest di Calvi, nella Corsica settentrionale, con Capo Ferrato ad est di Nizza, mentre il confine sud-orientale, che lo delimita dal mar Tirreno, corre tra Capo Corso e il promontorio di Piombino, passando attraverso il canale di Corsica, l'Isola d'Elba e il canale di Piombino.
Tuttavia, l'Organizzazione idrografica internazionale, in un documento del 1953 tuttora in vigore, stabilisce che il confine sud-occidentale è delimitato da una linea immaginaria che congiunge Capo Corso con il confine tra Italia e Francia (Ponte San Luigi), mentre il confine sud-orientale è delimitato da una linea che va da Capo Corso all'isola del Tinetto, quindi da una linea che congiunge l'isola del Tino e la Palmaria fino a Punta San Pietro, nei pressi del golfo della Spezia. Questo confine è in via di ridefinizione: infatti la stessa Organizzazione ha pubblicato una bozza del documento definitivo sui limiti dei mari che fa coincidere il confine sud-orientale del mar Ligure con una linea che unisce la costa toscana lungo il 43º parallelo al Capo Corso e quindi fino a Capo Grosso.
La definizione tuttora in vigore presso l'Organizzazione idrografica internazionale corrisponde grosso modo a quella tradizionale, la quale attribuisce l'intera costa toscana (fino alla foce della Magra) al mar Tirreno (con l'eccezione del golfo della Spezia e del promontorio del monte Marcello da Lerici ad Ameglia, che secondo l'Organizzazione sarebbe parte del Tirreno). Questa versione tradizionale dei confini ha portato a varie conseguenze: vicino Pisa negli anni trenta è stata fondata una località balneare denominata Tirrenia; il quotidiano di Livorno si chiama Il Tirreno e Viareggio come pure Castiglioncello sono popolarmente definite le Perle del Tirreno. Occorre tuttavia considerare che nelle carte dell'Ottocento il mare che bagnava la Toscana era talvolta chiamato semplicemente Mare Toscano.
Il mar Ligure bagna le coste della Liguria (la Riviera ligure), parte di quelle della Toscana (la Riviera apuana, la Versilia, il litorale pisano e la costa degli Etruschi, ovvero il litorale tra Livorno e Piombino), quelle dei dipartimenti francesi dell'Alta Corsica e delle Alpi Marittime (Costa Azzurra) e quelle del principato di Monaco, nonché le secche della Meloria, le isole di Capraia e Gorgona e la costa settentrionale dell'Isola d'Elba, aree rinomate per le bellezze paesaggistiche e il clima mite. Nella parte più settentrionale si trova il golfo di Genova che ne è interamente compreso.
Il mare riceve da est le acque dell'Arno e di molti altri fiumi di origine appenninica come il Serchio e la Magra.
Lungo le sue coste si trovano importanti scali portuali commerciali dei quali il maggiore è il porto di Genova. Altri porti di rilievo sono quelli di Mentone, Savona, della Spezia, di Carrara, di Piombino e di Livorno.
Il mar Ligure raggiunge a nord-ovest della Corsica una profondità massima di più di 2 850 m.
Tra le specie che vivono nel mar Ligure e che risalgono i fiumi che sfociano in questo mare per riprodursi vi è la cheppia (Alosa fallax).
Nel 1996 l'Italia ha istituito il Parco Nazionale dell'Arcipelago Toscano grazie al quale sono salvaguardate le sette isole maggiori dell'arcipelago e i fondali con tutta l'importante fauna sia del mar Tirreno sia del Ligure. È attualmente il più grande parco marino d'Europa.
Nel 1999 è stato istituito il Parco nazionale delle Cinque Terre, in Liguria, interamente nella Provincia della Spezia, che per le bellezze naturalistiche del suo territorio è un'importante meta turistica per chi è interessato non esclusivamente al turismo balneare.
Allo scopo di proteggere le numerose specie di cetacei presenti nel mar Ligure, la Francia e l'Italia lo hanno classificato nel 1999 come SPAMI Specially Protected Areas of Mediterranean Importance (ovvero area del mare Mediterraneo di particolare importanza).
Il Santuario dei Cetacei del mar Ligure copre un'area di 84 000 km² nella zona di mare aperto davanti al confine tra Francia e Italia. È una delle zone del Mediterraneo dove con più facilità è possibile avvistare gruppi di cetacei.
Da trent’anni quest’area del Mediterraneo è presidiata e monitorata dall’Istituto Tethys, che alla fine degli anni Ottanta promosse la creazione del Santuario. Il numero dei capodogli individuati e foto-identificati in trent’anni è arrivato a 158 e a 568 quello delle balenottere comuni (il secondo animale più grande mai esistito sulla terra, 24 metri di lunghezza per un peso compreso tra le 50 e le 80 tonnellate). I biologi marini di Tethys percorrono in lungo e in largo questo mare, cinque mesi all’anno, con il motorsailer di 21 metri, Pelagos , un laboratorio galleggiante, dotato di sofisticata strumentazione. Questo mare, ci racconta Sabrina Airoldi, direttore del progetto di ricerca che Tethys conduce nelle acque del Santuario, ha un patrimonio di inestimabile valore di cui molti ancora ignorano l’esistenza. E’ possibile incontrare già a poche miglia dal porto di San Remo le stenelle, una delle specie più numerose di delfini che abitano queste acque e non si stancano di fare bowriding a prua. I capodogli si cercano con l’ausilio di un idrofono calato a duecento metri di profondità. Non è raro trovarli nei profondi canyon nelle acque antistanti a Bordighera, passato Capo Sant’Ampelio. Né è più raro incrociare Caretta Caretta e Mola Mola (pesci Luna) in mare aperto.
Il «catalogo» dei ricercatori annovera anche 342 grampi, 104 globicefali, 74 tursiopi, 49 zifii e 3 delfini comuni e viene costantemente implementato dai nuovi avvistamenti. Molti sono i loro nemici: il traffico marittimo delle grandi navi (ogni giorno 3 balene sono a rischio collisione), l’inquinamento chimico e acustico, la presenza di nanoplastiche, le reti pelagiche derivanti, presenti seppur illegali. Non ultimo, le colonie galleggianti di Velella Velella, che stanno invadendo a bilioni il Mediterraneo, cresciute in modo spropositato a causa di una pesca senza controllo dei predatori di meduse come tonni e pesci spada. Quella che i ricercatori considerano una vera emergenza.
venerdì 4 dicembre 2015
LA PERNICE DI MARE
La pernice di mare (Glareola pratincola, Linnaeus 1758), è un uccello della famiglia dei Glareolidae.
Uccello di piccole dimensioni (22–25 cm., 70-90 g.), possiede una struttura corporea molto slanciata, il becco corto e lievemente ricurvo all’ingiù e le zampe molto corte; presenta il dorso di colore marrone, il ventre è chiaro, le zampe e la coda sono nere, la gola ed il petto color crema e delimitati da un collare nero che parte da sotto l’occhio; quando è in volo ha l’aspetto di una grande rondine, le ali sono lunghe e sottili ed inferiormente di colore rossiccio-bruno, il groppone è bianco e la coda forcuta.
I suoi richiami consistono in una serie di striduli e secchi cinguettii.
La pernice di mare è visibile libero in natura, in Europa, Asia, Africa, ed America del Sud, in Italia ci sono rare nidificazioni, sempre nelle vicinanze della costa marina, è un uccello che è quasi impossibile incontrare all'interno.
La pernice di mare vive in Europa, nell’Asia centroccidentale e in alcune aree dell’Africa settentrionale, dove frequenta in prevalenza le distese costiere fangose con bassa vegetazione e i margini di paludi, lagune e saline. Sverna nell’Africa a sud del Sahara. La nidificazione nell’Europa meridionale risulta piuttosto irregolare; in Italia è estiva e nidificante, ma non comune. Riconoscibile dalla coda biforcuta, nera con base bianca, dalle corte zampe nere e dal becco breve e lievemente ricurvo, presenta un piumaggio bruno-verdastro nelle parti superiori, fulvo chiaro in quelle inferiori e bianco sul ventre. Sulla gola si nota un’ampia macchia color crema bordata di nero. Si nutre di insetti di varie specie che cattura in volo, sfruttando la sua agilità e il suo dinamismo. Di spiccate tendenze gregarie durante tutto l’anno, nidifica in colonie deponendo 3 uova in un’unica covata, tra aprile e giugno.
Frequenta soprattutto ambienti pianeggianti, secchi, con vegetazione bassa e rada o del tutto assente, in prossimità di zone umide costiere a livello del mare. All'interno di questi limiti, la nidificazione può verificarsi in un'ampia varietà di zone (incolti, aree sabbiose, ghiaiose, steppose, zone fangose disseccate o di recente prosciugamento, isole all'interno di zone umide ecc.; ma anche aree con coltivazioni che hanno uno sviluppo tardivo rispetto al calendario riproduttivo della specie, ad esempio angurie, soia ecc.).
I siti scelti per la nidificazione non devono avere ostruzioni voluminose che limitino la visibilità, quali alberi, dossi, grossi cespugli, rocce o simili.
Queste aree devono garantire un’ampia disponibilità di cibo per l'intero ciclo riproduttivo. La dieta è a base di insetti, soprattutto locuste, Coleotteri, Odonati, Emitteri, ma anche Lepidotteri, termiti e ragni, che vengono catturati principalmente volando la mattina presto o la sera; ma ci sono osservazioni di individui a caccia di notte con la luce della luna.
Nella regione Paleartica occidentale, la Pernice di mare nidifica nella parte meridionale della Penisola Iberica, nella Francia mediterranea, in Italia, nei Paesi Balcanici, in Grecia, in Turchia e in Russia. La riproduzione si verifica anche nei Paesi del Nord Africa a contatto del Mediterraneo (Libia esclusa) e in Medio Oriente. La distribuzione è estremamente localizzata in tutte le Nazioni, fuorché nella Penisola Iberica e nella parte settentrionale del Mar Nero.
In Italia, la Pernice di mare è sempre stata una specie poco comune. Essenzialmente estiva e migratrice, viene osservata soprattutto nelle zone umide costiere durante la migrazione (marzo-maggio e agosto-ottobre).
In considerazione della scarsità della specie, nel nostro Paese mancano studi approfonditi sulla sua biologia. La riproduzione, anche se ritenuta possibile in diverse località, è stata accertata soltanto in poche regioni: Emilia Romagna, Puglia, Sardegna, Sicilia e Toscana. La nidificazione si verifica solitamente in colonie monospecifiche o in associazione con il Fratino (Charadrius alexandrinus) e il Fraticello (Sterna albifrons); più raramente con il Cavaliere d'Italia (Himantopus himantopus) o in prossimità di coppie di Gabbiano reale (Larus cachinnans).
I primi dati certi sulla riproduzione risalgono alla fine degli anni '40, quando Brandolini (1948, 1952) rileva la presenza di una colonia con circa 50 individui nelle Valli di Comacchio e di un'altra "numerosa" nel Golfo di Oristano (Sardegna). Sino agli anni '70, la presenza della colonia delle valli di Comacchio è stata riscontrata in modo irregolare, mentre non abbiamo più dati per quella del Golfo di Oristano. Tuttavia, in considerazione della successiva evoluzione di queste colonie, della particolare difficoltà di reperire i nidi della specie, della scarsa copertura ornitologica di queste aree (soprattutto di quella sarda), della tendenza della Pernice di mare a rioccupare regolarmente i siti riproduttivi e delle favorevoli condizioni ecologiche, è possibile che queste colonie siano sempre state presenti con continuità per tutto quel periodo.
In particolare, nell'area di Comacchio, alla metà degli anni '70, è stata rilevata la presenza di una popolazione che ha avuto una consistenza massima di alcune decine di coppie e dal 1982 al 1988 hanno nidificato dalle 2 alle 30 coppie. Tra il 1989 e il 1994 non sono state rilevate coppie nidificanti.
Nel 1995 tre coppie hanno nidificato senza successo nelle Valli di Argenta (Ferrara); mentre nel periodo 1996-1998, 13-15 coppie sono state accertate nella Bonifica del Mezzano.
In Puglia, i primi dati sulla nidificazione della specie risalgono al 1955 quando Frugis & Frugis (1963) trovano una importante colonia con "centinaia di individui" nel Lago Salso di Manfredonia. Successivamente, questa colonia ha subito un rapido declino. Infatti, nel 1965, nella stessa zona sono stati notati non più di 20 individui, aumentati a 30-35 nel 1977 (senza che però venissero rinvenuti nidi), ma ridotti a pochi esemplari nei primi anni '80. Invece, negli anni 1988 e 1993 in un controllo delle zone di nidificazione e di altre aree umide della Puglia, la specie non è stata rilevata. Nel corso degli anni '90 la specie è stata notata soltanto nel 1995, quando sono state censite 2-3 coppie a Manfredonia.
In Sardegna, nel periodo 1970-1994 la Pernice di mare ha occupato regolarmente diversi siti del Golfo di Oristano. Si trattava di alcune colonie separate i cui effettivi hanno avuto un totale di 30-50 coppie sino ai primi anni 90; in seguito si è assistito a un calo repentino dei nidificanti. Nel periodo 1992-94 erano presenti 30-35 coppie, circa il 30% della popolazione italiana; nel periodo successivo, in quest’area dell'isola è stata rilevata soltanto la presenza di singoli individui e nessuna coppia nidificante. Un'altra popolazione, che ha avuto un massimo di circa 15 coppie, ha nidificato regolarmente dalla metà degli anni 70 nel Sud dell'isola (Stagno di Cagliari). Questa colonia ha avuto la stessa dinamica della popolazione dell'oristanese: gli effettivi sono diminuiti soprattutto dalla fine degli anni 80 e più recentemente (1997-1999) sono stati osservati soltanto singoli individui.
In Sicilia, dopo varie notizie dubbiose, la nidificazione di tre coppie è stata accertata nel 1974 nel Simeto (Massa, 1978). In seguito, singole coppie e piccole colonie, con un massimo di 9 coppie nel 1987 sono state accertate a Pachino, nelle saline di Trapani, nel Biviere di Gela e nel Siracusano. In quest'ultima area, la nidificazione è confermata per il periodo 1984-1992; mentre negli anni 1995-98 è stata rilevata la presenza regolare di 60 coppie nel Biviere di Gela.
Nelle altre parti d'Italia, la nidificazione è stata riscontrata solo in Toscana nel 1982, con una coppia nel lago di Massaciuccoli.
In base ai dati disponibili, negli anni 70 la popolazione italiana di Pernice di mare è stata di 80-90 coppie. Seppur con piccole fluttuazioni annuali o locali, questo contingente ha mantenuto gli stessi effettivi sino agli inizi degli anni 90, con circa il 30% della popolazione distribuito nelle colonie della Sardegna. Invece, nella seconda metà degli anni 90 è possibile ipotizzare la presenza di circa 80 coppie, di cui il 75% concentrato in solo sito in Sicilia (Biviere di Gela).
L'evoluzione della popolazione italiana della Pernice di mare negli ultimi decenni è stata meno catastrofica che in altre parti dell'Europa e del Mediterraneo. Infatti, al vistoso calo dei contingenti nidificanti in aree storiche, quali Sardegna e Puglia, è corrisposto un apparente incremento della popolazione siciliana. Non è escluso che quest'ultima si sia formata a partire da contingenti originati delle altre zone meridionali del nostro Paese (Sardegna e Puglia, appunto).
La (quasi) scomparsa della popolazione della Sardegna è imputabile soprattutto alla drastica riduzione dell'habitat di nidificazione a disposizione; ma probabilmente anche all'intensificazione delle pratiche agricole e all'incremento dell'utilizzo di pesticidi e insetticidi nelle aree di nidificazione, che hanno ridotto la disponibilità trofica. Infatti, contemporaneamente al calo dei nidificanti della Pernice di mare, nelle stesse aree si è riscontrata anche una importante diminuzione di altre specie insettivore quali l'Averla capirossa, la Calandra e il Gruccione.
In Emilia Romagna per favorire la nidificazione della Pernice di mare sono stati effettuati con successo dal 1996 al 2000 alcuni interventi di gestione mirata in prati umidi (creati su seminativi ritirati dalla produzione per venti anni con il Regolamento CEE 2078/92) situati tra Argenta e Comacchio (Ferrara), area nella quale la pernice di mare ha nidificato fino alla fine degli anni ’80. Poiché per la nidificazione questa specie predilige vaste superfici di terreno con andamento irregolare e con vegetazione scarsa o nulla, caratteristiche dei fondali di alcune paludi in corso di prosciugamento o dei prati umidi salmastri, si è proceduto ogni anno, a partire dal 1996, ad una lavorazione superficiale del terreno tra la fine di aprile e l’inizio di maggio su almeno 2 ettari emersi di prati umidi creati ex novo. Questa operazione, effettuata su suoli con moderata salinità, ha determinato una lenta ricrescita della vegetazione erbacea e quindi la permanenza di un ambiente idoneo alla nidificazione, permettendo l’insediamento delle coppie e la deposizione delle uova durante il mese di maggio-inizio giugno. I radi cespi di graminacee alofile che si sviluppano nei due mesi successivi alla lavorazione del terreno costituiscono inoltre un rifugio per i pulcini fino al momento dell’involo.
E il risultato è che tutte le coppie nidificanti in Emilia Romagna a partire dal 1997 si sono riprodotte in questo habitat artificiale, ricreato al preciso scopo di favorire la Pernice di mare. Un risultato non da poco per una specie così minacciata.
domenica 8 novembre 2015
LE MEGATTERE
Le megattere appartengono alla famiglia Balaenopteridae, che si pensa si sia separata dalle altre famiglie dei Mysticeti all'incirca alla metà del Miocene.
Sebbene chiaramente correlata alle altre grandi balenottere, la megattera è stata l'unica specie del suo genere fin dagli studi di Grey del 1846. Più di recente, analisi di sequenziamento del DNA mitocondriale hanno indicato che le megattere sono più strettamente imparentate con Eschrichtius robustus, unico rappresentante della famiglia Eschrichtiidae, e con la balenottera comune (Balaenoptera physalus) piuttosto che con altre balenottere come la balenottera minore (Balaenoptera acutorostrata). Se ulteriori analisi confermeranno queste relazioni, sarà necessario riclassificare la famiglia Balaenopteridae.
La megattera è stata identificata come baleine de la Nouvelle Angleterr da Mathurin Jacques Brisson nel suo Regnum Animale del 1756. Nel 1781, Georg Heinrich Borowski descrisse la specie, convertendo il nome dato da Brisson al suo equivalente latino Balaena novaeangliae. All'inizio del XIX secolo Lacépède spostò la megattera dalla famiglia Balaenidae rinominandola Balaenoptera jubartes. Nel 1846, John Edward Gray creò il genere Megaptera, classificando la megattera come Megaptera longipinna, ma nel 1932, Remington Kellogg riportò l'epiteto specifico a novaeangliae, latinizzazione di quello utilizzato da Brisson. Il nome generico Megaptera deriva dal greco méga-/µa- "grande" e pterón/pte "ala", in riferimento alle loro grandi pinne pettorali; l'epiteto specifico si riferisce probabilmente ai frequenti avvistamenti di megattere al largo della costa del New England (Nuova Inghilterra) che avvenivano ai tempi di Brisson.
L'animale presenta un corpo allungato, ma piu robusto rispetto ad altri balenotteridi come la balenottera comune o la balenottera azzurra.
Il capo è allungato, idrodinamico, compresso dorso-ventralmente, e spesso ricoperto da molte protuberanze e da colonie di cirripedi (i denti di cane).
La gola è percorsa dai cosiddetti solchi golari. La pelle della gola forma cioè pieghe parallele che si estendono in direzione muso-coda. Questi servono alla megattera per poter ampliare la capacità della bocca, in modo da poter filtrare un maggior volume d'acqua.
La caratteristica morfologica principale e maggiormente identificativa dell'animale è la lunghezza delle pinne pettorali, che posson misurare fino a 5mt. Il margine delle pinne pettorali e della caudale non è mai liscio e uniforme, ma presenta protuberanze distintive.
La pinna dorsale è ridotta a una bassa gobba carnosa.
L'animale risulta di colore grigio scuro, tranne che per le pinne pettorali e la parte inferiore della pinna caudale, che sono invece bianche.
La megattera vive nei mari tropicali e polari, prediligendo le acque vicino alla costa.
Per spostarsi dalle acque calde alle acque fredde le megattere compiono lunghissime migrazioni in piccoli branchi di 15 individui al massimo. Questo perchè in inverno, quando le acque polari sono troppo fredde e coperte di ghiaccio, gli animali si spostano verso acque calde per riprodursi. Quando i cuccioli son cresciuti ed è tornata l'estate, gli animali si spostano nuovamente verso i poli ove trascorreranno mesi alimentandosi.
Le megattere si nutrono di invertebrati e piccoli pesci che catturano con una tecnica peculiare detta "rete di bolle". Avvistato un banco di pesci le megattere lo circondano e vi nuotano attorno emettendo bolle dallo sfiatatoio. Così intrappolati dalle bolle i pesci non han via di fuga; le megattere si immergono e emergono a bocca spalancata, raccogliendo così i pesci raggruppatisi.
Le megattere tra tutti i misticeti son quelle che compiono il maggior numero di "acrobazie": si rotolano, sbattono le pinne sull'acqua, emergono col muso come a volersi guardare attorno, e, unico caso tra i misticeti, sono in grado di saltare completamente fuori dall'acqua.
Le megattere comunicano per mezzo di suoni a bassa frequenza. Questi sono molto caratteristici poichè son organizzati in canti altamente strutturati e complessi.
Ogni canto è costituito da un minimo di due a un massimo di nove temi diversi che si susseguono in un ordine preciso. Ogni canto può durare da pochi minuti a un'ora e mezzo.
In qualsiasi bacino oceanico le popolazioni di megattere intonano lo stesso canto. Con il trascorrere del tempo il canto si modifica gradualmente e tutte le megattere, in tutto il mondo, seguono contemporaneamente questo mutamento.
I canti vengono utilizzati dai maschi durante la stagione riproduttiva, e son richiami molto efficaci, poichè possono esser uditi da una megattera anche a migliaia di km di distanza.
La megattera è un animale sociale che vive in piccoli gruppi che stagionalmente migrano dal polo dove si recano per nutrirsi, alle acque tropicali per accoppiarsi e riprodursi. Sono quindi animali migratori: in primavera, in estate ed in autunno vivono nelle acque dei poli e passano il tempo a nutrirsi mentre d'inverno si recano nelle acque calde dei tropici dove si accoppiano e fanno poi nascere i piccoli.
E' stato osservato che la megattera tende a dare dei violenti colpi nell'acqua con le pinne pettorali e a fare grandi tuffi sollevandosi fuori dall'acqua e poi ributtandosi sulla schiena. Non si sa di preciso il significato di questo rituale forse sono dei segnali per gli altri membri del gruppo.
Durante le migrazioni tengono un'andatura media di 3-14 km/h ma possono arrivare anche a 27 km/h. In genere le madri con i piccoli sono molto più lente rispetto a quelle che viaggiano da sole.
La megattera presenta due sfiatatoi che servono al cetaceo per respirare. Durante l'espirazione dagli sfiatatoi zampilla un getto d'acqua che può raggiungere un'altezza di 3 m. Riesce a stare in immersione fino ad un massimo di venti minuti.
L'accoppiamento della balena megattera avviene nelle acque calde tropicali così come la nascita dei piccoli.
Un aspetto importante è il corteggiamento. E' stato osservato che un maschio intona una sorta di canzone che si sente anche a diversi chilometri di distanza. Non è certo se questo canto serva ad attirare la femmina, è stato solo notato che quando la femmina si avvicina, il maschio smette di cantare.
Non sono rare le lotte tra maschi per una femmina: i due maschi si affrontano a testate e sbattono violentemente le pinne.
La gestazione di una balena megattera dura circa un anno al termine della quale nasce un solo piccolo lungo 4-5 m che viene allattato dalla madre ininterrottamente per circa 5-6 mesi succhiando circa 550 l di latte al giorno. Dopo tale periodo viene svezzato ma continua a restare con la madre ancora per circa un anno. I maschi non partecipano in alcun modo all'allevamento dei piccoli.
La maturità sessuale viene raggiunta intorno ai 4-5 anni ed in genere la femmina entra in estro ogni due-tre anni.
Il cibo delle megattere consiste in krill, ma, a volte, esse mangiano anche dei piccoli pesci e si ha notizia di una di esse nel cui stomaco vennero trovati persino sei cormorani più un settimo nella gola. Questi vennero probabilmente ingoiati accidentalmente, allorché la balenottera si stava cibando dello stesso banco di krill nei cui pressi si trovavano i cormorani. A volte nel loro stomaco sono stati rinvenuti anche dei merluzzi. Quando però le megattere si trovano in acque tropicali, non si cibano quasi mai. Esse si alimentano quasi unicamente in inverno nelle acque più fredde e le loro riserve di grasso vengono accumulate in maniera da bastare per tutto l'anno.
Come avviene per molte altre specie di balene, il peggior nemico delle megattere è l'uomo, seguito dall'orca. Le megattere, per la loro abitudine di seguire la costa e a causa delle loro rotte migratorie fisse, costituiscono una facile preda per l'uomo e, allorché viene iniziata la caccia alla balena, è quasi sempre una megattera ad essere uccisa per prima.
Le megattere sono di solito fortemente infestate da balani e da pidocchi delle balene; uno dei balani Coronula viene di solito trovato in associazione con i tubercoli della testa e delle pinne. È stato più volte notato che queste balenottere quando viaggiavano lungo le coste dell'Africa meridionale verso il nord erano fortemente infestate, mentre quelle che ritornavano dalle acque tropicali verso il sud, lo erano molto meno. Si è ritenuto pertanto che nella zona in cui il fiume Congo si getta in mare, le megattere si avvicinassero molto sotto costa, in acque perciò molto meno salate, nelle quali i balani o morivano, o comunque si staccavano.
La megattera è classificata nella Red list dell'IUNC del 2009 tra gli animali a basso rischio di estinzione LEAST CONCERN (LC) in quanto le recenti stime hanno valutato un numero di esemplari pari a 60.000 individui, al di sopra quindi dei criteri necessari per classificarla anche come vulnerabile.
La megattera è stata protetta dalla caccia commerciale nel Nord Atlantico dalla IWC (International Whaling Commission - Commissione internazionale per la caccia alle balene) dal 1955, nel Sud del mondo dal 1963 e nel Pacifico del Nord dal 1966. Le ultime catture a scopi commerciali risalgono al 1968. Pur essendo una specie che è stata pesantemente cacciata (per ricavarne olio per l'illuminazione o come lubrificante, carne ed ossa per ricavarne fertilizzante) oggi la sua popolazione è in netta ripresa. Godono anche di protezioni supplementari, essendo stati istituiti diversi santuari in alcuni paesi del mondo.
La specie è elencate nell'appendice I della CITES (Convenzione sul commercio internazionale di specie di fauna e flora minacciate d'estinzione, nota semplicemente come "Convenzione di Washington" che comprende le specie minacciate di estinzione ed il commercio di esemplari di tali specie è consentito solo in casi eccezionali) e nell'Appendice I del CMS (Convenzione sulla conservazione delle specie migratrici della fauna selvatica, nota anche come Convenzione di Bonn, che elenca le specie migratrici che sono state classificate in pericolo di estinzione in tutto o in una parte significativa del loro aerale e nei confronti delle quali gli Stati devono adoperarsi per tutelare la conservazione o il ripristino degli habitat in cui vivono, attenuando anche gli ostacoli alla loro migrazione).
Oggi solo pochi esemplari sono cacciati nel mondo. Il Giappone, il più grande cacciatore di balene, per il 2009 ha sospeso la caccia alla megattera.
Spesso la megattera viene ferita dalle navi o dalle barche così come viene catturata accidentalmente con le reti da pesca.
sabato 7 novembre 2015
PESCI NEON
Il neon è originario dell'Amazzonia, dove abita il bacino idrografico del fiume Solimões, frequentando acque scure e torbide e acque limpide e calme.
Presenta un corpo corto, compresso ai fianchi, il dorso leggermente incurvato, il ventre arrotondato. La pinna caudale è trasparente, come tutte le altre pinne, e biforcuta. La livrea è molto appariscente: il dorso è grigio, composto da fittissimi e minuti puntini scuri; dall'occhio parte una fascia orizzontale azzurro elettrico con riflessi metallici che termina al peduncolo caudale. La gola è grigia, il ventre bianco argenteo e rosso vivo, con una macchia che si allunga fino alla pinna caudale. I colori accesi sono impiegati per mantenere il contatto visivo con gli altri pesci del banco, soprattutto nelle acque fangose o ricche di tannini. La lunghezza massima registrata in natura è di 2,2 cm, mentre in acquario (dove può vivere molto più a lungo) gli esemplari possono giungere anche a 5 cm.
È una specie onnivora dalla dieta molto varia, che comprende piante, insetti, vermi e piccoli crostacei.
Il neon è uno dei pesci più conosciuto ed apprezzato da appassionati acquariofili, sia per la livrea accattivante, che per le sue attitudini alla vita di branco. Date le sue ridotte dimensioni, è un pesce che può vivere anche in piccoli acquari. In vasche di dimensioni maggiori basta inserirne un gruppo di 20-30 esemplari per avere un ottimo risultato.
Naturalmente, come per tutti i pesci che vivono in acquario, i colori possono essere leggermente falsati dall’illuminazione artificiale, che di norma non rispecchia sempre la luce naturale. La forma del corpo è a siluro, non molto snella, con sezione tondeggiante. Pinne spostate tutte (a parte le pettorali) nella metà posteriore del corpo, coda bilobata, bocca piuttusto piccola, occhi grandi. Questo pesce si adatta molto bene a tutti i tipi d’acqua, sempre che non si tratti di specie selvatiche. Per ottenere degli esemplari belli e sani è consigliabile tenere valori d’acqua intorno a 8°-10° dGH (durezza totale) e un pH attorno 6,5-7. Ovviamente in natura vivono in acque molto diverse (dGH inferiore ad 1° e pH 5,5-6,5) ma visto che i pesci offerti nei negozi, sono per la maggior parte di allevamento, risulta abbastanza inutile cercare quei valori riscontrati in natura.
Il Neon ha un comportamento vivace ma non aggressivo, a volte se nutrito poco, può disturbare pesci con pinne lunghe. E’ consigliabile tenerlo in gruppi di almeno 4-5 elementi, essendo un pesce di branco. Quando si introducono i neon appena acquistati, in vasche dove si trovano pesci di grandi dimensioni, ad esempio scalari adulti, ci può essere il rischio che i nuovi neon vengano divorati da questi, anche se nell’acquario vi sono già dei neon di vecchia data e mai disturbati dagli scalari. Di norma, ciò succede se vengono acquistati esemplari non troppo grandi e se i pesci, nella vasca di destinazione, non vengono alimentati in maniera adeguata. La temperatura ideale è intorno ai 24-25 gradi.
Per la riproduzione di questi pesci, in particolare ed in generale per tutti i pesci, è fondamentale conoscere il più possibile il biotopo naturale in cui vivono. In natura, quando i neon si apprestano alla riproduzione, si spostano in zone dove l’acqua è molto acida e di colore marrone scuro. Il fondale è solitamente ricoperto da fogliame, rami ed altri detriti. Per riconoscere le differenze dei sessi, basterà alimentarli in modo corretto, in questo modo sarà più facile riconoscere il maschio che avrà il corpo più snello della femmina.
mercoledì 28 ottobre 2015
I PESCI SCALARE
Lo scalare è caratterizzato da un corpo alto, molto compresso ai fianchi. Il profilo dorsale è alto ma arrotondato, così come quello ventrale, più pronunciato. La pinna dorsale e quella anale sono molto alte, sorrette da lunghi raggi, che si riducono e diventano più sottili verso la parte terminale della pinna. Le pinne ventrali sono filiformi, formate da pochi raggi duri. La pinna caudale è a delta, molto ampia, con i raggi laterali allungati.
La livrea selvatica presenta un fondo argenteo (con dorso giallastro e ventre tendente al bianco) con quattro strisce verticali bruno-nere (sette nella livrea giovanile).
Pterophyllum scalare, comunemente chiamato scalare o pesce angelo è un pesce tropicale d'acqua dolce appartenente alla famiglia Cichlidae.
Questo ciclide è diffuso nel bacino del Rio delle Amazzoni, nonché nei fiumi Ucayali, Solimões e Amapá (Brasile), Rio Oyapock (Guiana francese) e nell Essequibo (Guyana).
Abita le acque calme (anche paludose) ricche di piante acquatiche (compresa la foresta inondata), sia limpide che torbide e fangose.
Lo Scalare forma coppie monogame che rimangono fedeli tutta la vita: se uno dei due dovesse morire, difficilmente l'esemplare rimasto trova un altro compagno. Qualche giorno prima della deposizione, la coppia inizia a ripulire accuratamente la foglia di una pianta sulla quale verranno fatte aderire le uova. Durante la deposizione la femmina e il maschio passano a turno sulla superficie della foglia: la femmina depone le uova e il maschio la segue nei suoi passaggi rilasciando gli spermatozoi. A deposizione avvenuta, la coppia cura le uova e sorveglia il territorio finché queste non si schiudono. Le cure parentali consistono nella rimozione delle uova non fecondate e nell'ossigenazione, favorita dal ricambio dell'acqua che i genitori assicurano tramite rapidi e ripetuti movimenti a ventaglio delle pinne pettorali. Una volta avvenuta la schiusa, i genitori continuano a curare gli avannotti per alcuni giorni, abbandonandoli poi al loro destino.
Ha dieta onnivora: si nutre di piccoli pesci (specialmente avannotti), vermi, insetti e vegetali.
Gli scalari hanno un portamento e un'eleganza nei movimenti ineguagliabili, comportamenti sociali molto interessanti da osservare e le spettacolari cure parentali in riproduzione dei ciclidi spesso però non solo non riescono a mostrare questi comportamenti, ma vivono anche molto meno della loro normale aspettativa di vita, perchè vengono messi in acquari troppo piccoli per le dimensioni che dovrebbero raggiungere da adulti, il che si traduce in crescita stentata, stress, maggiore propensione alla malattie e appunto morte precoce.
Anche se li troviamo piccoli nei negozi, sono pesci destinati a diventare grandi, maestosi, hanno bisogno di vasche lunghe, per poter nuotare, alte, perchè hanno pinne dorsali e ventrali molto estese, ed essendo territoriali hanno bisogno di spazio.
Non esistono 'scalari nani' come tentano di propinare certi negozianti: tutti gli scalari crescono, e se non lo fanno è perchè non vengono allevati correttamente.
E' molto robusto e poco difficoltoso da allevare, ma occorrono vasche di dimensioni generose e molta attenzione nella scelta degli abbinamenti.
Grazie a decenni di attenta selezione da parte degli allevatori si è arrivati a standardizzare un numero notevole di varianti cromatiche (circa un centinaio), alcune molto diffuse, altre un po' meno. In base allo stesso lavoro selettivo si sono poi ottenute anche varianti standardizzate per forme delle pinne.
Il dimorfismo sessuale non è visibile ad occhio nudo. Solo durante la riproduzione è possibile distinguere i sessi da attenta osservazione, difatti in questa fase è ben visibile nelle femmine l'organo depositore, ovidotto, estroflesso per alcuni millimetri e di forma cilindrica, mentre nel maschio è visibile l'organo riproduttore, appuntito e di dimensioni nettamente inferiori rispetto all'ovidotto estroflesso della femmina.
In giovane età Pterophyllum scalare vive in piccoli gruppi, ma al raggiungimento della maturità sessuale iniziano a formarsi coppie piuttosto stabili, le quali progressivamente si staccheranno sempre più frequentemente dal branco originario. Per questo motivo in acquario una coppia tollererà ben poco la presenza di altri esemplari dimostrandosi nervosa e pericolosamente aggressiva contro qualsiasi animale venga considerato potenzialmente pericoloso per la sicurezza del proprio territorio riproduttivo.
E' un pesce sostanzialmente pacifico, però occorre tenere conto che in natura si nutre principalmente di avannotti e crostacei, per tale motivo è sconsigliabile l'abbinamento con Caridine, Neocaridine e pesci di piccola taglia. Anche i gasteropodi sono da evitare in quanto saranno frequentemente oggetto di attacchi e morsicate. Pterophyllum scalare resta comunque uno dei Ciclidi più adatti all'acquario di comunità, ma quando entra in fase riproduttiva se la vasca è troppo piccola e/o spoglia son dolori per tutti gli eventuali coinquilini.
IL GUPPY
Il Guppy o Lebistes, è un piccolo pesce d'acqua dolce della famiglia Poeciliidae.
Questo pesce è originario del Sudamerica, nelle aree di Venezuela, Guyana, Brasile settentrionale e isole come Barbados e Trinidad e Tobago, ma è stato ampiamente diffuso in tutto il continente e anche in centro-nord America perché sembrava fosse un ottimo rimedio contro le zanzare, come il pecilide Gambusia. Purtroppo, l'effetto sulle zanzare non si è rivelato significativo, mentre l'introduzione della specie ittica aliena ha comportato danni agli ecosistemi acquatici.
Successivamente si è diffuso in tutte le regioni tropicali e subtropicali del pianeta come Asia meridionale, Africa (fiume Durban e lago Otjikoto in Namibia), Australia e perfino Spagna meridionale. Almeno una popolazione perfettamente naturalizzata è stata riscontrata anche in Italia centrale, a Canino, in provincia di Viterbo.
Il Guppy abita acque diverse, ma sempre tropicali (23-24 °C): è diffuso in stagni, laghetti, laghi, fiumi e canali, dalle sorgenti di montagna alle foci dei fiumi e lagune, poiché sopporta, in molti casi gradendole, diverse concentrazioni di salinità. Elemento importante è un'alta concentrazione di piante acquatiche.
I guppy presentano un chiaro dimorfismo sessuale: il maschio è piccolo, dal corpo tozzo, con testa piccola, dorso incurvato, ventre arrotondato e un lungo e sottile peduncolo caudale, terminante in una coda arrotondata. La pinna dorsale è alta, le ventrali sono appuntite, l'anale è trasformata in organo copulatore (gonopodio). La livrea selvatica presenta un fondo bruno chiaro, semitrasparente, con chiazze arancioni, nere, blu e verdi dai riflessi metallici.
La femmina ha corpo più ampio e lungo, con un dorso più lineare e un grande ventre arrotondato, con pinne tondeggianti. La livrea femminile è semplice: un uniforme colore grigio-bruno, tendente al giallo trasparente.
L'allevamento in acquario ha prodotto centinaia di varietà colorate.
Gli esemplari maschili sono solitamente più piccoli (3,5 cm) e più colorati che gli esemplari femminili (6 cm).
Pesci estremamente prolifici, i guppy si riproducono con facilità.
Una caratteristica delle femmine è che con un solo accoppiamento possono produrre fino a sei covate e ciò risulta vantaggioso per la diffusione della specie, in caso esemplari femminili rimangano isolati. Nell'allevamento in acquario quindi non è inusuale avere figliate che non presentano il patrimonio genetico dei maschi presenti in vasca, almeno nei primi mesi.
Una volta fecondate le uova (internamente, con un fugace accoppiamento durante il quale il maschio incastra il suo gonopodio nell'apertura urogenitale della femmina), la gestazione dura circa 30 giorni. Il momento del parto coincide con la maturazione di altre uova pronte per essere fecondate. Anche questo fatto, oltre all'assoluta mancanza di cura della prole da parte degli adulti, contribuisce a rendere questa specie estremamente prolifica.
La maturità sessuale inizia molto presto, a 2-3 mesi le femmine possono già partorire. Risulta necessario quindi, se allevati in vasca, tenere separati i sessi fino a 6 mesi di età, per evitare danni alle femmine: parti troppo precoci possono portare a deformazioni del dorso.
Gli avannotti nascono già indipendenti, con il sacco vitellino che si consumerà in poche ore. I genitori tendono a mangiare la propria prole, non riconoscendola. In acquario il parto avviene solitamente durante la notte, all'alba. In questo momento tutti i pesci adulti "riposano", e raramente mangiano gli avannotti. È quindi possibile catturare gli avannotti con un retino e metterli nella nursery, una specie di sala di rete molto fine, in modo che possano crescere indisturbati e senza il rischio di essere mangiati. Dovranno essere liberati dopo circa un mese e mezzo dal parto.
Questi pesci si nutrono di detriti, di piccoli insetti e di zooplancton. Già da piccoli gli avannotti si possono nutrire con mangime secco. Non necessitano di particolari attenzioni. Quando si possiede un acquario è più comodo fornire loro un mangime di base completo sbriciolato finemente. Accettano praticamente qualsiasi tipo di cibo, dal liofilizzato alle pastiglie per pesci da fondo. Esistono comunque svariati tipi di mangimi appositi sul mercato, sarebbe meglio fornire loro un'alimentazione bilanciata e variata, senza eccedere con le somministrazioni di cibo. Fornire loro anche delle vitamine in gocce per pesci una volta alla settimana può migliorare di molto i colori, la vivacità e la resistenza alle malattie.
Il guppy ha molti predatori nel suo ambiente naturale, prevalentemente tra uccelli e pesci. I più comuni sono Crenicichla alta, Rivulus hartii e Aequidens pulcher. La brillante colorazione (prevalentemente maschile) dei loro piccoli corpi fa dei Guppy una facile preda: per questo vivono in gruppo per diminuire il pericolo di predazione. La colorazione dei guppy è anche un risultato evolutivo in risposta alla predazione. I Guppy maschi che presentano una livrea più colorata hanno il vantaggio di attirare più femmine ricettive ma anche un rischio maggiore di essere notati dai predatori rispetto ai maschi meno appariscenti: per questo recenti studi hanno dimostrato che sotto in situazioni di intensa predazione l'evoluzione facilita la nascita di maschi con livree meno appariscenti, con screziature e puntini più piccoli (sia in natura che in laboratorio). Questo avviene perché le femmine - in situazioni di alta predazione - preferiscono maschi con livree meno vivaci, rifiutando le "avances" dei maschi più colorati.
I guppy possono essere inseriti negli acquari di comunità a condizione che gli altri pesci non siano troppo grandi e non li considerino come cibo vivo. Si deve anche evitare di farli convivere con i Betta spendens (pesci combattenti) che li attaccano prendendoli per dei concorrenti a causa delle loro pinne colorate. Possono convivere con altri vivipari come i Platy. La chiave è quello di introdurre un solo maschio ogni tre femmine, o, eventualmente, fare un acquario popolato esclusivamente da guppy maschi. Apprezzano un'acqua ben mossa e ossigenata, e si adattano ad un pH compreso tra 6,5 e 8 e ad una durezza tra 4 e 30. I guppy di allevamento vivono bene in acqua di rubinetto, spesso molto dura, ad una temperatura di 22-24 gradi.
Ci dovrebbe essere una folta vegetazione che permetta alle femmine di sfuggire all'ardore dei maschi e delle piante galleggianti dove gli inevitabili avannotti possano facilmente trovare riparo e cibo. Possono essere utilizzate Bacopa, Diplidis diandra, Hemianthus micranthemides, Ludwigia repens e Sagittaria subulata, e Ceratophyllum demersum galleggiante. In un acquario di 35 litri, possono essere inseriti 5 guppy maschi o un maschio e tre femmine, evitando di tenere gli avannotti. In un acquario più grande, da 60 o 100 litri, si possono tenere una ventina di guppy, rispettando la proporzione di 1 maschio per 3-4 femmine.
Per molti anni, i guppy sono stati molto robusti e raccomandati come pesci facili, ideali per i principianti. Questo non è più davvero il caso: un buon numero di Guppy superbi, con code immense e sgargianti, allevati nel Sud-Est asiatico, nella Repubblica Ceca o ancora in Israele, sono imbottiti di antibiotici, allevati in acquari quasi sterili grazie alle lampade UV, pompati con coloranti e talmente selezionati che diventa quasi impossibile farli durare più di un paio di settimane e riprodurli nelle nostre vasche .
L'uso di alcuni coloranti sembra rendere sterili molti di questi maschi, gli avannotti sono spesso malformati e non si sviluppano correttamente. Per trovare ceppi resistenti è meglio andare da un allevatore privato o da un'associazione/club acquariofilo che hanno pesci meno sfruttati e più resistenti.
lunedì 28 settembre 2015
IL MERLUZZO
Il merluzzo (Gadus morhua), assente nel Mediterraneo, è un pesce di mare che popola le acque fredde e aperte dell'Atlantico settentrionale dove viene pescato in grandi quantità. I merluzzi vivono in branchi, sono voracissimi di altri pesci e si avvicinano alle coste soltanto nel periodo riproduttivo. I principali Paesi produttori sono la Norvegia, l'Islanda e l'isola canadese di Terranova.
Nell'Oceano Pacifico vive un altro tipo di merluzzo, simile a quello atlantico ma di dimensioni inferiori e con il corpo ricoperto di chiazze bianche.
Il merluzzo imperiale, presente anche nel Mediterraneo, ha un corpo lungo circa 40 centimetri con fasce trasversali scure.
Il Nasello (Merluccius merluccius) è un pesce appartenente alla stessa famiglia del merluzzo atlantico. Diffusissimo in tutto il Mediterraneo, nel Baltico e nell'Atlantico Orientale, possiede carni pregiate che vengono generalmente cotte al vapore.
Il corpo del merluzzo Gadus morhua, allungato e massiccio, può raggiungere il metro e mezzo di lunghezza.
Le carni del merluzzo sono oggetto di un intenso commercio ed assumono nomi diversi in relazione ai metodi di lavorazione e conservazione utilizzati. I filetti di merluzzo sotto sale prendono il nome di baccalà mentre il pesce intero, privo di testa ed essiccato, prende il nome di stoccafisso.
Dal fegato del merluzzo si ottiene un olio molto conosciuto ed utilizzato per la sua ricchezza di vitamine ed acidi grassi omega-tre.
Un merluzzo fresco si riconosce dalla compattezza delle carni e dal loro colorito bianco.
Il merluzzo è un pesce a carne bianca, è povero di grassi ed è indicato per chi segue una dieta a basso contenuto calorico.
Apprezzabile il contenuto di minerali (fosforo, iodio, ferro e calcio). Il baccalà, per il suo eccessivo contenuto di sodio, va consumato con moderazione da chi soffre di ipertensione.
Non deve presentare tracce di sangue, proprio come l'occhio che dev'essere vivo e sporgente, non arrossato.
Al genere Pseudophycis appartiene invece il merluzzo bianco di Nuova Zelanda (Pseudophycis bachus), presente in acque australiane e neozelandesi.
Al genere Trisopterus appartengono invece due specie:
Trisopterus luscus
Trisopterus minutus.
Il Trisopterus luscus, noto come merluzzo francese o merluzzetto bruno, è diffuso dalle coste del sud della Norvegia fino alla Manica e al golfo di Guascogna, compreso il mare del Nord; il Trisopterus minutus, noto come merluzzo cappellano o merluzzetto, è presente nell’oceano Atlantico fra la Norvegia centrale e l’Islanda, le acque del nord del Marocco, compreso il mar Mediterraneo occidentale, compresi tutti i mari italiani.
Al genere Pollachius appartengono invece:
Pollachius pollachius
Pollachius virens.
Il Pollachius pollachius, noto come merluzzo giallo, è presente nell’oceano Atlantico nord orientale, dalla Norvegia settentrionale e l’Islanda fino alle coste del Portogallo; il Pollachius virens, noto come merluzzo carbonaro o merluzzo nero, è diffuso nell’oceano Atlantico settentrionale tra il Golfo di Guascogna e la Norvegia settentrionale; lo si rinviene anche lungo le coste nordamericane di Canada e New England.
Ai generi Theragra e Aulopus appartengono rispettivamente il Theragra chalcogramma e l’Aulopus filamentosus; il primo, noto anche come merluzzo dell’Alaska, è diffuso nel nord del Pacifico, mentre il secondo, noto come merluzzo imperiale, è presente nel mar Mediterraneo e nell’oceano Atlantico orientale tra il Portogallo e le Isole Canarie. Lo si rinviene anche nel mare dei Caraibi e nelle acque del Golfo del Messico; nel nostro Paese lo si trova nelle acque dello stretto di Messina e lungo la costa toscana nei pressi della città di Livorno; negli altri mari italiani la sua presenza è piuttosto scarsa.
L'ORATA
L’orata è un pesce osseo di mare e di acque salmastre, appartenente alla famiglia Sparidae.
Il nome deriva dalla caratteristica striscia di color oro che il pesce mostra fra gli occhi.
L’orata è presente in tutto il bacino del Mediterraneo e nell’Atlantico orientale, dall'estremo sud delle isole Britanniche a Capo Verde. È un pesce strettamente costiero e vive tra i 5 e i 150 m dalla costa; frequenta sia fondali duri che sabbiosi, è particolarmente diffusa al confine fra i due substrati. Normalmente conduce una vita solitaria o a piccoli gruppi. È una specie molto eurialina, tanto che si può frequentemente rinvenire in lagune ed estuari, ma è estremamente sensibile alle basse temperature. È molto comune nei mari italiani.
Si distingue per avere il profilo del capo assai convesso e la mandibola leggermente più breve della mascella superiore. Sulla parte anteriore di ciascuna mascella sono presenti 4-6 grossi denti caniniformi, seguiti da 3-5 serie di denti molariformi superiori e 3-4 inferiori.
Il corpo è ovale elevato e depresso. La pinna dorsale è unica con 11 raggi spinosi e 12-13 molli. Sono assenti le scaglie sul muso, sul preorbitale e sull’interorbitale. La linea laterale include 75-85 squame. Il dorso è grigio azzurrognolo ed i fianchi argentei con sottili linee grigie longitudinali. Una banda nera e una dorata sono interposte fra gli occhi. La regione scapolare è nera, questo colore continua sulla parte superiore dell’opercolo, il cui margine è rossastro. La pinna dorsale è grigio azzurrognola, con una fascia mediana longitudinale più scura.
La lunghezza massima dell’orata è 70 cm, ma la più comune è tra i 20 e 50 cm; può raggiungere un peso di 10 kg circa.
Le orate sono ermafrodite proterandriche: la maggior parte degli individui subiscono l’inversione sessuale all’età di 2 anni (33-40 cm di lunghezza). La riproduzione (con più cicli di ovodeposizione) avviene tra ottobre e dicembre.
L’alimentazione in natura consiste prevalentemente di molluschi e crostacei a cui sminuzza il guscio con le forti mascelle provviste di denti.
L'orata è oggetto di pesca sportiva e commerciale su tutte le coste mediterranee. In crescita è l'allevamento in acquacoltura, importante voce dell'economia di molte località costiere lungo tutta la costa europea mediterranea. In Italia particolarmente rinomato è l'allevamento (in vasca a terra come in gabbie in mare) nelle lagune adriatiche e lungo le coste toscane soprattutto nella Laguna di Orbetello e nella zona di Capalbio e Ansedonia.
Le orate pescate presentano carni più magre di quelle d'allevamento (dovuto alla minor possibilità di muoversi e alla maggior quantità disponibile di cibo di queste ultime); segnalato anche un maggior contenuto di acidi grassi essenziali.
La pesca con la canna viene effettuata soprattutto in zone di costa bassa e sabbiosa con la tecnica del surf casting ma, data la frequenza e l'adattabilità della specie, anche in località di foce o dove siano presenti coste rocciose non troppo alte. La pesca consiste nel proporre al pesce l'esca locale (di solito si usano le cozze con guscio o crostacei ed anellidi marini) facendola arrivare sul fondo. Il terminale è molto semplice e deve essere molto lungo(circa 1,5/2 metri) in modo da non far insospettire il pesce e ad avvertire bene le toccate. L'orata è infatti un pesce molto sospettoso ed ha l'abitudine di girare l'esca tra le labbra più volte prima di ingoiarla, è quindi importante non ferrare subito la canna ma aspettare l'abboccata (la punta della canna si fletterà di più rispetto alle mangiate precedenti). L'esca ideale è la cozza locale ma talvolta anche il granchietto di sabbia e di scoglio può essere molto produttivo. Negli ultimi anni si sono diffusi come esche alcuni "vermi" marini quali il bibi, l'arenicola, l'americano o il coreano, con risultati spesso ottimi anche se con esemplari di misura ridotta. L'amo da utilizzarsi deve essere di misura abbastanza grande e molto robusto per non soccombere sotto la poderosa dentatura del pesce. L'esca d'eccellenza per cercare di catturare un'orata di media/grande dimensione è il granchio di sabbia, innescato talvolta con 2 ami.
L'orata è uno dei prodotti della pesca più diffusi e pregiati del mar Mediterraneo; in Italia rappresenta - assieme al branzino, alla cernia, al tonno, al pesce spada ed al dentice - il pesce più gradito e consumato. Essendo facilmente allevabile, l'orata gode di un costo al dettaglio piuttosto accessibile, anche se la differenza qualitativa tra un pesce allevato intensivamente (con l'impiego di mangime in pellet a base di farine animali) ed uno selvatico è piuttosto marcata; un buon compromesso è costituito dall'orata di vallicoltura.
In cucina, l'orata si presta ad ogni tipo di preparazione, ma le dimensioni e la provenienza possono costituire variabili estremamente utili a prediligere una o l'altra destinazione culinaria. L'orata pescata e fresca può essere consumata: cruda (al carpaccio o come sushi), al forno (al naturale, al cartoccio, in crosta di verdure ecc.), ai ferri (con carbone o legna, a gas diretto o su pietra lavica, su resistenze elettriche), in padella (anche solo i filetti), lessata o al vapore (in una marmitta o in pentola a pressione), in carpione ecc.
Gli esemplari più grossi (>2-3kg), se non preparati al cartoccio (comunque piuttosto impegnativo), necessitano la smembratura in tranci o filetti, in quanto la cottura ai ferri o al forno risulterebbe particolarmente laboriosa.
L'orata è un pesce tendenzialmente magro ma, come per il branzino, presenta una differenza abbastanza evidente tra il pesce allevato (più grasso) e quello pescato (oltre il 250% di grassi in meno); suggerisco quindi di prediligere sempre cotture abbastanza blande, non troppo intense o prolungate, che possano determinare la disidratazione/scolatura dell'acqua e del grasso contenuti in eccesso nella carne e sotto la pelle.
Alcuni utilizzano l'orata anche per comporre la farcia delle paste ripiene.
L'orata contiene una buona porzione di acidi grassi polinsaturi (ma non nelle stesse quantità del pesce azzurro) e monoinsaturi, mentre l'apporto di colesterolo è moderato; si presta dunque all'alimentazione contro il sovrappeso e alla dieta per la cura delle dislipidemie (ipercolesterolemia o ipertrigliceridemia).
L'apporto energetico è fornito prevalentemente dalle proteine ad alto valore biologico (con amminoacido limitante leucina) e in minor parte dagli acidi grassi (con prevalenza dei monoinsaturi o dei polinsaturi a seconda che si tratti di un'orata di allevamento o selvatica).
L'apporto vitaminico è buono e predilige le concentrazioni di niacina (vit. PP) e riboflavina (vit. B2).
LE PULCI DI MARE
La pulce di mare (classe Malacostraci) abbonda tra i materiali organici trascinati dalle onde sui litorali marini europei a lieve pendio. Al primo accenno di pericolo trova prontamente rifugio nella sabbia umida. Ha corpo appiattito lateralmente e suddiviso in numerosi segmenti dotati di arti adattati sia alla vita terrestre (quelli anteriori) sia a quella acquatica (quelli posteriori, che, utilizzati come remi, conferiscono alla pulce di mare la caratteristica andatura a scatti). Tipiche della pulce di mare sono le migrazioni giornaliere fra la costa e le spiagge sabbiose, effettuate grazie alla capacità di orientarsi in base alla posizione del sole: ogni popolazione segue una direzione di movimento geneticamente determinata e commisurata all’orientamento della costa su cui vive. La dieta della pulce di mare si basa principalmente sulle alghe putride che affollano i bagnasciuga. Esclusive delle acque fredde e temperate che circondano l’America Settentrionale sono Eudorella emarginata ed Eudorella truncatula.
Si tratta di un organismo di tipo planctonico, che quindi ‘nuota' in mare, e che presenta un involucro rigido ricoperto da una sorta di spine poste a difesa del fragile organismo. Proprio queste spine sono la causa delle punture avvertite dai bagnanti.
Le larve non pungono volontariamente la cute dei bagnanti. In realtà restano semplicemente ‘impigliate' in alcune zone del corpo umano, principalmente tra le dita, o spesso tra i costumi da bagno e la pelle, provocando così il pizzicore, simile a quello che si percepisce quando la pelle entra a contatto con la lana di vetro. Tuttavia l'irritazione non è provocata da sostanze urticanti o velenose di cui le larve sono sprovviste. Va detto che è un fenomeno che si ripete ogni anno e che questa estate non presenta particolari incrementi. In ogni caso, questa fase in cui le larve sono protette dall'involucro spinato, dura circa sette o otto giorni ed il libeccio che sta soffiando con forza le porterà probabilmente al largo anticipatamente.
mercoledì 23 settembre 2015
L'ELEFANTE MARINO
L'origine degli elefanti marini è oscura. Alcuni autori sostengono che il genere si sia originato nell'Antartico, e successivamente l'attuale M.leonina abbia colonizzato l'emisfero nord, in seguito ad un cambiamento delle rotte ancestrali lungo le coste occidentali dell'America del Sud, nel periodo della glaciazione del Pleistocene. Quando ci fu il nuovo riscaldamento dell'acqua del mare, il gruppo di elefanti marini che si trovava nella regione della California del Nord rimase isolato rispetto alla principale popolazione del sud ed è quello attualmente conosciuto come M.angustirostris, l'elefante marino del nord.
È appurato invece che il nome del genere ha origine nel sud: Mirounga proviene da miouroung, un antico nome che usavano gli australiani aborigeni per indicare l'elefante marino. In generale, il nome "elefante marino" deriva dalla grande taglia corporea (la più grande tra tutti i pinnipedi) e dalla proboscide dei maschi adulti. Un maschio adulto di elefante marino può raggiungere una lunghezza di 4,0-5,8 metri ed un peso superiore alle 3,5 tonnellate ed è circa 8 volte più pesante di una femmina adulta. Una femmina adulta, infatti, arriva a 2,4-3,3 metri di lunghezza ed il suo peso è variabile dai 300 agli 900 kg.
Le due specie del genere Mirounga abitano parti differenti del mondo, vivono in emisferi opposti e in zone climatiche diverse, ma appaiono simili per molti aspetti: comportamento sia in mare sia a terra, comportamenti riproduttivi, modalità d'immersione per il foraggiamento e per gli spostamenti. Differiscono per la dimensione corporea dei maschi (quelli della specie del sud sono più lunghi e più pesanti rispetto a quelli della specie del nord) e per alcuni caratteri sessuali secondari maschili (la proboscide nella specie del nord è più grande).
Le differenze principali consistono in alcuni componenti delle strategie riproduttive, in particolare il periodo di riproduzione (che ha il suo picco a gennaio per la specie del nord e ad ottobre per quella del sud), la durata dell'allattamento e il periodo post-svezzamento.
La durata dell'allattamento è maggiore nella specie del nord (24-28 giorni) rispetto a quella del sud (22-23 giorni) e questo probabilmente implica un peso medio allo svezzamento maggiore per la specie del nord (131 kg contro 121 kg).
La durata del periodo di digiuno postsvezzamento nella specie del sud si aggira intorno ad un valore medio di 37 giorni, mentre nella specie del nord tale periodo è funzione della data di svezzamento nell’arco della stagione ma solitamente si aggira intorno ai 3 mesi.
Solitamente i maschi rimangono a terra digiunando per un periodo di 3 mesi, mentre le femmine circa 4 o 5 settimane. Durante la riproduzione, il maschio può arrivare a perdere fino a un terzo del suo peso.
I maschi crescono fino a 7m con una circonferenza di 3-4m e un peso di 4t, più o meno come un piccolo camion. Le femmine sono molto più piccole: misurano circa 3,5m e pesano attorno a una tonnellata. La loro pelliccia è composta da peli corti e rigidi distribuiti irregolarmente, il cui colore varia dal marrone chiaro al marrone scuro. La pelliccia copre uno strato sottocutaneo di grasso che assicura l'isolamento dal freddo. I maschi adulti possiedono una proboscide sopra le narici, una sorta di sacco che funge da cassa di risonanza quando viene dilatato. Permette loro di produrre suoni sbuffanti e un forte ruggito per mantenere lontano i rivali dal proprio territorio. .
La proboscide è visibile nei maschi di età compresa tra 3 e 4 anni, ma non è del tutto sviluppata prima degli 8-9 anni. L'elefante marino deve il suo nome sia alla sua proboscide sia alle sue dimensioni, ma per quanto imponente sia, non intimorisce le orche che includono questa foca nella loro dieta. A loro volta, gli elefanti marini si alimentano di pesci, crostacei, calamari e polipi, che probabilmente catturano durante profonde immersioni che possono durare fino a venti minuti. Gli elefanti marini trascorrono l'inverno in mare e, ogni anno, all'inizio della primavera, fanno ritorno alle stesse spiagge sulle isole subantartiche . I maschi adulti giungono per primi per definire il proprio territorio, che difendono gelosamente. Ben presto arrivano le femmine gravide, a formare un harem di 20-30 individui, a volte 100, attorno a ogni maschio. Poco dopo, a metà ottobre, nascono i cuccioli coperti da un rivestimento nero, che pesano 34-41 kg e misurano un metro.
Durante le 3 settimane dell'allattamento, quadruplicano il loro peso iniziale e crescono di mezzo metro. Una volta che il piccolo è svezzato, le femmine si accoppiano nuovamente e, dopo aver digiunato per quasi 30 giorni, fanno ritorno al mare per alimentarsi. Il piccolo, il cui mantello è diventato grigio argentato, impara a nuotare all'età di 3-4 settimane e continua a crescere rapidamente durante tutto il primo anno.
Le femmine possono partorire un cucciolo all'età di 3-4 anni, mentre i maschi raggiungono la maturità sessuale molto più tardi, attorno agli 8-9anni. Il maschio dominante, che svolge il ruolo di "capo della spiaggia", è spesso il più grosso e stabilisce il suo harem nel mezzo della spiaggia, difendendo il territorio circostante. Quando appare un avversario, inizia a sbuffare e a ruggire, ma se ciò non è sufficiente per intimorire il nuovo venuto, ha inizio il combattimento. La battaglia dura finchè uno degli avversari si ritira esausto. le ferite sanguinanti non sono in genere gravi e solo di rado oltrepassano lo strato di grasso. Così come gran parte delle altre foche, anche questa specie affronta lunghe migrazioni stagionali: Soprattutto le femmine sono grandi viaggiatrici, capaci di coprire enormi distanze, fino a 3 000km. La loro popolazione si è stabilizzata attorno a 700 000 individui.
Con 6 metri di lunghezza e 4000 kg di peso, l'elefante marino del sud (Mirounga leonina) è a tutti gli effetti la più grande foca (nel senso ampio mammiferi semi acquatici) del mondo.
I maschi possono arrivare a essere 3/4 volte più grandi delle femmine. E come spesso accade nelle specie con un marcato dimorfismo sessuale, tendono alla poligamia: ogni maschio può arrivare ad avere anche centinaia di partner. Anche il pene ha misure eccezionali: 30 centimetri di lunghezza! Ma non si tratta di un record: il tricheco, per esempio, ce l'ha lungo il doppio, 60 centimetri.
La ragione? Semplice: è una questione di clima. Le specie dei climi caldi (come gli elefanti marini) hanno più facilità a incontrare le femmine, perché vivono in colonie con un maschio dominante. Conta più avere un corpo possente per scacciare i maschi rivali. Chi vive nei climi freddi (come il tricheco), invece, deve inseminare il più efficacemente possibile le poche femmine che incontra. E a questo scopo, le dimensioni del pene, contano.
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