domenica 6 settembre 2015

L'ISOLA DI MOZIA



Mozia fu un'antica città fenicia, sita sull'isola di San Pantaleo, nello Stagnone di Marsala. L'isola si trova di fronte alla costa occidentale della Sicilia, tra l'Isola Grande e la terraferma, ed appartiene alla Fondazione Whitaker.

Mozia fu probabilmente interessata dalle esplorazioni dei mercanti-navigatori fenici, che si spinsero nel Mar Mediterraneo occidentale, a partire dalla fine del XII secolo a.C.: dovette rappresentare un punto d'approdo ed una base commerciale morfologicamente molto simile alla città fenicia di Tiro. Il nome antico in fenicio era Mtw, Mtw o Hmtw, come risulta dalle legende monetali; il nome riportato in greco, Motye, Μοτύη, è citato anche da Tucidide e da Diodoro Siculo. Intorno alla metà dell'VIII secolo a.C., con l'inizio della colonizzazione greca in Sicilia, Tucidide riporta che i Fenici si ritirarono nella parte occidentale dell'isola, più esattamente nelle tre città di loro fondazione: Mozia, Solunto e Palermo. Archeologicamente è testimoniato un insediamento della fine dell'VIII secolo a.C., preceduto da una fase protostorica sporadica ed alquanto modesta. Le fortificazioni che circondano l'isola possono essere forse collegate alle spedizioni greche in Sicilia occidentale di Pentatlo e Dorieo nel VI secolo a.C.

Nel 397 a.C. Dionisio di Siracusa prese e distrusse la città all'inizio della sua campagna di conquista delle città elime e puniche della Sicilia occidentale; l'anno successivo Mozia venne ripresa dai Cartaginesi, ma perse di importanza in conseguenza della fondazione di Lilibeo. Dopo la battaglia delle Isole Egadi nel 241 a.C. tutta la Sicilia passò sotto il dominio romano, ad eccezione di Siracusa: Mozia doveva essere quasi del tutto abbandonata, dal momento che vi si sono rinvenute solo pochissime tracce di nuova frequentazione, generalmente singole ville di epoca ellenistica o romana.

Nell'XI secolo l'isola fu donata dai Normanni all'abbazia di Santa Maria della Grotta di Marsala e vi si insediarono i monaci basiliani di Palermo, che diedero poi essi stessi il nome San Pantaleo all'isola, dedicandola al proprio santo fondatore dell'ordine. Nella seconda metà del XVI secolo, insieme ai monasteri di Palermo e Marsala, passò ai Gesuiti, e alla fine del Settecento precisamente nel 1792 fu data come feudo al Notaio Rosario Alagna di Mozia insignito con il titolo di Barone di Mothia. Sotto il suo patrocinio sono incominciati i primi scavi archeologici, a seguito autorizzazione del principe di Torremuzza e poi di Monsignore Alfonso Airoldi, custodi alle antichità della Sicilia occidentale e fu nominato sovrintendente alle antichità del territorio di Trapani. Sotto il suo patrocinio, sono stati scoperti reperti archeologici, conservati ed esposti al museo Whitaker dell'isola. Alla fine del feudalesimo 1806, passò in mano di piccoli proprietari che la coltivarono soprattutto a vigneto, come d'altronde è ancora oggi. La prima identificazione dell'isola con l'antica Mozia risale al viaggiatore e studioso tedesco Filippo Cluverio nel XVII secolo, anche se notizie dei resti archeologici sull'isola si hanno nei testi di diversi eruditi del Settecento e, sembra, a seguito di ricerche condotte per ordine del monsignor Airoldi, allora custode delle Antichità del Val di Mazara, sotto la direzione del barone Rosario Alagna; nel 1793 si rinvenne un gruppo scultoreo riproducente due leoni che azzannano un toro. Ricerche archeologiche scarsamente documentate furono condotte nel 1865, 1869 e 1872 e vi scavò senza risultati anche Heinrich Schliemann nell'ottobre del 1875; nel 1883 Innocenzo Coglitore identificò definitivamente il sito con l'antica Mozia.

Agli inizi del Novecento l'intera isola fu acquistata da Joseph Whitaker, archeologo ed erede di una famiglia inglese che si era trasferita in Sicilia arricchendosi con la produzione del marsala. Fu lui a promuovere i primi veri e propri scavi archeologici, che iniziarono nel 1906 e proseguirono fino al 1929: si misero in luce il santuario fenicio-punico del Cappiddazzu, parte della necropoli arcaica, la cosiddetta Casa dei Mosaici, l'area del tofet, le zone di Porta Nord e di Porta Sud e della Casermetta; Whitaker si occupò inoltre della sistemazione degli scavi, acquistando l'isola e sistemandovi il museo. Nel 1930 lo scavo del santuario del Cappiddazzu fu portato a termine da Pirro Marconi, ma solamente dal 1955 gli scavi furono proseguiti da una missione archeologica inglese dell'Università di Leeds, diretta da Benedikt Isserlin e a cui partecipò anche Pierre Cintas, celebre archeologo che aveva già scavato a Cartagine: le indagini interessarono le zone di Porta Sud e di Porta Nord ed il Kothon, e fu rimessa in luce una capanna preistorica nell'area del Cappiddazzu. Nel 1964 altre indagini furono condotte dalla Sapienza di Roma con Sabatino Moscati insieme alla locale soprintendenza archeologica diretta da Vincenzo Tusa; gli scavi interessarono l'area del Cappiddazzu, il tofet, l'area industriale a sud della necropoli arcaica e il centro abitato. Dal 1971 l'isola è di proprietà della Fondazione "Giuseppe Whitaker", costituita e voluta dalla figlia Delia, oggi scomparsa; dal 1974 vi ha condotto scavi Antonia Ciasca, soprattutto nelle cinta muraria, mentre dal 1977 Gioacchino Falsone e Antonella Spanò Giammellaro dell'Università di Palermo hanno svolto diverse campagne - tuttora in corso - nel centro abitato tra il santuario del Cappiddazzu e l'area della Porta Nord. Nel 1985 gli scavi hanno interessato la Casa dei Mosaici con Enrico Acquaro, mentre nel 1987 la Soprintendenza ha ripreso gli scavi all'abitato, nella Casa delle Anfore e nella Zona B, sotto la direzione di Maria Luisa Famà. Nel 2005 sono state avviate le prime indagini di archeologia subacquea dirette dal Prof. Sebastiano Tusa della Soprintendenza del Mare con il supporto della Coop.SYS che hanno riportato alla luce sulla strada sommersa delle strutture identificabili come delle banchine. Dal 2002 al 2012 gli scavi dell'Università di Roma "La Sapienza" hanno completamente rivoluzionato le conoscenze sull'antica Mozia. Gli scavi, diretti da Lorenzo Nigro sono stati condotti in sei diverse zone dell'Isola: la Zona C, in corrispondenza del cosiddetto "Kothon" che si è rivelato come la piscina sacra di un Tempio dedicato al dio Baal 'Addir, dove sono stati raggiunti i primi livelli dell'occupazione fenicia di Mozia risalenti alla prima metà dell'VIII secolo a.C. e una serie di tre templi sovrapposti (Tempio C5, C1 e C2), e, all'interno di un Temenos Circolare altre installazioni cultuali; la Zona D, alle pendici occidentali dell'Acropoli, dove sono state portate alla luce due residenze, la "Casa del Sacello domestico" e la "Casa del Corno di Tritone", per via di interessanti ritrovamenti effettuati al loro interno, tra i quali un corno di conchiglia; la Zona B, alle pendici orientali dell'Acropoli, dove è stato messo in luce un ampio edificio con una serie di pozzi, che ha restituito un'arula con una sfinge alata; la Zona F, dove è stata scavata la Porta Ovest e l'annessa Fortezza Occidentale; un sacello dedicato alla dea Astarte era stato inglobato nel settore più occidentale della Fortezza; in esso sono state rinvenute due statue della dea e diverse arule; il Tofet dove le indagini, riprese nel 2009 grazie ad un intervento della Soprintendenza di Trapani, di restauro e valorizzazione dell'area, diretto da Rossella Giglio, hanno portato all'identificazione dell'ingresso al santuario dove si sacrificavano i bambini e alla scoperta di un ambiente cultuale ad esso collegato. Gli scavi della Sapienza hanno portato all'identificazione delle sorgenti di acqua dolce che alimentavano il bacino del "Kothon" e l'adiacente area sacra del Tempio di Baal. Inoltre, nella campagna 2012 è stato identificato il possibile nome della statua nota come Giovane di Mozia: si tratterebbe di un eroe omerico, il mirmidone Alcimedonte, auriga occasionale del carro di Achille durante la battaglia per il recupero del corpo di Patroclo sotto le mura di Troia (Iliade XVII).



La parte centrale dell'isola era occupata dalla città vera e propria, con un reticolo viario ortogonale, di cui sono stati portati in luce solo alcuni tratti. Nel centro è visibile un tratto di una strada orientata in senso nord-ovest/sud-est, delimitata dalla fronte di diversi edifici. Una pietra collocata verticalmente in corrispondenza di uno spigolo, che doveva fungere da paracarro, rivela la presenza di un incrocio con una via ortogonale, solo parzialmente visibile, che doveva essere parallela alla strada della Porta nord. Nella pavimentazione in battuto della strada si aprono quattro pozzetti circolari, scavati nella roccia e rivestiti di pietre a secco, tre dei quali sono allineati: dovevano servire per l'assorbimento ed il drenaggio delle acque. Al complesso che s'affaccia lungo il lato settentrionale della strada s'accede attraverso una grande soglia in un grande ambiente sulla cui parete di fondo è addossata una piattaforma accessibile da tre gradini e con una canaletta di scolo che sbocca in un pozzo, proprio davanti alla scaletta. Un secondo ambiente più piccolo, lungo e stretto, presenta al centro della parete un bancone rettangolare, mentre un terzo ambiente aveva al centro un pilastro, in cui sono stati rinvenuti resti di ossa combuste. La piattaforma del primo ambiente è stata interpretata come altare per i sacrifici e il complesso come un edificio di culto. Tre piccoli ambienti, cui s'accedeva dalla strada tramite un'altra soglia, sono probabilmente pertinenti ad un altro edificio. Nello scavo sono stati rinvenuti materiali del IV e forse III secolo a.C., posteriori dunque alla distruzione del 397 a.C. Tracce di rimaneggiamenti non sono chiaramente definibili.

Il collegamento con la terraferma è assicurato dai pescatori.
Fino al 1971 si poteva raggiungere l'isola anche a bordo di un carretto trainato da un cavallo lungo il tracciato di una strada fenicia che collega l'isola alla terraferma. Dato che la strada si trova appena sotto il pelo dell'acqua si aveva la strana sensazione che il carretto "camminasse sull'acqua". Era questo il mezzo più comune per il trasporto dell'uva  coltivata sull'isola dal XIX sec, ed utilizzata per la produzione del Marsala. Si giunge in prossimità dell'isola accolti da una profusione di profumi e di colori: la vegetazione, di tipo mediterraneo, è rigogliosissima soprattutto in primavera, e già in sè costituisce un valido motivo alla visita. Al centro sorge la bella abitazione ottocentesca dei Whitaker che ospita il museo.

L'isola era naturalmente protetta dall'attuale Isola Longa, un tempo penisola, dalla terraferma e dalle acque poco profonde della laguna che rendevano molto difficile un attacco. Per aumentare le difese naturali, nel VI sec. a.C. Mozia venne anche cinta da mura lungo le quali si innalzavano torri di guardia. Le mura vennero modificate e rafforzate anche in epoche successive.
Lungo il percorso si incontrano ancora resti delle torri, in particolare la torre orientale (a base rettangolare) con la scalinata di accesso.

Delle due porte che consentivano l'accesso alla città, la Porta Nord era la principale ed è la meglio conservata. Si vedono i resti delle due torri che la fiancheggiavano. Alle spalle della porta si può ancora vedere parte del lastricato della strada principale della cittadina, con ancora i segni delle ruote lasciate dai carri.



Verso il mare invece si delinea la strada lastricata che congiunge Mozia alla terraferma (in località Birgi) e che si trova appena sotto il pelo dell'acqua. Lunga circa 7 km era larga tanto da consentire il passaggio contemporaneo di due carri, il tracciato e ancor oggi evidenziato da "cippi" che emergono dall'acqua. I più arditi possono percorrere la strada a piedi (meglio se muniti di sandali di gomma).
Oltrepassare la porta e percorrere la strada principale.

Cappiddazzu è la zona che si erge alle spalle della porta Nord. Tra le costruzioni si riconosce un edificio a tre navate che aveva probabilmente una funzione religiosa.

Una serie di pietre tombali e di urne caratterizzano la necropoli arcaica ad incinerazione. Esisteva inoltre una seconda necropoli sulla terraferma, in località Birgi, proprio in corrispondenza della "strada sommersa".

Tophet è un santuario a cielo aperto ove venivano deposti i vasi contenenti i resti dei sacrifici umani. Una pratica diffusa era l'immolazione dei primogeniti maschi.

Proseguendo si scorge in mezzo al mare l'isoletta di Schola, la più piccola tra le isole dello Stagnone, caratterizzata da tre casolari rosati e senza tetto.

Cothon è un piccolo bacino artificiale di forma rettangolare collegato al mare aperto da un canale. Non è ancora stato scoperto a cosa servisse realmente. Alcuni suppongono che potesse fungere da porto per imbarcazioni piccole e leggere che facevano probabilmente la spola tra l'isola e le navi ancorate allargo, per il carico e scarico merci.

La Casermetta è una costruzione militare di cui si vedono ancora gli elementi verticali.

La Casa dei Mosaici è chiamata così per la presenza di due bei mosaici in Ciottoli bianchi e neri, raffiguranti un grifo alato che insegue una cerva ed un leone che assale un toro.

Nel museo sono esposti oggetti rinvenuti sull'isola stessa, a Lilibeo (Marsala) e nella necropoli di Birgi, sul litorale di fronte a Mozia. Nel cortile, davanti all'edificio, si trova una serie di stele provenienti dal Tophet. Le ceramiche fenicie puniche sono di forma semplice e poco decorata, ma i vasi corinzi, attici e talioti importati, si ornano di figure nere o rosse. La collezione di sculture comprendi statuette di divinità madri, come la statuetta della Grande Madre, testine di terra Cotta d'influenza greca ed il superbo Efebo dl Mozia, figura nobile dal portamento fiero e dalla lunga veste a piegoline di sicuro influsso greco.

La Casa delle Anfore è situata alle spalle del museo, dietro le case. Deve il nome a fatto che vi hanno rinvenuto un considerevole numero di anfore.

Gli uccelli alti nel cielo si specchiano nelle acque della laguna dello Stagnone, i cui fondali brillano del rosa e del bianco dei cristalli di sale. Sullo sfondo le pale dei mulini girano lente creando un'atmosfera d'altri tempi. Questo è il suggestivo spettacolo offerto dalla Via del Sale, che congiunge Trapani a Marsala,  e che ha al centro la splendida isola di Mozia.
ll nome Motya, che significa filanda , le venne attribuito dai Fenici e faceva riferimento alla presenza di stabilimenti per la lavorazione della lana.
La riscoperta di Mozia si deve a Giuseppe Whitaker, un nobile inglese che nei primi del '900 si trasferì in Sicilia e diede vita a un fiorente commercio di esportazione di vino Marsala. L'Isola appartiene ancora oggi alla fondazione Whitaker: l'abitazione di famiglia è stata trasformata in museo, di grande interesse storico e turistico.





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