giovedì 28 gennaio 2016

PROCIDA



Procida  è un comune della città metropolitana di Napoli che comprende interamente le isole di Procida e Vivara.

Le origini del nome dell'isola si perdono tra realtà e leggenda. Tra le ipotesi più suggestive c'è quella che fa derivare il nome Procida dal greco "prochetai" cioè giace; infatti se si guarda attentamente la morfologia dell'isola ci si accorge che essa sembra giacere coricata e sdraiata nel mare. Altri ancora fanno derivare il nome da quello di una nutrice di Enea di nome Procida, che quivi fu da lui sepolta.
Recenti ritrovamenti archeologici sulla vicina isola di Vivara (un tempo collegata a Procida) fanno ritenere che l'isola fosse già abitata intorno al XVI - XV secolo a.C., probabilmente da coloni Micenei.

Sicuramente, intorno al secolo VIII a.C. Procida fu abitata da coloni Calcidesi dell'isola di Eubea; a questi subentrarono in seguito i Greci di Cuma, la cui presenza è confermata sia da rilevamenti archeologici che dalla toponomastica di diversi luoghi dell'isola.

Durante la dominazione romana, Procida divenne sede di ville e di insediamenti sparsi sul territorio; sembra comunque che in questa epoca non esistesse un vero e proprio centro abitato: l'isola fu più probabilmente luogo di villeggiatura dei patrizi romani e di coltura della vite. Giovenale, nella terza delle sue Satire, ne parla come di un luogo atto ad un soggiorno solitario e tranquillo.

Dopo la caduta dell'Impero romano d'Occidente, l'isola subì le devastazioni dei Vandali e dei Goti; non cadde invece mai in mano longobarda, rimanendo sempre sotto la giurisdizione del duca bizantino (poi autonomo) di Napoli, nel territorio della Contea di Miseno.

In quest'epoca l'isola cominciava intanto a mutare radicalmente la sua composizione demografica, divenendo luogo di rifugio per le popolazioni in fuga dalle devastazioni dovute all'invasione longobarda prima e, in seguito, alle scorrerie dei pirati saraceni. In particolare, sembra che l'isola abbia accolto le ultime popolazioni in fuga dal porto di Miseno, distrutto dai Saraceni nell'850. Tuttavia, un documento databile tra il 592 e il 602 riguardante un tributo in vino lascia intuire come già in questa epoca esistesse sull'isola un insediamento stabile.

Mutava radicalmente anche l'aspetto dell'isola: al tipico insediamento "diffuso" di epoca romana faceva posto un borgo fortificato tipico dell'età medievale. La popolazione si rifugiò infatti sul promontorio della Terra, naturalmente difeso da pareti a picco sul mare e in seguito più volte fortificato, mutando così il nome prima in Terra Casata e poi in quello odierno di Terra Murata.

Con la conquista normanna del meridione d'Italia, Procida sperimentò anche il dominio feudale; l'isola, con annessa una parte di terraferma (il Monte di Miseno, poi detto Monte di Procida), venne assoggettata alla famiglia di origine salernitana dei Da Procida (che dall'isola presero il nome), che controllarono l'isola per oltre due secoli. Di questa famiglia l'esponente di maggior spicco fu sicuramente Giovanni Da Procida, terzo (III) con questo nome, consigliere di Federico II di Svevia e animatore della rivolta dei Vespri Siciliani.

Durante la guerra del Vespro l'isola fu infatti controllata dalla flotta del re aragonese di Sicilia ben 14 anni, dal 1286 al 1299, pur subendo diversi assedi da parte degli angioini di Napoli, che riuscirono a rientrare a Procida solo quando, dopo la morte di Giovanni da Procida, il suo figlio secondogenito, Tommaso da Procida, passò nel campo angioino.

Nel 1339, comunque, l'ultimo discendente dei Da Procida vendette il feudo (con l'isola d'Ischia) alla famiglia di origine francese dei Cossa, famiglia di ammiragli fedele alla dinastia D'Angiò, allora regnante su Napoli. Dei Cossa, esponente di maggior rilievo fu Baldassarre Cossa, eletto antipapa nel 1410 con il nome (poi ignorato nella storiografia vaticana) di Giovanni XXIII.

In quest'epoca l'economia dell'isola rimaneva sempre prevalentemente legata all'agricoltura, con una lenta crescita delle attività legate alla pesca.

Durante la dominazione di Carlo V a Napoli l'isola fu confiscata all'ultimo Cossa e concessa in feudo alla famiglia dei d'Avalos d'Aquino d'Aragona (1529), fedele alla casa d'Asburgo. Il primo feudatario fu appunto Alfonso d'Avalos, marchese del Vasto e generale di Carlo V, cugino di Fernando Francesco d'Avalos.

Continuavano intanto anche in quest'epoca le scorrerie dei pirati saraceni, accentuate ulteriormente dalla lotta tra gli Ottomani e l'impero spagnolo. Molto documentata e cruenta in particolare fu l'incursione del 1534, ad opera del pirata Khayr al-Din, detto il Barbarossa, conclusasi con devastazioni e con un gran numero di Procidani deportati come schiavi, e che volle poi ripetere l'impresa nel 1544.

Il suo successore, Dragut, fece sì che l'isola fosse nuovamente devastata nel 1548, nel 1552, nel 1558 e nel 1562. Una ulteriore incursione barbaresca è documentata nel 1585.

Testimonianze di questo periodo sono le torri di avvistamento sul mare, diventate in seguito il simbolo dell'isola, una seconda cinta muraria attorno al borgo della Terra Murata e l'inizio della costruzione del Castello D'Avalos (1563), ad opera degli architetti Giovan Battista Cavagna e Benvenuto Tortelli. Un miglioramento delle condizioni di vita nell'isola si ebbe tuttavia solo dopo la battaglia di Lepanto che ridusse di molto le attività della marina ottomana nel Mediterraneo occidentale, permettendo, finalmente, la nascita nell'isola di un'economia legata alla marineria.

Nel XVII secolo l'isola venne occupata dalla flotta francese comandata da Tommaso Francesco di Savoia, sullo sfondo delle vicende legate alla rivolta di Masaniello e della nascita della seguente Repubblica.

Con l'avvento dei Borbone nel Regno di Napoli, nel 1734, si aveva intanto un ulteriore miglioramento delle condizioni socio-economiche dell'isola, dovuto anche all'estinzione della feudalità nel 1744 per opera di Carlo III, che inserì Procida tra i beni allodiali della corona, facendone una sua riserva di caccia.

In questo periodo la marineria procidana si avvia verso il suo periodo di massimo splendore, accostando a questa anche una fiorente attività cantieristica: fino a tutto il secolo successivo, vengono varati nell'isola bastimenti e brigantini che affrontano la navigazione oceanica; verso la metà del XIX secolo circa un terzo di tutti i "legni" di grande cabotaggio del meridione d'Italia proviene da cantieri procidani.

La popolazione ascende fino ad un massimo di circa 16000 persone sul finire del XVIII secolo, ovvero circa una volta e mezza la popolazione attuale.

Nel 1799 Procida prende parte alle sommosse che portano alla proclamazione della Repubblica Napoletana; con il ritorno dei Borbone, pochi mesi dopo, dodici Procidani, tra i più influenti e in vista dell'isola, vengono impiccati per questo nella stessa piazza dove era stato issato l'albero della libertà.

Negli anni successivi (e in particolare nel "decennio francese"), l'isola vede diverse volte la guerra passare sul suo territorio con pesanti scontri e devastazioni, a causa della sua basilare posizione strategica nella guerra sul mare, contesa tra Francesi e Inglesi; le cronache riportano che nel solo 1809 circa 4000 persone abbandonarono l'isola al seguito delle navi inglesi sconfitte al termine della sesta coalizione antifrancese.

Anche per questi motivi, nel 1860 la caduta dei Borbone e l'unificazione italiana vengono accolte favorevolmente dalla popolazione.

Il XX secolo vede la crisi irreversibile della cantieristica procidana, sotto la concorrenza dei grandi agglomerati industriali: l'ultimo grande brigantino procidano viene varato nel 1891.

Nel 1907 inoltre, Procida perde il suo territorio di terraferma, che diventa un comune autonomo denominato Monte di Procida.

Nel 1957 l'isola viene raggiunta dal primo acquedotto sottomarino d'Europa, mentre negli ultimi decenni, la popolazione, fino agli anni trenta decrescente, comincia lentamente a risalire.

L'economia rimane in gran parte legata alla marineria accanto alla crescita, negli ultimi anni, dell'industria turistica.



Procida è di origine vulcanica, e si possono tuttora riconoscere nei suoi tipici golfi a mezzaluna, le tracce degli antichi crateri(le fonti parlano di 5 o 7 crateri); il suolo è costituito da tufi giallastri in profondità e da uno strato di tufo grigio in superficie.

Raggiunge un'altezza massima di 91 mt ed è quindi piuttosto piatta; ma i vivacissimi abitati con le case policrome, la ricca vegetazione entro cui si fonde una tipica architettura mediterranea spontanea, il mare limpido e splendente, e le belle rocce costiere, generano scorci paesaggistici di raro fascino,e ne fanno un'apprezzata meta turistica.


Nella Piazza dei Martiri volgendo le spalle al Nord per inerpicarci nel centro storico isolano attraversiamo la strada detta del "Canale". Questo nome sostituisce nel parlato comune quello ufficiale via Vittorio Emanuele II, poiché la strada molto stretta, prima della creazione della rete fognaria, convogliava le acque provenienti dall'alto.

Percorsi cento metri si arriva di fronte ad un’edicola votiva dedicata alla Madonna, posta all'angolo tra due strade.

A destra dell’edicola votiva, oltre la Chiesa di San Leonardo (fine sec.XVI), la strada conduce al palazzo Montefusco (attuale sede del Collegio dei Traduttori), detto della "Catena" a causa dell'ostacolo posto all'ingresso per scoraggiare i passanti indiscreti ; proseguendo si arriva alla piazza della Repubblica detta "il pozzo" da una antica cisterna d'acqua sorgiva. Questa piazza molto frequentata dai giovani procidani, é il punto d'incontro tra la nuova Via Libertà che conduce al porto e la via Vittorio Emanuele II che continua verso il centro cittadino.

La strada a sinistra dell'edicola votiva prende invece il nome del Principe Umberto. Lungo la salita, sul lato sinistro, s'incontrano, dapprima, un altro accesso all'Istituto tecnico nautico "F. Caracciolo", sede del museo del Mare, visitabile la mattina dei giorni feriali, e poi sulla destra il casale Principe Umberto.

La salita termina in piazza dei Martiri, la piazza teatro delle speranze e della repressione del 1799. Qui, infatti, i rivoluzionari isolani issarono l'albero della Libertà, con i colori rosso-giallo-blu. La rivolta fu però presto soffocata nel sangue dai Borbone e dagli Inglesi, che riconquistarono l'isola prima di Napoli. E proprio nel canale di Procida (il tratto di mare tra Procida e il continente) la flotta inglese dell'ammiraglio Nelson affrontò con successo le navi della Repubblica Partenopea, comandate dall'ammiraglio Francesco Caracciolo.

A ricordare la furia reazionaria, nella piazza, c'é una stele commemorativa dei gentiluomini, dei propretari e dei sacerdoti giustiziati per aver dato il proprio contributo al governo repubblicano.

Al centro della piazza sorge il monumento dedicato ad Antonio Scialoja (1896), insigne oratore, politico, letterato, senatore del Regno d'Italia e ministro della Pubblica Istruzione.

Sulla sinistra, verso l'interno, le stradine strette raggiungono la zona detta "Vigna", per l'antica coltivazione a vigneto, dove si trova un casale chiamato "Vascello", dalla sua forma, costituito da edifici a tre livelli intorno ad una corte chiusa e scoperta.

In fondo alla piazza, la Chiesa della Madonna delle Grazie(XVII sec.), elevata a cavalcione della roccia alla sommità della Corricella, guarda il panorama che va da Oriente ad Occidente, dalla Punta dei Monaci alla Punta Pizzaco. La costruzione della cupola della chiesa fu a lungo impedita dalla nobile famiglia De Iorio, proprietaria dell’omonimo palazzo situato alle spalle della chiesa rispetto al mare, poiché ostruiva la vista panoramica verso il mare, godibile dai balconi del loro palazzo.

Superata la Chiesa di S.M. delle Grazie, si lascia sul lato sinistro il largo Castellodetto"Schianata" (poiché nel XVI sec. il terreno fu spianato), e si percorre la salita Castello che conduce ai fabbricati già destinati a Casa di reclusione (1830-1988), dominati dalla mole del Mulino, costruito nel 1764 per la molitura dei grani importati durante la carestia.

Dove la salita forma un gomito, è possibile ammirare il più caratteristico paesaggio di Procida: le case sovrapposte e variopinte di Marina Corricella, un suggestivo anfiteatro aperto sul mare; poco oltre, verso oriente, si delinea sull'azzurro del cielo il convento domenicano di S.Margherita nuova (1586-1956; in ricostruzione). Per realizzare il convento e la chiesa su quella roccia scoscesa, fu necessario elevare un complesso di piloni sormontati da archi, che formano la parte più caratteristica della Punta dei Monaci.

Si continua a salire, e sotto l'arco, a destra, è visibile la piccola cappella della Madonna del Carmine; sulle pareti ci sono alcune croci nere che segnalano la sepoltura di detenuti politici vittime di un massacro (1849); proseguendo si giunge alla Piazza d'Armi, chiusa da un lato da alte abitazioni, che un tempo servivano al popolo per opporre resistenza ai nemici invasori.

In fondo c'é il Palazzo Reale, detto anche "Castello", fatto erigere nel 1563 dal Cardinale d'Aragona Innico d'Avalos (Abate di San Michele).Tale costruzione fu per due secoli e mezzo adibita a residenza reale per poi divenire Bagno Penale nei primi decenni del 1800. Al complesso che abbraccia parte della Terra Murata(cosiddetta per le fortificazioni medioevali),a strapiombo sul mare, è stata successivamente aggiunta la costruzione del carcere moderno che si presenta sulla sinistra della Piazza d'Armi. Dal 1988 tutto il carcere è stato completamente chiuso.

Dalla Piazza d'Armi nel giorno del Venerdì Santo partono, per la Processione, i "Misteri", le caratteristiche rappresentazioni in legno e carta delle Sacre Scritture, preparate dai giovani procidani in occasione del giorno della Passione di Cristo.

Sulla destra della piazza, prima del castello, inizia la salita di Via S. Michele(dedicata al Santo protettore dell'isola), che reca ancora sui muri le tracce dell'antica "porta di mezz'omo" costruita nel XVI sec. per consentire l'accesso al borgo di Terra Murata propriamente detto. L'unica strada che menava al borgo, prima del XVI secolo,era la Via Tabaia che partiva dalla Marina del Santo Cattolico e attraverso la Vigna conduceva alla porta della terra (distrutta nel 1563 in seguito alla costruzione del castello aragonese). Dove oggi è la Piazza d'Armi c'erano scavati dei fossati che servivano a contrastare il nemico, per impedirgli di arrivare al centro antico dell'isola, una fortezza che si era sviluppata sulla collina più alta (m. 91 s/m), in evidente posizione difensiva. Quando fu costruita la porta di mezz'omo fu allargata l'antica via dei "fossi", e si costruì la salita San Michele.

Terminata la breve salita, ci si trova di fronte al Conservatorio delle orfanefondato nel 1656 per accogliere le vittime della peste.

Un punto panoramico é il belvedere di Via Borgo(sulla sinistra) che si apre a mozzafiato sul Golfo di Napoli. Da notare sulla piazzola una casa, esempio tipico di architettura locale.

Ma la costruzione più importante di Terra Murata è senza dubbio l'Abbazia di San Michele (XVI sec.), in origine convento Benedettino(VII-VIII sec.), che fu nel corso della sua storia più volte saccheggiata, distrutta e ricostruita a causa delle incursioni dei Saraceni(nome con cui i napoletani indicavano gli islamici fin dai tempi degli Arabi, ma in questo periodo i razziatori erano gli ottomani).Una di queste incursioni fu evitata grazie all’apparizione miracolosa di S. Michele(Santo patrono dell’isola) davanti alle truppe dei barbari che, per lo spavento e per la fretta di fuggire, gettarono in mare una pesante ancora, custodita tuttora nell’abbazia.

L'Abbazia custodisce numerose opere d'arte, come una tela raffigurante San Michele(opera della scuola di Luca Giordano) al centro di un suggestivo soffitto a cassettoni.

Davanti all'ingresso principale della chiesa si apre la piazza Guarracino, l'antico punto di riunione del popolo.

In questo borgo, mite e sereno, abitato da tranquilla gente, le straducce sono come un budello, tutto un andirivieni di passaggi, di corridoi, di vie coperte; un aprirsi dappertutto di porte, di scale, di finestre e di pozzi pieni d'acqua. Il fascino di quest’eccezionale località è probabilmente aumentato dalla sensazione di abbandono e di quiete che si respira.

Dalla Marina Corricella al Pozzo Vecchio: da Piazza dei Martiri s'imbocca la ripida discesa di Via San Rocco, che si insinua tra vecchie case di svariate forme, ammucchiate e addossate le une sulle altre. Fin dai tempi più remoti, questa contrada è chiamata anche "Callìa" che, dall'origine greca della parola, vuol dire bella contrada; difatti la strada costeggia una delle più belle coste procidane. In fondo, da un belvedere di questa grande curva, si può ammirare da una suggestiva posizione il borgo marinaio della Corricella, dove le case dei pescatori aggrappate sull'alta e ripida costa formano un caratteristico agglomerato, comune ad altri luoghi del Mediterraneo, ma particolare per l'utilizzo dei colori pastello giallo, rosa, azzurro, verde, bianco, utili ai naviganti a riconoscere la propria casa dal mare.

Il nome Corricella deriva dal greco "coros callos"( bella contrada), la medesima etimologia di Callìa, che ne costituisce la parte superiore.
Al borgo della Corricella possiamo accedere solo attraverso delle scalinate. La più frequentata è la "Gradinata del Pennino", quella centrale di fronte alla chiesetta di San Rocco(XV sec.), nel punto più basso dell'omonima strada. La Gradinata attraversa una fitta schiera di case in passaggi stretti ed angusti e conduce sino al molo.Questa gradinata, come il resto della Corricella, ha fatto da sfondo a tante produzioni cinematografiche. E tra le case della Corricella possiamo distinguere alcuni tra gli alberghi e ristoranti più esclusivi dell'isola.

Tornati su alla Via San Rocco, proseguendo per la contrada di Callìa si giunge alla via intitolata a Marcello Scotti, un sacerdote eruditissimo vittima della reazione borbonica del 1799. In questa strada si allineano alcuni palazzi con bellissimi giardini, che i notabili si costruirono in stile seicentesco nella parte più bella dell’insenatura della "Chiaia". Tra i palazzi,sulla sinistra, vi è una chiesa dedicata a San Tommaso d'Aquino(XVIII sec.) retta dalla Confraternita dell' Immacolata dei Turchini(cosiddetti per la mozzetta di seta). La chiesa possiede una pregevole scultura lignea di Cristo, eseguita nel 1728 dallo scultore napoletano Carmine Lantriceno.In questa scultura Nostro Signore è rappresentato nel momento della deposizione dalla Croce, supino su una semplice tavola, con la testa appoggiata su un cuscino.

Questa straordinaria opera chiude ilcorteo funebre del Venerdì Santo (la tradizionale processione dei "Misteri"), e il suo passaggio è sempre accompagnato da sentite lacrime di commozione dei fedeli isolani.

Alla fine della strada Marcello Scotti, il palazzo Emanuele ( o Scotti, sec.XIX; detto "Mamozio" dalla denominazione popolare del mascherone che orna la rosta del portone) determina un piccolo bivio.

Sulla destra s’imbocca Via Vittorio Emanuele II che va verso Piazza della Repubblica. Lungo questa strada, sulla destra, si erge l'edificio della Scuola elementare che nella pesante veste architettonica forma una nota discordante per le semplici costruzioni dell'isola. Nella piazzetta antistante all'edificio vi è un monumento dedicato ai Caduti della Patria della prima guerra mondiale (1925).

Se invece al bivio si prosegue dritto, si perviene ad una piazzetta, sulla cui sinistra è la chiesa di San Giacomo (1656), oggi sconsacrata e in ristrutturazione. Più avanti vi è la chiesetta di San Vincenzo (1571) attuale sede dell'Arciconfraternita dei Bianchi (cosiddetti per la mozzetta di seta bianca). Dopo questa chiesa sulla sinistra c'è la via dei Bagni che conduce alla spiaggia della "Chiaia", e più avanti i Giardini di Elsa, immersi in fantastici frutteti (dove Elsa Morante scrisse "L'isola di Arturo"), e attuale sede del parco letterario intitolato all’omonima scrittrice.

La strada Vittorio Emanuele II prosegue tra semplici case e sontuosi palazzi d'epoca (degno di nota è il palazzo Manzo, del 1685, sulla sinistra, il più antico datato dell'isola), fino a giungere ad un'altra chiesa, quella di San Antonio Abate (primi sec.XVII). Questa chiesa sorge all'inizio di Via Cavour ed ha alle spalle la contrada "Le corte", così detta dai cortili che la circondano. In questa contrada vi è la torre dei de Jorio, del sec. XVII, per un certo tempo utilizzata come carcere.
Di fronte alla chiesa di San Giacomo, per la Via SS.Annunziata, si passa dinanzi all'omonimo casale (a sinistra, in fondo al quale vi è l'Ospedale civico "Albano Francescano"); più avanti a sinistra si svolta nel viale Madonna della Libera che conduce alla chiesa della SS.Annunziata, ricostruita nel 1600 su un convento di Suore Benedettine.

Riprendendo la Via SS.Annunziata, ci si inoltra nella località "Starza" (nome derivato dalla grande estensione di terreno che l'Abbazia possedeva in questa zona), una delle contrade più fertili dell'isola.

Una delle stradine sulla destra (la Via Faro), conduce alla punta Pioppeto dove sorgono alcuni piccoli alberghi solitari e tranquilli nelle campagne che degradano fino al mare.Sulla punta, dal 1849, è acceso il Faro, preceduto da un belvedere con panorama sul canale di Procida.

Ritornando all’inizio di Via Faro, si percorre la Via Regina Elena, lasciandosi sulla destra le vie Rinaldi, S.Ianno e Ottimo, che, coltivate a vigneti, costituiscono la contrada del "Cottimo" (cosiddetta per il particolare rapporto di lavoro che legava i contadini ai proprietari delle terre).
La strada prosegue, col nome di Via C. Battisti, e sempre sulla destra, in località "Rotonda", s'incontra una torre cinquecentesca (la meglio conservata delle tre presenti nell'isola). Questa torre fu costruita nel XVI sec. per ordine del viceré di Napoli, Don Pietro di Toledo, per la difesa delle popolazioni contro le incursioni dei corsari. A Procida ne furono costruite altre due. Una doveva elevarsi alla fine di Via Tabaia, l'antica strada che collegava la Marina di Santo Cattolico con la Terra Murata in località "Lingua". La seconda trovasi sulla Via Giovanni da Procida, a destra, dopo la chiesa di S.Antonio, e certamente in tempi posteriori ha dovuto subire una notevole trasformazione ad uso abitazione. Le tre torri costituiscono lo stemma del comune di Procida.

Dalla torre della Rotonda una strada che attraversa vigneti e frutteti porta sulla collina del Cottimo. Giunti nella parte più elevata, si apre davanti agli occhi uno spettacolo straordinario: l'insenatura del "Pozzo Vecchio", racchiusa dalla "Punta della Serra" dietro la quale, la spiaggia di "Ciraccio", lunga un chilometro e mezzo e termina in una lingua di terra che unisce l'isola con la collina di Santa Margherita Vecchia.

Riscendendo dal Cottimo si può facilmente raggiungere la spiaggia del Pozzo Vecchio, sovrastata dal piccolo cimitero dell'isola.

Proseguendo per la strada principale, che dopo il cimitero prende il nome di Via Flavio Gioia, si ritorna nel centro cittadino, sul tratto della Via Vittorio Emanuele II che collega la chiesa di S. Antonio Abate a Piazza Olmo(da un annoso albero che qui sorgeva nei tempi passati).

Da Piazza Olmo, attraverso Via Pizzàco (sulla sinistra) è possibile arrivare ad una discesa a mare, caratterizzata da oltre 186 scalini che conducono alla spiaggia della Chiaia.

Proseguendo dritto si arriva invece alla Via Mons. Dom. Scotto Pagliara che ci porta dinanzi alla chiesa di S. Antonio di Padova fondata nel 1635 da Scipione e Giacomo Cacciuttolo, il cui stemma figura sulla facciata. Da questo punto è possibile imboccare la nuova Via IV Novembre che conduce alla punta di Pizzàco, dove sulla via Raia c'è la pretesa casa di Graziella -l'eroina del romanzo di A. de Lamartine- dove abitò lo storico d'arte Cesare Brandi.

Dallo spiazzo della chiesa è possibile anche imboccare la Via Lavadera che raggiunge il quadrivio delle Centane; qui si svolta a sinistra e superato il maestoso palazzo Guarracino (già casino di caccia dei Borboni), si perviene al belvedere delle Centane, con veduta sull'insenatura del Carbogno, nella parte suddoccidentale dell'isola.

La strada a destra della chiesa di Sant’Antonio prende invece il nome di Giovanni da Procida, un noto cittadino salernitano, protagonista dei Vespri Siciliani, che agli albori del XIII sec. era feudatario dell'isola.

Lungo la strada Giovanni da Procida troviamo sulla sinistra la cosiddetta Torre degli Infernali, presumibile castello del feudatario dell'isola, caratterizzata da una fuga di archi alla sommità del muro di cinta; di fronte, sulla destra, attraverso la via M. Morgantini in località "Campo Inglese" (dove bivaccarono i soldati inglesi durante l'occupazione del 1799) è possibile arrivare alla spiaggia di Ciraccio. In questa zona si trovano i resti di una delle tre torri dell'isola e quivi, nel 1950, sono state rinvenute tombe di età preromana.

Si ritorna sulla Via Giovanni da Procida e si prosegue raggiungendo la zone delle "parùle", terreni già paludosi irrigati con l'impiego di caratteristiche norie, che estraevano l'acqua da pozzi artesiani.

La via principale conduce alla "Chiaiolella" (spiaggiolella, piccola spiaggia), l'ultima marina dell'isola, oggi attrezzata a porto turistico, dove si trovano alcuni degli alberghi e ristoranti più frequentati dell'isola. Tra le caratteristiche case a schiera si erge il Santuario di San Giuseppe (XIX sec.).

Oltre la Chiaiolella, percorrendo Via Simone Schiano si giunge alla bellissima villa Chiaiozza, fatta costruire nell'immediato ultimo dopoguerra dal console inglese M. Wentworty Gurney in stile neoclassico.

La strada reca, poi, alla località "Socciaro", una verde e panoramica zona che guarda ad est il golfo di Napoli e ad Ovest l'isola d'Ischia.

Dalla Chiaiolella è possibile raggiungere anche la collina di Santa Margherita, dove si trovano i resti del cenobio di S. Margherita vecchia. Questa collina è collegata con un ponte all'isola di Vivara.

L’isola di Vivara, la più piccola delle isole partenopee, è ciò che resta di un cratere circolare, uno dei tanti della composizione vulcanica dei Campi Flegrei.

A guardarla bene, ciò appare con molta evidenza: l’isola di Vivara non è altro che la porzione occidentale dell’originario cratere vulcanico delimitato dalla collinetta di Santa Margherita, dall’istmo in parte sommerso che collega Vivara a Procida e da Vivara stessa. Questa particolare conca invasa dal mare forma l’attuale Golfo di Genito. Vivara ha la forma di una mezzaluna, una superficie di 0,38 Kilometri quadrati, un perimetro di 3 Km ed un’altezza massima di 109(s.l.m.), grazie alla quale è stata scelta, in diverse epoche, dapprima come torre di segnalazione mediante l’accensione di fuochi, e successivamente come territorio di passaggio dell’acquedotto campano che, dalla terra ferma, provvede all’approvvigionamento idrico di Ischia.

L’isolotto di Vivara è dal 18 Luglio 1940 di proprietà dell’Ospedale Civico Albano Francescano, grazie al lascito testamentario del dr. Domenico Scotto Lachianca, che nominò l’Ospedale Civico di Procida, erede universale dei propri beni. Nel 1972, a causa della sua scarsa redditività economica, Vivara era sul punto di essere venduta ad una società di investimento che voleva trasformarla in un villaggio turistico con porticciolo, funivia e pista di eliporto. Le proteste delle associazioni naturalistiche, WWF in testa, e l’intervento della Regione Campania evitarono tale pericolo. Anzi nello stesso anno, la Regione Campania decise di prendere in fitto Vivara e nel 1974, con decreto del Presidente della Giunta Regionale, le ha riconosciuto lo status di oasi di protezione naturale, di inestimabile valore, dove prosperano flora e fauna.

Nel 1977 fu stipulata una convenzione tra la Regione Campania e l’unione Trifoglio, un’associazione naturalistica presieduta dal prof. Giorgio Punzo, che fino al 1993, ha svolto sull’isolotto, gratuitamente, opera di salvaguardia e di educazione per i ragazzi.

Per accogliere degnamente la Principessa Maria Josè (moglie di Re Umberto di Savoia), che desiderava passeggiare per Vivara, fu costruita (negli anni ’30) l’attuale scala di accesso all’isolotto, che prima era un canalone.

Il ponte invece fu costruito nel 1957 dall’acquedotto campano, che tuttora ne è proprietario, per portare l’acqua dalla terraferma ad Ischia. All’interno del ponte, infatti, passano le tubazioni che continuano poi sotto la scala che porta a Vivara e proseguono verso Ischia per vie sottomarine, grazie al principio dei vasi comunicanti che mantengono costante il flusso.

Fino al 1999, prima cioè che i cancelli di Vivara fossero chiusi a causa dell’inagibilità del ponte, era possibile partecipare a visite guidate gratuite.

Il 15 luglio 2001, Vivara è entrata ufficialmente nel guinness book dei primati grazie al ponte tibetano più lungo del mondo, costruito tra il promontorio di S Margherita e l’isolotto di Vivara, appunto. L’evento è stato organizzato dall’associazione Sportchallengers, presieduta da Carlo Ferrari.

Il ponte, lungo 362 metri, è stato costruito dal 2 al 10 Luglio con 40 tubi innocenti, 40 morsetti, 34 picchetti di un metro e mezzo, 2500 metri di corda, 500 m di cavi d’acciaio, 1 trivella e 1 verricello.

Le sue coste, in alcune zone basse e sabbiose, altrove a picco sul mare, danno vita a diverse baie e promontori che offrono riparo alla piccola navigazione e hanno permesso la nascita di ben tre porticcioli sui versanti settentrionale, orientale e meridionale dell'isola. Gran parte del suo litorale viene tutelata dall'area marina protetta Regno di Nettuno.
L'isola si trova attualmente in un periodo di forti trasformazioni nella sua struttura economica. La marineria, sebbene in forte calo, rimane ancora uno dei maggiori settori di occupazione, con persone di tutte le fasce di età impiegate come ufficiali di coperta o di macchine su navi mercantili delle maggiori compagnie marittime di tutto il mondo, continuatori di una tradizione secolare. Tuttavia negli ultimi anni, la sempre maggiore automazione presente in ambito meccanico, unita ad un sempre maggiore utilizzo di lavoratori di paesi emergenti nell'ambito del trasporto marittimo, ha fatto sì che questa fonte di reddito perdesse importanza relativa nell'isola.

Accanto alla marineria, negli ultimi anni si è cercato di favorire lo sviluppo dell'industria turistica, sebbene in questo settore i risultati, pure incoraggianti, siano stati inferiori alle attese, soprattutto se guardati sullo sfondo di vicine mete turistiche quali Ischia, Capri o Sorrento. Ciò sicuramente non per la mancanza di attrattive (in particolare storiche o naturalistiche), ma più probabilmente per l'assenza di una solida tradizione imprenditoriale in tal senso, nonché per la forte carenza di strutture ricettive.

Non prevista, si è dunque affiancata al turismo e alla marineria la nascita di un ceto impiegatizio che si manifesta soprattutto attraverso fenomeni di pendolarismo verso l'isola d'Ischia o la vicina terraferma, fenomeno assolutamente nuovo nella storia economica dell'isola.

Quote marginali della popolazione attiva si dedicano alla pesca commerciale, con una discreta flotta peschereccia, mentre quote ancora inferiori sono dedite alla cantieristica o all'agricoltura.

Fra l'alto medioevo e il XVIII secolo si sviluppa, nell'isola di Procida un particolare esempio di architettura generalmente definita spontanea ma più correttamente dal carattere popolare, legata cioè alla comunità del luogo, che si sviluppa secondo codici costruttivi ben codificati.

Tra gli elementi più caratteristici ci sono sicuramente l'arco e la scala rampante (o a dorso d'asino). L'arco ha funzione di ingresso (o meglio, di passaggio tra la strada e l'abitazione), mentre ai piani superiori delimita un particolare terrazzo, chiamato localmente vèfio (da un antico tedesco waif), vero simbolo dell'abitazione tipica dell'isola. La scala rampante, appoggiata sull'arco stesso, risulta la soluzione più comune per raggiungere i piani superiori.

La volte sono sempre a vela o, più frequentemente nelle zone rurali, a botte.

Altro elemento caratteristico è rappresentato dal colore: le costruzioni sono generalmente dipinte con un certo gruppo di tonalità pastello ben definite, assortite in maniera che due case vicine molto difficilmente abbiano colori simili, con il risultato di una policromia caratteristica. Secondo la tradizione, tale particolarità deriva dal desiderio dei pescatori di voler riconoscere la propria casa anche lontano dal mare. Tale ipotesi tuttavia non ha mai avuto alcuna conferma.

L'architettura popolare si radica sul territorio con uno schema urbanistico particolare ed originale che, riprendendo modelli di sviluppo dell'epoca (dall'impianto svevo di Terra Murata al sistema delle grancìe rurali di matrice benedettina fino all'edilizia di strada settecentesca) li miscela in una sintesi legata all'ambiente naturale locale ed alla cultura materiale.




mercoledì 27 gennaio 2016

ISCHIA



Ischia è un'isola dell'Italia appartenente all'arcipelago delle isole Flegree, della Città metropolitana di Napoli.

L’isola fu dai Latini chiamata Pithecusa, nome che la tradizione fa derivare dal Greco “pithos” (vaso), cioè l’Isola dei vasai. Altra interpretazione, del tutto fantasiosa, collega il nome a “pithekos” (scimmia). È stato proposto che il nome descriva una caratteristica dell’Isola, ricca di pinete. “Pitueois” (ricco di pini), “pituis” (pigna), “pissa, pitta” (resina) appaiono termini descrittivi dai quali potrebbe derivare Pithecusa, che significherebbe dunque “isola della resina”, una importante sostanza usata, tra l’altro, per rendere impermeabili i vasi vinari (Strabone, Geografia, V,1,12). L’espressione “insula visca”, con l’aggettivo greco “(v)ixos” (appiccicoso) e la consueta caduta della “v” iniziale, fornisce una probabile origine del moderno “Isola d’Ischia”. Ai piedi del Vesuvio coperto di pini, il nome popolare di Ercolano era “Resìna”, forse reminiscenza di un antico mercato di questo prodotto, similmente al toponimo “Pizzo” in Calabria, da dove proveniva la resina migliore, la “pece brettia” ottenuta dai pini della vicina Sila (Strabone, Geografia VI.1.9). (Tripodi G., Vinci F. Tracce di una arcaica geografia descrittiva in alcuni toponimi mediterranei. Atti Accad. Peloritana dei Pericolanti, Messina 86, 310-317, 2010).

I Greci chiamarono la loro colonia sull'isola Pithekoussai, nome dalla etimologia incerta. Secondo Senagora il nome deriverebbe da pithekos, scimmia, e alluderebbe al mito dei Cercopi, abitanti delle isole flegree trasformati da Zeus in cercopitechi. Plinio il Vecchio (Nat. Hist. 111, 6.82) fa invece derivare il nome da pythos, anfora, teoria suffragata da ritrovamenti archeologici che testimoniano la produzione greco-italica di ceramiche (e in particolare di anfore da vino) nell'isola e nel golfo di Napoli.

Le prime testimonianze del nome dell'isola risalgono all'anno 812, in una lettera di Papa Leone III nella quale informa l'imperatore Carlo Magno di devastazioni occorse nell'area, chiamando l'isola Iscla maior «Ingressi sunt ipsi nefandissimi Mauri in insulam, quae dicitur Iscla maiore, non longe a Neapolitana urbe». Alcuni studiosi ricollegano il termine alla parola di origine semitica I-schra, "isola nera" che in sé potrebbe anche essere accettabile se non fosse che dal punto di vista geologico l'isola per i suoi prodotti vulcanici appare soprattutto bianca. Peraltro la frequentazione fenicia dell'isola è archeologicamente documentata in epoca molto antica. Nella diffusione in Campania ed Etruria meridionale, fin dall'VIII secolo a.C., di oggetti di produzione o ispirazione egiziana, «hanno certo parte i mercanti fenici installati a Ischia e poi frequentatori delle coste tirreniche».

Il nome Aenaria, utilizzato dai latini, è legato alle officine metallurgiche (da aenus, metallo) localizzate sulla costa orientale, sotto il Castello.

L'isola d'Ischia era abitata fin dal Neolitico, come dimostrano i vari reperti ritrovati ad esempio sulle alture di punta Imperatore, nella frazione di Panza, nella zona sud-ovest dell'isola.

Il ritrovamento fortuito di muri a secco, avvenuto nel 1989 a seguito di uno smottamento, in località punta Chiarito, avvenuto sempre nella frazione di Panza, ha dato l'avvio tra il 1993 ed il 1995 ai lavori di scavo che hanno permesso il ritrovamento di una fattoria greca tenuta da agricoltori benestanti, come dimostra la buona fattura dei vasi che sono stati rinvenuti ed ha permesso di anticipare lo sbarco dei primi coloni greci di circa venti anni rispetto all'originaria ipotesi, cioè intorno al 790, 780 a.C. Inizialmente, si riteneva, infatti, che lo sbarco fosse avvenuto proprio a Monte Vico, nel comune di Lacco Ameno, dove i coloni euboici arrivati da Eretria e Chalkis nell'VIII secolo a.C., avrebbero stabilito un emporio per il commercio con gli Etruschi della terraferma.

Grazie agli scavi del 1993, si è capito che in realtà, i primi coloni si stabilirono a S-O dell'isola, sulle alture di punta Chiarito, a Panza, frazione del comune di Forio. La baia di Sorgeto, che si trova ai piedi di punta Chiarito, offre un riparo ideale per le navi, soprattutto dai venti di scirocco, un requisito importante per i Greci, nella scelta di un approdo. Tale requisito, infatti, non è presente nella zona di monte Vico e costituiva per gli studiosi una non facilmente spiegabile anomalia.

A vent'anni circa dall'originario sbarco, colonizzata buona parte dell'isola, viene fondata la colonia di Pithecusa, il cui centro principale sarà, però, sulle alture di monte Vico, nella zona nord dell'isola, prospiciente il continente, in modo da avere un più rapido scambio con la terraferma. Con il suo porto la colonia fece fortuna grazie al commercio del ferro con il resto dell'Italia; nel periodo di massimo splendore contava circa 10.000 abitanti.

Nel 1953, nella necropoli di San Montano a Lacco Ameno, l'archeologo tedesco Giorgio Buchner ritrovò la coppa di Nestore, risalente al 725 a.C. circa. Costituisce il più antico esempio pervenutoci di poesia scritta in lingua greca.

Nel 474 a.C. l'isola è occupata dal tiranno siracusano Gerone I, nel quadro delle sue campagne espansionistiche.

Dal IV secolo a.C., dopo le guerre sannitiche, l'isola passò con Napoli sotto il dominio romano, e divenne centro di attività commerciali e manifatturiere. Oltre al sito di origine greca di Pithecusae (località Mazzola sopra Lacco Ameno), è stato infatti individuato in località Carta Romana, nello specchio d'acqua antistante l'isolotto del Castello Aragonese, un insediamento industriale comprendente una fonderia di piombo e stagno (da cui il nome di Aenaria) e una fabbrica di vasellame, i cui reperti più significativi, lingotti di piombo iscritti (di provenienza spagnola), stagno e taluni oggetti ceramici, sono esposti nella sala VIII del Museo archeologico di Pithecusae a Lacco Ameno. Il sito, a 5-7 metri sotto il livello del mare, sprofondò per bradisismo verso il 130-150.

Nell'immaginario latino l'isola era associata anche alla figura di Enea, che qui avrebbe fatto scalo. Virgilio la identificò con Arime, isola citata nell'Iliade (II, 783).

Qui trovò rifugio Gaio Mario inseguito da Silla. Per punire i napoletani di ciò, Silla sottrasse l'isola al loro dominio assoggettandola direttamente al Senato di Roma. Qualche decennio dopo, tuttavia, Augusto la restituì alla città di Napoli, tenendo per sé la prediletta Capri.

Con la decadenza dell'impero, Ischia venne minacciata dai saccheggi barbarici da parte di Visigoti (410 circa) e Vandali (dopo il 430). Nel 476, con la caduta dell'Impero d'Occidente, Ischia entrò a far parte del dominio di Odoacre, mentre nel 493 entrò a far parte, con l'intera penisola, del regno ostrogoto di Teodorico il Grande. Intorno al 536 fu conquistata dagli eserciti bizantini capitanati da Belisario. In seguito alla riorganizzazione dell'Italia bizantina conseguente all'invasione longobarda (568), Ischia entrò a far parte del ducato di Napoli, ducato bizantino dipendente dall'Esarcato d'Italia.

Tra il IX e il X secolo l'isola è esposta alle scorrerie del saraceni: di quella di agosto dell'812 si ha memoria in una lettera del papa Leone III a Carlo Magno; un'altra è ricordata nell'847, quando alcuni navigli pirati rifugiati ad Ischia per una tempesta sono distrutti dai sorrentini che avevano in precedenza subito attacchi, e un'altra ancora nel 991.

I saraceni non erano interessati a conquiste permanenti: le loro scorrerie erano infatti finalizzate al saccheggio e non all'occupazione. Così gli ischitani svilupparono varie tecniche di resistenza, il cui fulcro era il castello, fortificato già da Gerone I nel V secolo a.C.: all'avvistamento delle imbarcazioni saracene gli abitanti dei casali di campagna venivano avvisati dal suono della "tofa", usata a mo' di corno, che si diffondeva da un casale all'altro, e si mettevano in salvo come potevano - rifugiandosi nel castello, se abbastanza vicini, o in grotte scavate nel tufo, o disperdendosi per le campagne.

Fino al 1130 Ischia segue le sorti di Napoli sotto i duchi, finché nel 1135, Ruggero il Normanno saccheggia l'isola, nuovamente invasa da Tancredi, il cui figlio Guglielmo III fu vinto da Arrigo il Severo. Nel 1194 genovesi e pisani invadono l'isola e, occupato il Castello Aragonese (presente sull'isola dal 474 a.C.), consegnano l'isola ad Arrigo VI.

La dinastia sveva prende il governo dell'isola nel 1214.

Prima che Carlo I, duca d'Angiò, fosse incoronato re di Napoli, Ischia, tenuta dai conti di Ventimiglia dopo la caduta di Manfredi, è invasa dalla galee pisane con lo scopo di provocare una sommossa contro Carlo I d'Angiò a favore di Corradino. Non riuscendo nell'intento, i pisani si abbandonano a massacri e ruberie. Re Carlo I, vittorioso dopo la battaglia di Tagliacozzo (1268), ordina un'inchiesta e convoca rappresentanti dei vari casali dell'Isola che confermano la loro fedeltà al nuovo re. Nel testo della deposizione compaiono:«11 uomini de casale Moropani (poi diventato Buonopane), 7 de casale de Vico (Lacco Ameno), 11 de casale Furio (Forio), 5 de Villanova (Panza), 22 de guarno (guarnigione nel castello), 3 de Sancto Sosso (sul continente)».

Con Carlo I inizia l'opera di fortificazione del Castello Aragonese e la sua dinastia procede al riordino delle vecchie strutture del governo dell'isola. Nel 1282, però, accesa la scintilla in Sicilia da Giovanni da Procida, gli isolani cacciano gli Angioini e acclamano re Pietro III d'Aragona, marito di Costanza di Hohenstaufen, l'unica figlia di Manfredi, sfuggita a Carlo d'Angiò che per punire l'isola, la invade nuovamente. Alla morte di Carlo I d'Angiò, l'isola passa nelle mani del nipote Carlo Martello, in attesa del legittimo erede Carlo lo Zoppo. Il 22 giugno 1287, Ischia passa sotto il governo di Carlo II d'Angiò detto "lo Zoppo", che grava di un pesante dazio il vino uscente dall'isola. Gli isolani indignatisi sotto la guida di Piero Salvacossa hanno la meglio sulle galee angioine inviate a sedare gli animi. Ma nel 1299 Carlo II d'Angiò invia 400 sgherri sull'isola allo scopo di riconquistarla facendo sgozzare il Salvacossa. Nel gennaio del 1301 una terribile eruzione squassa l'isola che abbandonata da molti isolani si ripopola solo nel 1305. Nel 1309 succede a Carlo II, Roberto d'Angiò detto il Saggio e alla morte di questi Giovanni I d'Aragona. La lotta per il trono si accende tra Luigi d'Angiò e Carlo III di Durazzo. Il primo occupa Ischia nel 1385 riconquistata l'anno seguente dal figlio di Carlo II, Ladislao I. Alla sua morte, gli succede Giovanna II senza prole. I baroni allora chiamano il figlio di Luigi d'Angiò, Luigi III, ma Giovanna II gli oppone Alfonso V di Aragona.

Alfonso V di Aragona approda a Ischia nel 1423, su invito di Michele Cossa, cittadino d'Ischia e IV signore di Procida e occupato il Castello Aragonese, lo ristruttura e vi si stabilisce in attesa di poter conquistare anche Napoli. Nel 1441, partendo da Ischia, assedia Napoli dove può trionfalmente entrare il 26 febbraio del 1443. Per ricompensare gli isolani dell'appoggio fornito, il sovrano concede ampi favori all'isola. Innamorato dell'isola, ne affida il governo alla sua favorita Lucrezia d'Alagno al cui fianco scorrazza per i boschi di Campotese a Panza e di Piano Liguori a Ischia trasformati in sue riserve di caccia. Lucrezia d'Alagno affida a sua volta il governo dell'isola, al cognato Giovanni Toriglia o Torella. Morto nel 1458 e lasciato sul trono il figlio Ferdinando I, i baroni napoletani e lo stesso Toriglia alzano bandiera angioina. Lucrezia è costretta all'esilio, mentre si attende l'arrivo di Giovanni d'Angiò, figlio di Renato d'Angiò. Il figlio di Alfonso V di Aragona, re Ferrante o Ferdinando, desideroso di difendere i privilegi degli aragonesi, ordina ad Alessandro Sforza di occupare l'isola e di cacciare il Toriglia. Ferrante però è sconfitto da Giovanni d'Angiò a Troia, in Puglia e si rifugia al Castel dell'Ovo a Napoli per poter poi riparare ad Ischia. Ma l'isola, nel frattempo, era stata rioccupata dal Toriglia, grazie all'aiuto dei Cavalieri di Rodi. Ferrante tuttavia non si perde d'animo ed insieme ad Alessandro Sforza, con due galee fa rotta verso Ischia. Qui ha ragione sui ribelli ed entra trionfalmente nel Castello Aragonese. Nel 1494, muore Ferrante. Il figlio Alfonso II si prepara a fermare Carlo VIII che di lì a poco incombe sull'Italia. Abdica perciò a favore del figlio Ferrante II (o Ferdinando II).

Carlo VIII scende trionfante lungo la Penisola e Ferrante II, caduta Napoli in mano francese si rifugia a Ischia, portando con sé la vecchia regina Isabella, la figlia Giovanna (divenuta poi sua moglie), Innico d'Avalos, Giovanni Pontano e Jacopo Sannazzaro. Vi resta un mese, facendo rotta poi verso Messina dove lo attende il fratello. Affida il governo dell'isola a Innico d'Avalos, marchese del Vasto, che rifiuta di arrendersi a Carlo VIII. Questi affida a Ludovico Sforza, il compito di assaltare l'isola.

Inutilmente il 6 giugno 1496, Ludovico Sforza prova ad assalire la roccaforte isolana. Innico II d'Avalos eroicamente mette in fuga l'assaltatore. Ludovico Ariosto, celebra l'eroismo di Innico d'Avalos nel suo Orlando Furioso:

« Vedete Carlo ottavo, che discende da l'Alpe, e seco ha il fior di tutta Francia, che passa il Liri e tutto 'l regno prende senza mai stringer spada o abbassar lancia, fuor che lo scoglio ch'a Tifeo si stende su le braccia, sul petto e su la pancia; che del buon sangue d'Avalo al contrasto la virtù trova d'Inico del Vasto. »
(Canto XXXIII ott.24)
Ferrante II torna dall Sicilia, premia Innico II d'Avalos e la città di Ischia, ma il 7 ottobre 1496, muore, lasciando il regno allo zio Federico che non ha la forza di fermare la lotta tra Francia e Spagna per il trono di Napoli. Affida perciò il governo del regno al generale d'Aubigny e si trasferisce con la famiglia ad Ischia. Giuntovi, affida a titolo feudale l'isola a Innico II d'Avalos, con tutte le riserve, i boschi ed il padiglione di caccia che possiede nei tenimenti di Panza.

Fa incidere a lettere d'oro sul frontespizio della cattedrale del Castello Aragonese l'iscrizione latina: Quorum eximia servitia in omni tempore nostra fortuna elucescunt. Catturato e tradotto in Francia, Federico, che è trattato da amico da Luigi XII scrive a Innico II d'Avalos di cedere Ischia a Luigi XII. Innico II d'Avalos rifiuta e con sua sorella Costanza d'Avalos di prepara a respingere l'attacco francese. Muore in battaglia nel 1503 e Costanza d'Avalos, nuova castellana d'Ischia, oppone una fiera resistenza ai francesi per ben 3 anni.

Vinti i francesi, il regno passa nelle mani di Ferdinando il Cattolico, che grato per la fedeltà dimostratagli, affida il governo dell'isola a Costanza d'Avalos che si circonda di poeti e cavalieri, trasformando il Castello Aragonese, nel cenacolo dei letterati e degli artisti del tempo. Ferdinando il Cattolico le rende visita nel 1507. Il regno di Napoli passa nelle mani di Giovanna II, madre di Carlo V. Costanza d'Avalos richiama ad Ischia, suo nipote Ferrante Francesco d'Avalos, figlio di Innico II d'Avalos, che qui sposa, il 27 dicembre 1509, Vittoria Colonna, marchesa di Pescara.

È ad Ischia che Vittoria Colonna apprende che il marito è morto nella battaglia di Pavia nel 1525. Ischia è perciò ora sotto il controllo del cugino, Alfonso d'Avalos, marchese del Vasto. Nel gennaio del 1538 Alfonso d'Avalos è nominato governatore della Lombardia e lascia per sempre l'isola.

Nel 1535 Carlo V era sbarcato a Napoli per celebrare il trionfo di Alfonso d'Avalos che sotto le mura di Tunisi aveva sconfitto centocinquantamila turchi comandati dal feroce Barbarossa. Questi per vendicarsi dell'affronto subito un decennio prima, il 22 giugno 1544, giunto nella baia della Scannella devasta il casale di Panza e da qui Forio e altri casali dell'isola. Circa duemila furono gli isolani uccisi o deportati come schiavi. Un cronista dell'epoca annota: "Anno Domini 1544 a dì 25 de junio in Sessa ce fo nova che la armata del Turcho de Barbarossa Capitanio de dicta armata havea abrusciata Proceta et un Casale de Ischia, quale haveano fatto presuni certi cristiani in su l'armata...".

L'isolotto su cui sorge il Castello Aragonese è collegato con un istmo all'antico borgo di mare di Ischia Ponte o borgo di Celsa. Questa piccola isola nell'isola pare essersi originata tra i 280.000 e i 340.000 anni fa in seguito ad un'eruzione vulcanica.

Qualche autore attribuisce la costruzione del Castello a Gerone, tiranno di Siracusa, che nel 474 a.C., avrebbe edificato e fortificato una fortezza su questa roccia vulcanica, con accesso dal mare. Da qui il nome ‘Gironda’ con il quale si identifica il castello. Sulle basi di questa antica fortezza sarebbe poi stato costruito intorno al 1438, per volere di Alfonso V di Aragona, il Castello che vediamo oggi, con accesso dall'isola. Ma secondo la tesi più accreditata, il nome Giron-Gironis deriverebbe dalla naturale morfologia dell'isolotto che si può circumnavigare.
Il castello sarebbe in realtà nato come postazione strategica militare intorno al V secolo, in epoca bizantina, quando nell’ambito dell’ordinamento territoriale, vengono eretti, spesso sulle coste, nuovi "castra o "castella", cui la flotta assicura rifornimenti e aiuti. Il nome che gli viene dato, "castrum Gironis", starebbe ad indicare proprio la presenza sullo scoglio di una guarnigione.

Dal 1433, con Alfonso d’Aragona detto ‘il Magnanimo’, ha inizio una serie di interventi grazie ai quali il Castello acquista una nuova fisionomia e assume un ruolo strategico, politico e culturale sempre più importante. Vengono restaurate le mura esterne e le costruzioni interne, al ponte di legno si sostuisce il ponte in muratura che tuttora congiunge l’isolotto a Ischia Ponte. Nel soffitto vengono aperti dei fori, da cui, in caso di attacchi, si lanciano sui nemici pietre, piombo fuso e acqua bollente.
Inizia in quest’epoca anche la frequentazione di artisti e letterati; il Castello diventa centro di vita di corte, sede di feste e convivi, oltre che luogo di rifugio per la nobiltà in tempi di guerra e di assedio dell’isola.

La povertà degli insediamenti sull’isola e le condizioni di precarietà per i continui attacchi alterni di Angiò e Aragonesi, ma anche per le frequenti incursioni barbariche, inducono a privilegiare sempre più, nel corso degli anni, il Castello come sede di residenza e di riparo. Il ruolo del Castello come luogo di difesa e punto di comunicazione con Napoli diventa così importante che Scipione Mazzella si espresse così: ‘nell’isola vi è una fortezza così grande che è tenuta la seconda chiave del Regno’.
Per molto tempo la storia di Ischia è indissolubilmente legata al Castello, capace di accogliere e offrire riparo anche a più di cinquemila persone.

Nel 1509 si celebrano al Castello le nozze tra Ferrante d'Avalos e Vittoria Colonna, la quale, rimasta vedova, compone proprio ad Ischia i sonetti amorosi che l'hanno resa famosa. Si racconta che questi versi impressionarono tanto Michelangelo, che andò ad abitare nella Torre del Guevara, situata di fronte al Castello e conosciuta, infatti, anche come “Torre di Michelangelo”.

Il ‘700 segna l’inizio della decadenza dell’importanza del Castello, prima abbandonato dalle famiglie nobili e sempre più isolato dal resto dell’isola, quindi distrutto da un bombardamento nel 1809 e poi privatizzato, diventa monumento abbandonato, che per molto tempo gli stessi Ischitani ‘guardano a distanza’.

Ma nella memoria di tutti resta sempre viva la storia di un Castello, cenacolo di artisti, letterati e poeti, che ha attraversato inespugnato secoli di storia, resistendo a tutti gli assalti e offrendo riparo ad abitanti, contadini e avventori. Sicuramente, uno dei castelli più belli e ricchi di storia del mediterraneo.

Il borgo antico di Ischia Ponte, anche detto Borgo di Celsa per la presenza dei gelsi, è un antico centro di marinai e pescatori, la cui esistenza è documentata già nel XIII secolo.
Unico centro di Ischia, di tradizione più che altro contadina, da sempre dedito alla pesca, il Borgo ha avuto una grande espansione alla fine del ‘700, con il cessare delle incursioni dei pirati, quando l’attenzione si distoglie dal Castello, fino ad allora centro primario di vita e di riparo, e torna a concentrarsi sulla terraferma.
Per tutto il XVIII Ischia ponte è la città più ricca e prosperosa dell’isola, il suo destino va progressivamente staccandosi da quello del Castello che nel frattempo vive un periodo di decadenza, in seguito all’abbandono delle famiglie nobili e benestanti.
Nel tempo la struttura del borgo, con vicoli stretti, palazzi signorili alternati a caratteristiche casette basse, si è conservata inalterata, così come le famose via Roma e Corso Vittoria Colonna che conducono alla "Mandra", l’antico villaggio dei pescatori.



Ha invece attraversato diverse vicissitudini la bellissima Cattedrale dell’Assunta, costruita nel 1301 e rimaneggiata nel 1700, quindi bombardata dagli Inglesi nel 1809. La cripta, decorata con affreschi della scuola di Giotto, conserva ancora le spoglie delle famiglie nobili dell’isola.
Lo scalo di Ischia ponte è rimasto il preferito dagli Ischitani per molto tempo anche dopo l’apertura del Porto borbonico. Questa predilezione ha contribuito ad alimentare la vita e conservare florida l’attività del centro.

Nel 1853 Ferdinando II di Borbone, re delle Due Sicilie, seguendo l’esempio di suo nonno Ferdinando IV, si reca a Ischia per soggiornare a palazzo Buonocore, nei pressi dell’antico lago del bagno.
Il posto gli piace tanto che decide di trascorrervi buona parte del suo tempo libero e per raggiungere più comodamente il palazzo, decide di far predisporre direttamente lì il posto per l’attracco, anziché passare per Ischia Ponte.
L’incarico di trasformare l’antico lago vulcanico in porto viene dato a Luigi Oberty e Domenico Milo, successivamente a Camillo Quaranta. Il progetto prevedeva l’eliminazione della striscia di terra che separava il lago dal mare. I lavori hanno inizio nell’estate del 1853 e coinvolgono buona parte della popolazione, oltre a un gran numero di prigionieri ‘ospiti’ delle carceri del Castello.
Nel luglio 1854 il real piroscafo Delfino fa il suo ingresso trionfale nel nuovo porto, ma l’inaugurazione ufficiale è a settembre dello stesso anno. I festeggiamenti per il grandioso evento, cui prendono parte la famiglia reale e tutta la popolazione di Ischia, si protraggono per diversi giorni.
Nell’arco di pochi decenni cambia notevolmente l’immagine della piccola Villa de'Bagni, da luogo delle sorgenti, con vasche a cielo aperto a capitale dell’isola. Nascono nuovi edifici, soprattutto lungo l’arteria principale, corso Vittoria Colonna, mentre piazza Croce diventa il punto di incontro, cuore della vita e delle attività. La Casina Reale conserva il suo nome, ma viene trasformato in stabilimento militare. Tra le diverse misure che negli anni contribuiscono a promuovere ed abbellire il posto, fondamentali sono la costruzione delle Antiche Terme Comunali e l’operazione del botanico di corte Giovanni Gussone che, con le famose pinete, ha riportato il verde sulle vicine zone brulle dell’Arso.
Nel secondo dopoguerra Ischia Porto registra uno sviluppo velocissimo, con grande afflusso turistico attirato soprattutto dalle sue bellezze naturali.

In prossimità di Ischia Ponte, si trova la baia di Cartaromana, famosa per la sua bellissima spiaggia ed i caratteristici scogli, ma soprattutto per la storia che la ricollega all’antica Aenaria, florido insediamento romano tra il I sec. a.C.e il IV sec. d.C. oggi sommerso nelle acque della baia.
L’etimologia del nome Aenaria è stata spesso associata alla leggendaria figura di Enea, così come al latino aenum, metallo, ipotesi questa avvalorata dal rinvenimento di reperti metallici nelle acque tra il Castello e i vicini scogli di Sant’Anna. Un’altra tesi fa invece risalire l’origine del nome al greco e significherebbe ‘isola del vino’.
Dai reperti, è stato possibile accertare con sicurezza lapresenza di fabbriche e terrecotte, di botteghe per la lavorazione dei metalli, prove di una grande operosità industriale, legata alla fervida vita del porto. Prove dell’intensa attività commerciale sono le anfore orientali, le coppe etrusche e i molti altri reperti trovati sul fondo marino delle ‘plagae romanae’.

La città di Aenaria appare sostanzialmente divisa in due grandi quartieri: la parte alta, prevalentemente residenziale, con le fabbriche artigianali e la necropoli, e una parte bassa dedicata all'industria e al commercio.
Ma i Romani fanno di Ischia anche e soprattutto un luogo di villeggiatura, valorizzando la presenza delle sorgenti termali. Dalle incisioni sui reperti risulta che da ogni parte dell’impero si accorreva a Aenaria per risalire alla sorgente di Nitrodi a “rinfrescarsi, rinnovarsi la pelle, curarsi i capelli e ricercare la vageggiata fons juventutis”. In quest'epoca, tuttavia, l'isola viene flagellata da terremoti, frane e almeno quattro eruzioni vulcaniche. Questo continuo rischio sismico e vulcanico sembra essere il motivo per cui, pur amandola tanto, i nobili Romani non costruiscono sull'isola edifici termali monumentali né ville signorili. E sempre questo sarebbe il motivo per cui Augusto arriverà a cederla ai napoletani in cambio di Capri, molto più piccola e priva di sorgenti termali.

Tra il 130 e il 150 d.C., Aenaria scompare bruscamente, sommersa da una colata lavica. in seguito a un assestamento del terreno.
Sempre a Cartaromana si trova la Torre del Guevara, uno dei monumenti simbolici di Ischia insieme al Castello. La Torre nasce probabilmente nell'ambito del progetto di fortificazione dell'isola predisposto da Alfonso d'Aragona, che nel 1433 prevedeva l'edificazione di torri lungo la costa. La sua costruzione è attribuita a Don Giovanni di Guevara, venuto dalla Spagna al seguito di Alfonso I d'Aragona, o ad un altro membro della stessa famiglia, Don Francesco de Guevara, fatto governatore a vita dell'isola alla fine del 1400, da Carlo V.

La torre è sempre stata, fin dagli inizi dell'800, di proprietà dei Guevara, duchi di Bovino, ma è anche comunemente detta ‘Torre di Michelangelo’ perché la tradizione racconta che l’artista vi abbia a lungo soggiornato per vivere accanto a Vittoria Colonna, residente al Castello, cui sarebbe stato legato da una segreta relazione amorosa.

L'Acquedotto, detto dei Pilastri, si trova al confine tra il Comune d'Ischia ed il Comune di Barano. L'acquedotto viene iniziato dal cavaliere Orazio Tuttavilla nel 1580, ma i lavori si interrompono e restano sospesi per quasi un secolo, fino al 1673, quando Mons. Girolamo Rocca riprende l'esecuzione dell'opera volta a portare a Ischia Ponte l'acqua della sorgente di Buceto. Il costo dei lavori viene sostenuto dal popolo, cui viene imposta una forte tassa sui cereali. A lavori compiuti, però il sacrificio è dimenticato da tutti e si dice che la storia sia stata così riassunta dallo stesso monsignor Rocca:
HAS SUDAVIT AQUAS CERERIS PATIENTIA CURTAE EDOCUITQUE FAMEM FERRE MAGISTRA SITIS, cioè "Queste acque si sono ottenute col sacrificio sul cibo: la sete, da buona maestra, ha insegnato a sopportare la fame".
Le pinete, oasi di verde nel centro di Ischia, sono tre piccoli parchi nati sul terreno brullo lasciato dalla famosa eruzione dell'Arso del 1302, che seppellì per sempre l'antica e prospera “Città Plana” o “Aenaria”.
Cinque secoli dopo, nel 1850, quel paesaggio arido viene reso nuovamente verde dal botanico di corte Ferdinando II dei Borbone, Giovanni Gussone, che sceglie per l'operazione le conifere, piante tipicamente poco esigenti. In particolare la scelta ricade sul pino domestico o Pinus pinea L., dalla caratteristica chioma ad ombrello.
La scelta è vincente e in poco tempo le pinete crescono e rivestono di verde le zone rocciose. Alla loro ombra, si è poi sviluppato un insieme spontaneo di piante arbustive tipicamente mediterranee, che hanno trovato un habitat tanto ideale da aver dato vita a una vegetazione bellissima, rigogliosa, unica. Ischia gode infatti di condizioni climatiche speciali, il suo clima mediterraneo è reso particolarmente mite da una serie di fattori geografici, geologici e d'esposizione.
Pinete come la Villari e la Nenzi Bozzi sono diventate famose per la loro bellezza. Forse la più interessante, prevalentemente di pino domestico e di pino marittimo, è quella nata proprio sui terreni delle lave dell’Arso, dove ai pini si alternano grandi ammassi di pietra lavica che rendono ancora più affascinante lo spettacolo.
Si trovano molti sempreverdi o sclerofille, come il leccio, pini domestici, ma anche pini marittimi e pini d'Aleppo. Numerose sono anche le quercie, diversi gli arbusti tipici del sottobosco, come il mirto, il corbezzolo, il lentisco, il lauro, il leccio e l'erica. Le erbacee sono particolarmente interessanti sia per il ruolo che hanno nella formazione della macchia sia per le caratteristiche medicinali che alcune posseggono. Infine Ischia ha anche elementi di vegetazione esotica come agavi, fichi d'India o mesembriantemi.

Il palazzo Reale viene fatto erigere dal protomedico Onofrio Buonocore nel 1735 e diventa presto la meta preferita di villeggiatura dei nobili.
Dopo la rivoluzione del 1799 viene acquistata dai Borbone. Ferdinando IV re di Napoli e delle Due Sicilie, la utilizza principalmente come base per cacciare e pescare nell’antico Lago del bagno, mentre suo nipote, Ferdinando II, estende il suo interesse a tutta l’isola: trasforma in porto l’antico lago e dà inizio alla costruzione delle Antiche Terme Comunali per sfruttare le acque delle tre sorgenti di Pontano, Fornello e Fontana.
Sempre per volere di Ferdinando II, ad opera del botanico di corte Giovanni Gussone, la distesa di lava lasciata dall’eruzione dell’Arso viene ricoperta da una bellissima e rigogliosa pineta. Nell’ambito di questa operazione, Gussone incrementa anche il giardino della casina reale, con esemplari di platani, querce, lauri, eucalipti e altri ancora, provenienti dall’Orto botanico di Napoli. L’architettura del giardino è completata e abbellita da false grotte rivestite con schiuma vulcanica e da un sapiente uso decorativo degli agrumi, in particolare dell’arancio amaro.
Il destino del palazzo è strettamente legato a quello dei Borbone, con la loro caduta infatti, la casina attraversa una fase di declino fino al 1865, quando si progetta di trasformarla in stabilimento termale riservato al personale militare. Per un breve periodo, dopo il terremoto del 1883, ospita l’Osservatorio meteorologico e geodinamico.

La zona, come tutta l’isola, è di origine vulcanica, attualmente il terreno è costituito da residui di cenere, lapilli e scorie che hanno dominato la scena geologica dell’isola nei secoli. È una zona particolarmente ricca e fertile che ospita ospita vigneti, oliveti, ed una florida boscagli di fiori, piante spontanee, piante da frutto. Ma la particolarità del luogo è l'offerta di panorami mozzafiato che abbracciano parte dell'isola e le "dirimpettaie" Capri e Cuma, un'esperienza che merita di essere vissuta con lunghe passeggiate a contatto con la natura.

Le tesi più attendibili fanno derivare il nome del vulcano Epomeo da Epopon o Epopos che significa "io miro", "io guardo". Per Plinio e Strabone il nome deriverebbe dal greco Epopeus, 'da dove si vede intorno'. In effetti il monte Epomeo è alto 787 m. e la sua vetta regala un'incantevole vista di Ischia a 360 gradi.
Un'altra etimologia si ricollega a Epopon, ovvero "monte che sovrasta tutte le sorgenti". L’origine è vulcanica, il monte Epomeo nasce diverse migliaia di anni fa, in seguito alla cosiddetta 'eruzione del Tufo Verde dell'Epomeo' che determina lo sprofondamento della parte centrale dell’isola e la formazione di una caldera. Da questa eruzione ha origine un complesso fenomeno che nel tempo porta al sollevamento delle rocce depositate nella caldera fino a formare il Monte Epomeo.
L'Epomeo ha alle spalle anni di storia civile e religiosa, come testimonia la presenza, in cima al monte, della chiesetta dedicata a San Nicola di Bari, i cui corridoi conducono fino all'altro lato della montagna, e di cui Pontano nel suo De bello Napolitano attesta l'esistenza già nel 1459.
Si racconta che nelle grotte del monte si nascondessero gli abitanti dell'isola per sfuggire agli assalti dei pirati e che dalle sue cime venissero inviati segnali di fumo a Napoli e Roma in caso di avvistamento di navi nemiche. Vulcano molto attivo soprattutto nell'età romana, ha avuto la sua ultima violenta eruzione nel 1301, la famosa eruzione dell'Arso.
Lamartine lo descrive come "luogo paradisiaco dove l'anima si innalza a Dio e dal quale l'occhio beato si espande in un panorama incantevole e meraviglioso che nessuna penna potrà riprodurre, dove si vive l'aria di un altro mondo."

A due passi dalla vita mondana di Ischia, c'è il lido di Ischia, una lunga distesa di spiagge ed anfratti rocciosi che uniscono la punta del Porto con quella del Ponte. La prima spiaggia, venendo dal porto è la spiaggia di San Pietro, dove un tempo si tiravano le barche a secco. L'altra grande spiaggia è la spiaggia dei Pescatori, di sabbia fine, che si estende dal porto fino ad Ischia Ponte, a qualche centinaio di metri dal pontile del Castello. La lunga spiaggia, facilmente raggiungibile, è ben attrezzata, con diversi stabilimenti balneari e molte attività ricreative.
La spiaggia dei Pescatori, situata nella zona della Mandra, era la spiaggia del villaggio dei pescatori, nel borgo antico d'Ischia Ponte. Ha alle spalle i palazzi più belli del borgo, il vescovado, lo “Scuopolo”, la dimora dell’antipapa Baldassarre Cossa.

A sud del Castello Aragonese, tra gli scogli di Sant'Anna, dopo la Torre del Guevara, si trova la splendida spiaggia di Cartaromana, rinomata per la sua bellezza e per la sua particolarità; sulla spiaggia si possono ammirare i caratteristici scogli neri di roccia vulcanica modellata dal mare.
Oltre che per la sua bellezza, è celebre perchè è uno dei rari posti in cui il termalismo si manifesta nel mare e anche in pieno inverno è possibile fare bagni caldi, grazie alle conche naturali in cui si sprigionano le sorgenti calde. Inoltre, la zona marina di Cartaromana, compresa nell'area archeologica di Ischia e ricca di posidonia oceanica, è molto amata dai sub, che possono usufruire di uno stabilimento ben attrezzato.
Nei suoi fondali, vi è la storia antica di Aenaria, vi sono stati scoperti i resti di una fonderia di piombo e stagno, oggi sommersa a una profondità tra i 5 e i 7 metri sotto il livello del mare.
La spiaggia si raggiunge percorrendo via Cartaromana e poi seguendo, a piedi, un sentiero lungo circa 700 metri (oppure in barca, con i taxi boat, da Ischia Porto o da Ischia Ponte).

Questa incantevole spiaggia si trova nella zona della contrada Sant'Alessandro, a circa 800 mt. dal porto di Ischia. Si può raggiungere via terra attraverso una stradina pedonale lungo la collina di Sant'Alessandro o dalla banchina Olimpica (dietro il Palazzo d'Ambra, sede delle biglietterie dei traghetti). Altrimenti, via mare, ci si può servire dei taxi boat di Ischia Barche, da Ischia Porto o da Ischia Ponte. È una spiaggia riparata e molto adatta ai bambini (chè il mare aumenta di profondità gradualmente). Viene considerata impropriamente una spiaggia "fredda" per la collocazione a nord. È lunga poco più di 200 metri, la spiaggia è di ciottoli e sabbia. Ha un tratto libero ed un altro con stabilimento balneare.

Ancora incontaminata e attenta alla qualità della vita, Ischia non è solo un centro di turismo internazionale, ma anche e soprattutto l'isola della natura, la Capitale del Benessere. Ma Ischia non è solo natura, sport e divertimento. Le sorgenti e le antiche terme regalano intensi momenti di piacere e relax, imperdibili in ogni stagione e ad ogni età. Da millenni le acque ischitane svolgono i loro effetti terapeutici e di bellezza, il patrimonio idro-termale di Ischia è fra i più ricchi ed interessanti del mondo: 29 bacini termali, 67 fumarole e 103 sorgenti hanno reso ramosa l'isola già ai tempi di Plinio e Strabone.

Non vi è un luogo in cui vi sia una così alta concentrazione di sorgenti e di stabilimenti termali come l’isola d’Ischia.
Le acque di quest’isola vulcanica e ribollente di energia naturale sono note in tutto il mondo per la loro efficacia terapeutica.
Alcune di esse, ancora oggi, sono fruibili liberamente, così come sgorgano dal sottosuolo e dal fondo marino: calandosi in vasche naturali ricavate sulle spiagge, ci si può immergere in acque marine miscelate a quelle termali. E non è difficile imbattersi, nel corso di un trakking sui monti dell’Isola, in una naturale scultura di terra argillosa e biancastra dalla quale esalano lievi getti di vapore sulfureo, che va respirato a bocca semi-aperta, come se fosse un grande e naturale apparecchio inalatorio.

È ancora attiva la benefica vita geologica di quest’Isola verde per le sue risorse arboree e per il suo particolare tufo, con il quale si costruiscono o nel quale si escavano sudatori e stufe.
In questa cornice, svariati sono gli stabilimenti termali in cui è possibile curarsi con bagni e fanghi, inalazioni e irrigazioni, massaggi e applicazioni. La cultura delle terme a Ischia ingloba perciò sia la naturale predisposizione del territorio che l’attenta offerta di servizi sempre all’avanguardia.
Immergersi nella rigenerante acqua termale di Ischia significa fruire di un benessere che giunge dall’intero ambiente naturale, in un’armonico equilibrio in cui il corpo è parte della terra, delle piante, dell’aria e delle acque.

Proprio alle acque, nell’antichità classica, venivano riconosciute proprietà terapeutiche e sacrali. La sorgente di Nitrodi a Barano, ad esempio, veniva utilizzata già a quell’epoca come fonte per curare le malattie della pelle e dei capelli, come documentano antichi bassorilievi ora conservati al Museo Archeologico Nazionale.
Ma è solo nel Cinquecento, con l’opera del medico e idrologo Giulio Iasolino, che le acque termali di Ischia acquistano rinomanza in tutta Italia. Iasolino censisce e studia centinaia di polle e di sorgenti, di stufe e di sudatori che potevano essere utilizzati a fini terapeutici. Nel comune di Ischia ritrova pozzi inattivi da tempo e ne favorisce l’utilizzo di nuovi: ancora oggi, l’uso dell’acqua del "Pozzillo" o della "Mortita" è vivo nel ricordo degli anziani. Grazie al suo libro "De’ rimedi naturali" e alla sua opera medica, Ischia viene nel tempo valorizzata come Isola della salute, al punto che nel secolo successivo il Pio Monte della Misericordia fonda a Casamicciola un enorme sanatorio in cui i poveri della città di Napoli vengono curati con le acque termai del luogo.
Nell’Ottocento Ischia diventa una delle capitali del termalismo europeo, al pari delle più note stazioni inglesi e austriache. Le "Antiche Terme Comunali", che sorgono sul Porto, diventano un punto di riferimento anche per gli studiosi.
Sede dell’annuale "Borsa Internazionale del Termalismo", ancora oggi Ischia mantiene inalterato il suo primato turistico-termale.
Alle classiche cure termali, si sono aggiunti altri servizi e proposte legate al beauty-farm e al benessere psicofisco.

Dalla forma approssimativa di un trapezio, l'isola dista all'incirca 18 miglia marine da Napoli, è larga 10 km da est a ovest e 7 da nord a sud, ha una linea costiera di 34 km e una superficie di circa 46,3 km². Il rilievo più elevato è rappresentato dal monte Epomeo, alto 788 metri e situato nel centro dell'isola. Quest'ultimo è un vulcano sottomarino sprofondato negli ultimi 100.000 anni. Infatti, l'intera isola, altri non è che il picco del Monte Epomeo, ultimo punto del vulcano ancora in superficie.

Strabone riporta quanto dice Timeo, storico greco del IV secolo a.C., a proposito di un maremoto verificatosi a Ischia poco prima del suo tempo. In seguito all’attività vulcanica dell’Epomeo“… il mare era retrocesso per tre stadi; in seguito si era rivolto ancora indietro e il suo riflusso aveva sommerso l’isola quelli che abitavano sul continente fuggirono dalla costa verso l’interno della Campania” (Geografia V, 4, 9). È di qualche interesse che “Cuma”, non distante da quella costa, in greco significa “onda”.
L'attività vulcanica ad Ischia è stata generalmente caratterizzata da eruzioni non molto consistenti e a grande distanza di tempo. Dopo le eruzioni in epoca greca e romana, l'ultima è avvenuta nel 1301 nel settore orientale dell'isola con una breve colata (Arso) giunta fino al mare.

Diverse parti del suo litorale sono comprese nell'area marina protetta Regno di Nettuno.

La viticoltura ad Ischia ha origini millenarie. Sulla coppa di Nestore, ritrovata a Monte Vico (Lacco Ameno), è incisa una frase che inneggia al buon vino locale e testimonia che gli Antichi Eubei, che avevano colonizzato l'isola, avevano introdotto la coltivazione della vite e quindi la produzione del "nettare degli Dei". La tecnica di coltivazione, in particolare modo, richiama alla tradizione greca e differisce da quella etrusca usata nel centro Italia e nelle zone interne della Campania. La viticoltura è stata alla base dell'economia isolana per lunghi periodi storici, condizionandone la vita e i costumi degli stessi abitanti. Le colture sull'isola si estendono dalle coste fin sugli irti pendii montani dove cellai e terrazzamenti, costruiti con rinforzi di muri a secco di pietra di tufo verde, consentono la coltivazione della vite. Dal 1500 il vino bianco sfuso veniva esportato via mare verso la terraferma ai principali mercati italiani e stranieri fino in Dalmazia, veniva posto in "carrati" trasportati dalle vinaccere (barche a vela). Dal 1955 il cambiamento dell'economia isolana è stato radicale. Lo sviluppo rapido del turismo, che è diventato la principale risorsa economica dell'isola, ha indebolito e in parte cancellato il passato culturale di una tradizione che andava protetta e salvata.

Le isole dell'Arcipelago Campano sono meta di migliaia di turisti all'anno. Specificatamente, l'Isola di Ischia, insieme a quella di Capri, sono molto gettonate da turisti non solo italiani, ma anche da stranieri provenienti da ogni parte del globo. L'isola è famosa per il suo mare cristallino, per le note località balneari e per i famosi negozi sul lungomare come "Rive droite" nel comune di Ischia.

L'agricoltura è stata per anni la principale fonte d'economia isolana, anche se la maggior parte dei terreni non viene coltivata per il grande sviluppo del turismo, che ha reso l'agricoltura un settore meno redditizio rispetto al passato. Forio, è sempre stato il principale distretto agrario, il suo suolo molto fertile, permette diverse colture come la vite, che offre rinomati vini, olivi e agrumi, oltre che cereali, castagni, ortaggi e frutta.

Tradizionalmente la pesca e la marineria sono sempre state attività di minor rilievo, sebbene l'isola sia, specie sul versante costiero settentrionale, ricca di approdi e spiagge.

Il versante settentrionale, le cui coste basse scendono dolcemente sotto il livello del mare con un'ampia piattaforma costiera, fino ai 300 m., si apre su un tratto di mare favorevole alla pesca mentre le coste orientali, prive di approdi, e soprattutto quelle meridionali, subito al largo delle quali il mare raggiunge notevoli profondità (più di 600 m), sono meno favorite.

Queste caratteristiche hanno fatto in modo che Ischia Ponte divenisse nei secoli il centro del peschereccio, in cui risiede la metà dei pescatori, mentre il resto è sparso negli altri centri.

Il periodo più favorevole e adatto alla pesca è quello che va da maggio ad ottobre, tuttavia molti pescatori abbandonano da giugno ad agosto le acque della Campania, andando momentaneamente verso il pescoso medio ed alto Tirreno.

Alcune limitazioni nella pesca si sono avute con l'istituzione, mediante la legge 394/91 di un'area marina protetta denominata Regno di Nettuno che interessa i fondali marini circostanti le isole di Procida, Vivera ed Ischia.

L'attività di volontariato ad Ischia è molto varia. Comitati ed associazioni lavorano per promuovere turisticamente il territorio e fornire servizi ed iniziative per i residenti. Numerose associazioni sportive svolgono l'attività su tutta l'isola. L'isola ha un suo fiduciario C.O.N.I. e per la sua peculiarità è sede del Comitato Tecnico Territoriale della F.I.B.(Federazione Italiana Bocce) unica sede di Comitati periferici di FSN sull'isola. Degna di menzione è la Società Sportiva Ischia Isolaverde, società calcistica fondata nel 1922.

Il territorio dell'isola è stato caratterizzato negli ultimi decenni (anche a causa del forte sviluppo turistico) da una forte pressione antropica che ha portato a problematiche di abusivismo edilizio (notizia del 30/06/06).

Alcune inchieste hanno portato alla luce situazioni estreme, come ad esempio quella nel comune di Forio, in cui a fronte di 17.000 abitazioni sono state presentate 19.000 richieste di condono edilizio. Il cedimento di una palazzina priva di permesso di costruire, con la morte di quattro persone, ha riportato di grande attualità questa annosa questione.

Nell'estate 2007, in seguito alla rottura di alcuni cavi Enel che collegano Cuma con Lacco Ameno, nel mare, al largo dell'Isola, è stato rilevato dall'Agenzia Regionale per la Protezione Ambientale della Campania (ARPAC) presenza di Policlorobifenili, sostanza tossica nonché cancerogena, 1860 volte superiore ai limiti consentiti dalle legge. Da allora è stato però effettuato un intervento di bonifica.

In passato i traghetti utilizzavano oltre alla banchina principale, anche la banchina Scivolo, sia per la presenza di un secondo terminal da parte di Medmar, sia per snellire meglio il traffico durante i giorni di partenza/arrivo turistici. A causa della presenza di un limite di transito per i veicoli oltre 3,5 tonnellate lungo la strada adiacente, era rischioso sbarcare ed imbarcare i veicoli oltre tale peso, e le sanzioni erano elevate a carico del conducente della vettura, anziché verso l'armatore.



martedì 26 gennaio 2016

USTICA



L'isola di Ustica si trova nel Mar Tirreno. La caratteristica naturale peculiare dell'isola è la presenza di numerose grotte che si aprono lungo le coste alte e scoscese, così come numerosi scogli e secche presenti tutt'intorno all'isola; sono da menzionare la grotta Verde, grotta Azzurra, grotta della Pastizza, grotta dell'Oro, grotta delle Colonne e gli scogli del Medico e della Colombara. Scarseggiano nell'isola le risorse idriche.

Gli antichi romani la chiamavano Ustica mentre i greci, Osteodes, («ossario»), per i resti di mercenari che vi sarebbero morti per fame e sete. Da alcuni viene ritenuta la dimora della maga Circe, citata nell'Odissea, che trasformava gli incauti visitatori in maiali.

Gli insediamenti umani risalgono al Paleolitico; alcuni scavi archeologici hanno portato alla luce i resti di un antico villaggio cristiano. Sepolture, cunicoli e una gran quantità di reperti archeologici ritrovati anche sott'acqua, a causa dei tanti naufragi avvenuti nel tempo, testimoniano una presenza costante, nel luogo, di vari antichi popoli mediterranei, Fenici, Greci, Cartaginesi e Romani che vi lasciarono vestigia dappertutto. In seguito divenne base dei pirati saraceni e lo rimase per lunghissimo tempo.

Nel VI secolo vi si stabilì una comunità Benedettina, ma fu ben presto costretta a spostarsi a causa delle imminenti guerre fra Cristiani e Musulmani. Nel Medioevo fallirono dei tentativi di colonizzare l'isola a causa delle incursioni dei pirati barbareschi, che fecero dell'isola un proprio rifugio.

Nel 1759 Ferdinando IV di Borbone impose una colonizzazione dell'isola; furono edificate due torri di guardia, Torre di Santa Maria e Torre Spalmatore, che facevano parte del sistema di avviso delle Torri costiere della Sicilia, cisterne per raccogliere l'acqua piovana e case che costituirono il centro abitato principale presso la Cala Santa Maria. Vi vennero coloni palermitani, trapanesi ed eoliani, accompagnati da un centinaio di soldati. Nel 1762 la popolazione fu preda dei corsari barbareschi e venne quasi tutta rapita e condotta in cattività in Tunisia. Quindi si intensificarono i lavori a difesa dell'isola, il nuovo ripopolamento avvenne a partire dal 1763, ed in particolare l'ingegnere militare brigadiere Giuseppe Valenzuola già nel 1765 aveva redatto il piano urbanistico dell'attuale abitato, che, perdurando gli attacchi dei corsari, su impulso del governatore borbonico Giuseppe Laghi, venne difeso oltre che dalla Torre di Santa Maria, dal Rivellino di San Giuseppe e dalla connessa Fortezza della Falconiera che fu impiantata a partire dal 1800 sul rilievo omonimo.

Ustica al tempo dei Borbone fu anche un luogo di confino per prigionieri politici e vi restò anche sotto casa Savoia. Durante il regime fascista Ustica fu luogo di confino. Vi furono ristretti Amadeo Bordiga, Nello Rosselli, Antonio Gramsci e Ferruccio Parri, oltre che numerosi prigionieri politici senussiti catturati nell'ultima fase della guerra coloniale in Libia. Nel 1961 il confino fu abolito a causa di proteste popolari e da allora iniziò a svilupparsi il turismo.

La località è conosciuta poiché utilizzata come punto di riferimento geografico della cosiddetta Strage di Ustica, avvenuta il 27 giugno 1980, quando il volo Itavia da Bologna a Palermo, precipitò a una notevole distanza dall'isola; in quell'episodio morirono 81 persone tra passeggeri e equipaggio.

Dopo anni di processi penali e teorie, la sentenza 1871 depositata il 28 gennaio 2013 dalla Terza sezione civile della Suprema Corte identifica come causa della sciagura l'impatto del velivolo con un missile, condannando lo Stato Italiano al risarcimento dei familiari delle vittime per aver eseguito controlli radar inadeguati.

Geologicamente essa è affine alle Eolie e di origine vulcanica; sono presenti infatti dei rilievi collinari che rappresentano le vestigia di antichi vulcani (Punta Maggiore, 244 m; Guardia dei Turchi, 238 m) e dividono l'isola in due versanti. Secondo l'interpretazione del geologo Franco Foresta Martin : Ustica è l’unico vulcano del Tirreno meridionale paragonabile a un hot spot. I magmi di Ustica sono stati infatti alimentati da un pennacchio di magma risalito direttamente dalle profondità del mantello terrestre. Ciò rende l’isola dal punto di vista magmatologico molto diversa dalle vicine Eolie e molto più simile all’Etna o alle Hawaii.

La vegetazione naturale è piuttosto scarna, è stata comunque ampiamente stravolta dalla presenza dell'uomo e dalle sue coltivazioni. Tra le specie di flora più rappresentate troviamo macchia Artemisia arborea, Lentisco, Calicotome spinosa e Ginestra. Meno diffusa la presenza di piante da frutto come ulivi, mandorli e viti. È presente anche una diffusa steppa mediterranea. Ustica è anche nota per essere l'habitat naturale dell'Apis mellifera sicula. Ad Ustica si trova la riserva naturale orientata Isola di Ustica.

Il piccolo centro abitato si stende ad anfiteatro intorno ad una baia che ospita il porto. Una strada e delle scalinate bordate di bellissimi ibiscus conducono al centro del paese, in alto. Una delle caratteristiche peculiari delle abitazioni è che da alcuni anni, i muri delle case sono stati "trasformati" in tele e gli artisti vi hanno dipinto paesaggi, trompe-l'oeil, ritratti, nature morte, soggetti fantastici. Il paese è dominato dalla Torre di S. Maria, sede del Museo Archeologico che ospita i reperti rinvenuti al villaggio preistorico presso i Faraglioni e nelle tombe di età ellenistico-romana di Capo Falconiera. In particolare si notino un singolare focolare circolare diviso in quattro parti (e quindi trasportabile), e belle coppe biansate a piede alto.



Gli abitanti vivono soprattutto di pesca e turismo, anche se l'agricoltura specializzata è in aumento (vite, ortaggi, cereali, soprattutto lenticchie). Dopo essere stata abitata dall'eneolitico fino alla fine del periodo antico, Ustica viene aperta solo alle scorrerie dei pirati fino al periodo borbonico, quando vi si stabiliscono alcuni abitanti provenienti da Lipari. Colonia penale attiva fino agli anni '50, Ustica è diventata, grazie alle sue acque trasparenti e alle sue coste rocciose, un vero e proprio paradiso per gli amanti delle immersioni subacquee. Dal 1987 è divenuta riserva marina.

Nei pressi dei Faraglioni (località Colombaia), è stato scoperto un esteso insediamento risalente al periodo del bronzo che presenta analogie abitative con il villaggio preistorico di Panarea, con capanne circolari cui si sono sovrapposte capanne a pianta quadrata. L'abitato è percorso da una "strada principale" che denota l'esistenza di un piano urbanistico (anche se essenziale) e quindi il riconoscimento di luoghi pubblici, caratteristica singolare per l'epoca (in genere le capanne sono in ordine sparso), il villaggio era difeso da una possente cinta muraria (il tratto preservato ne fa indovinare la forma ellittica) formata da due cortine, larga 6 m alla base e rafforzata da torri semicircolari. Il tratto mancante della cortina e la presenza di capanne anche sul faraglione sembrano indicare che quest'ultimo fosse in origine collegato alla terraferma e che il crollo (probabilmente a causa di un terremoto) sia forse la causa del subitaneo abbandono del villaggio.

La costa frastagliata, ricca di grotte che possono essere scoperte in barca (i pescatori al porto si offrono di accompagnare i turisti con le imbarcazioni di piccole dimensioni, adatte ad entrare nelle grotte), ma anche da terra, offre piccole spiagge (Cala Sidoti, Punta dello Spalmatore, al Faro) e bellissime baie rocciose, quali la piscina naturale, concentrate lungo il versante occidentale. Il versante orientale offre invece belle grotte come la Grotta Azzurra, la Grotta Verde e la Grotta delle Barche, da esplorare muniti di maschera e boccaglio. In particolare quest'ultima è raggiungibile percorrendo un bel sentiero in mezzo a pini e fichi d'india che si diparte dalla Torre di S. Maria e prosegue lungo il fianco della collina offrendo begli scorci del mare e della costa.

Il mare particolarmente pulito da ogni tipo di inquinamento (Ustica si trova proprio in mezzo alla corrente proveniente dall' Altantico) permette la vita ed il proliferare di numerosissime forme di vita sia animali che vegetali. Un esempio eclatante sono le vaste praterie di posidonia oceanica, vera e propria pianta acquatica, anche chiamata il "polmone del Mediterraneo" (perchè scambia ossigeno con l'acqua) che qui si trova perfino a 40 m di profondità. Già in superficie si incontrano folti branchi di saraghi, saraghi fasciati, le scure castagnole che quando nascono sono invece di un incredibile blu elettrico, cefali voracissimi (ma al massimo provocano solletico), occhiate, salpe, coloratissime donzelle pavonine. Nelle zone in ombra si possono vedere rossi Re di triglie e lungo le pareti rocciose i bellissimi "fiori" della madrepora arancione, che in alcuni casi copre ampi tratti, coloratissime spugne (e per chi non le conosce, ve ne sono di nere, bianche, gialle, arancione, compatte, allungate, filiformi), cerniotte che si nascondono all'ombra delle rocce, ma escono incuriosite quando ci si avvicina. A profondità maggiori anche i pesci "si ingrandiscono", le cernie in particolare, e il paesaggio si arricchisce di murene, aragoste, cicale di mare e gamberetti (nelle grotte), ricciole, dentici, enormi saraghi, e di splendide e rosse gorgonie, tra le quali fa capolino a volte il corallo nero (giallo chiaro in superficie, ma scuro all'interno). Chi ha fortuna può anche incontrare tonni, pesci luna, tartarughe e barracuda.

Esistono differenti possibilità sia per i sub che per chi si vuole divertire con lo snorkelling. Chi invece proprio non vuole entrare in acqua, può comunque essere partecipe dello spettacolo sottomarino, facendo un giro (diurno o notturno) sulla motobarca Aquario, dal fondo trasparente, che ospita fino a 20 persone. Altri due centri della riserva si trovano alla Torre dello Spalmatore (la gemella di Torre di S. Maria), utilizzata come centro per conferenze ed iniziative speciali e a Caletta che costituisce il punto di partenza per le visite guidate di superficie alla Grotta Segreta) e che ospita un Acquario in cui sono stati ricreati 13 ambienti corrispondenti a diverse batimetrie.

Lungo il versante occidentale, proprio nella zona di riserva integrale, si trova la Grotta Segreta, o Grotta Rosata, il cui accesso è celato da rocce sia via mare che via terra. Qui le incrostazioni di bellissime alghe calcaree dal rosa chiaro al rosa antico intenso le conferiscono il colore che le vale il nome.

Una delle mete più ambite dei sub è lo Scoglio del Medico, basaltico, che per la sua conformazione, ricca di grotte ed anfratti anche ad alte profondità, offre uno spettacolare panorama subacqueo. Altra bellissima escursione è quella alla Secca della Colombara (40 m di profondità) con spugne e gorgonie dagli incredibili e vivacissimi colori.

Oltre alla lingua ufficiale italiana, a Ustica si parla la lingua siciliana nella sua variante occidentale. La ricchezza di influenze del siciliano, appartenente alla famiglia delle lingue romanze e classificato nel gruppo meridionale estremo, deriva dalla posizione geografica dell'isola, la cui centralità nel mar Mediterraneo ne ha fatto terra di conquista di numerosi popoli gravitanti nell'area mediterranea.

La festa Patronale di San Bartolomeo, il patrono dell'isola è San Bartolomeo, la cui festa si celebra il 24 agosto. La scelta del santo patrono è stata imposta dai coloni provenienti da Lipari che si stanziarono sull'isola nel 1763. Le attività collegate alla celebrazione includono: gara di barche, rottura di pentole, spettacoli artistici e fuochi d'artificio.
Festa di San Bartolicchio, festa celebrata il 19 settembre in onore di una piccola statua di San Bartolomeo presente in contrada Oliastrello.
La Madonna dei Pescatori, processione compiuta l'ultima domenica di maggio, parte dalla chiesa madre e termina nel porto a seguito della banda del paese. La processione continua in mare dove la statua della vergine viene caricata su una barca di pescatori e si effettua il giro dell'isola. Conclude la festa una degustazione di pesce fritto.


lunedì 25 gennaio 2016

LE ISOLE BRIONI



Le isole Brioni sono un piccolo arcipelago croato nel Mare Adriatico, composto da quattordici isole che si estendono complessivamente per 8 km².

Come testimoniano i resti delle antiche ville, le Brioni ospitarono insediamenti dei romani che le utilizzarono principalmente per l'estrazione di materiali da costruzione.

La storia delle isole Brioni è sempre stata collegata a quella della vicina Pola. Appartennero fin dal Medioevo alla Repubblica di Venezia e la pietra proveniente dalle isole fu impiegata per erigere ponti e palazzi a Venezia.

Nel 1797 l'arcipelago venne annesso all'Impero Napoleonico per un breve periodo, fino alla cessione delle Province illiriche all'Impero d'Austria, avvenuta nel 1815. Soltanto a partire dalla prima metà dell'Ottocento le Brioni iniziarono a ospitare abitanti di etnia croata, anche se la popolazione delle isole rimase per la maggior parte di lingua italiana fino alla Seconda guerra mondiale, quando iniziò l'esodo. In questo periodo le cave presenti nell'arcipelago fornirono materiali per Vienna e Berlino e con la costruzione di una base navale nel porto di Pola, gli austriaci eressero un'imponente fortezza a Brioni Minore, insieme a fortificazioni minori nelle altre isole.

La k.u.k. Kriegsmarine (marina austroungarica) abbandonò la fortezza e nel 1893 il magnate viennese Paul Kupelwieser acquistò l'intero arcipelago e creò un esclusivo complesso alberghiero. La tenuta comprendeva alberghi di prima classe, ristoranti, spiagge turistiche, un casinò, un porto per gli yacht e divenne un punto nevralgico della vita sociale dell'élite tedesca del Litorale austriaco di Gorizia, Trieste e soprattutto di Pola. Egli, inoltre organizzò regate, corsi di golf e, di pari passo con la fioritura della cultura austriaca, anche vari concerti musicali e concorsi letterari. Le isole Brioni divennero una prestigiosa meta turistica per gli austriaci più facoltosi e furono visitate da membri della famiglia imperiale e da élite aristocratiche europee.

Nel 1918, in seguito alla Prima guerra mondiale le Brioni divennero parte dell'Italia: dal 1921 al 1947 furono incluse nella Provincia di Pola. Karl Kupelwieser tentò di mantenere lo splendore originale ma, quando, nel corso della crisi del 1929, la tenuta entrò in bancarotta, il fondatore si suicidò. Così, nel 1930 le isole vennero acquistate dallo Stato Italiano.

Durante la seconda guerra mondiale l'arcipelago fu sede di un distaccamento della Xª Flottiglia MAS e nel 1945 venne ceduto alla Jugoslavia. Nel secondo dopoguerra l'arcipelago divenne la sede preferita di vacanza del presidente jugoslavo Tito: l'architetto sloveno Jože Plecnik progettò un padiglione in onore del Maresciallo. Almeno 100 capi di Stato esteri e diverse star del cinema (come Elizabeth Taylor, Richard Burton, Sophia Loren, Carlo Ponti e Gina Lollobrigida) visitarono la tenuta di Tito. Tre anni dopo la morte del Presidente, nel 1983, le isole vennero dichiarate Parco nazionale della Jugoslavia.

Con la dissoluzione della Jugoslavia, nel 1991, le isole Brioni passarono sotto l'amministrazione croata ed entrarono a far parte della regione istriana. Il nuovo Stato indipendente vi ospitò un Centro Conferenze Internazionali e con l'occasione vennero riaperti quattro alberghi di Brioni, insieme al Parco Safari, dove trovano posto anche gli animali donati a Tito, fra cui uno dei due elefanti indiani che ricevette da Indira Gandhi, il secondo è morto nel 2010 per un attacco di cuore all'età di circa 45 anni. Il Torneo Internazionale di Polo, avviato nel 1924 da Karl Kupelwieser, è stato ripreso nel 2004.



Il Parco Nazionale delle Isole Brioni comprende 14 isolette che si trovano nella zona sud dell'Istria, nello specchio di mare nei pressi di Pola.
Dichiarato Parco Nazionale nel 1983, le Isole Brioni sono un'oasi naturale ancora intatta, in gran parte disabitate. Solo Veliki Brijun, l'isola maggiore, ospita diverse strutture ricettive ed è luogo di turismo da più di un secolo.

Brioni Maggiore è l'isola più grande di tutto l'arcipelago. Fu colonizzata da Romani e bizantini, prima di essere devastata dai veneziani (che disboscarono l'isola per prendere il legno con cui costruivano case, chiese e ponti di Venezia), dalla peste e dalla malaria. A metà del 1800 l'isola era disabitata quando Paul Kupelwieser, un'industriale di Merano, aiutato da alcuni specialisti, trasformò Brioni Maggiore in un'oasi eccezionale.
Piantò una foresta e vi portò mufloni, cervi, zebre, antilopi, lama. Creò sentieri e radure, fino a quando l'isola tornò perfettamente abitabile. L'aristocrazia asburgica cominciò ad amare Brioni Maggiore e prese d'assalto ville ed hotel di lusso che nascevano senza sosta sull'isola.
Nel 1947 il Maresciallo Tito fece costruire una residenza estiva e nel 1983, 3 anni dopo la sua morte, l'isola venne dichiarata Parco Nazionale. Oggi Veliki Brioni, l'isola Maggiore, è l'unica abitata e che si può visitare.

Sulle isole Brioni sono presenti diversi siti archeologici e culturali: è possibile visitare il museo archeologico, i resti di due ville romane del II secolo d.C., le rovine di un castello bizantino e la chiesa di Santa Maria, risalente al XIII secolo, che fu costruita dai templari. Inoltre vi sono delle fortificazioni dell'Età del bronzo che testimoniano un antico insediamento nell'isola riconducibile al XIV secolo a.C.. Oltre a ricche esposizioni di reperti archeologici, nei pressi di questi siti sono state allestite mostre di storia naturale e di arte.

Nell'isola di Brioni Maggiore sono state scoperte oltre 200 impronte di dinosauri in quattro siti: tali testimonianze risalgono al periodo Cretaceo, dal quale prende il nome il Parco Cretaceo delle Brioni.

A Brioni Maggiore si possono osservare numerose specie di piante mediterranee o esotiche (tra cui numerose mangrovie), oltre ad una fauna piuttosto varia composta tra l'altro da daini, mufloni, scoiattoli, lepri.