lunedì 31 agosto 2015

LE ARSELLE



Conchiglia cuneiforme, con la valva sinistra sempre più grande della destra. Fino a circa 3 centimetri.

Si trovano nel Mar Mediterraneo, Mar Nero, Oceano Atlantico orientale, in acque superficiali su fondali sabbiosi da 0 a 2 metri di profondità.
In Italia la raccolta di questo mollusco viene praticata comunemente. La raccolta professionale viene fatta mediante un attrezzo chiamato "rastrello da natante", simile a quello usato per la pesca delle vongole, che viene trainato da imbarcazioni in possesso di licenza di pesca. Tale attività può essere svolta unicamente in tratti di mare con acque classificate dai competenti organi di vigilanza sanitari; se la classe delle acque è definita "A" il prodotto può andare direttamente al consumo umano altrimenti deve essere avviato ad un trattamento di depurazione presso centri opportunamente autorizzati.

La raccolta manuale avviene attraverso uno strumento composto principalmente da un setaccio che raccoglie le telline e le separa dalla sabbia. tale strumento viene azionato mediante una fascia intorno alla vita che serve per spostarlo orizzontalmente e da un lungo manico che fuoriesce dall'acqua. Il manico permette al setaccio di essere inclinato con un angolo utile a rimanere 3-4 cm immerso nel fondale sabbioso, contrastando in tal modo le forze che lo tirerebbero a galla esercitate dal traino.

Le vongole sono molluschi molto delicati che vanno quindi consumati il più presto possibile: dal momento dell'acquisto si potranno mantenere in frigorifero per non più di un giorno, possibilmente avvolte in un panno umido e già pulite.
Pulizia e uso in cucina : Per togliere la sabbia, si consiglia di mettere a mollo le vongole in acqua salata (con sale grosso) per un tempo minimo di 2 ore: attraverso questo procedimento, le vongole si spurgheranno; per ultimare la pulizia sarà sufficiente risciacquarle in acqua corrente, strofinandole con uno spazzolino.

Per aprirle il metodo più semplice è gettarle in una padella calda per qualche minuto, finchè le valve non si schiudono.
In questo modo però si rischia che le vongole perdano il delicato sapore: sarebbe quindi consigliabile aprire i molluschi con un coltellino: in questo modo si avrà anche la possibilità di conservare il liquido in esse contenuto, che, una volta filtrato, potrà essere aggiunto alla cottura delle vongole stesse per accentuarne l'aroma.

Nelle preparazioni delle vongole, sono da evitare cotture lunghe, perchè le carni si potrebbero indurire.

La vongola è impiegata per la preparazione di primi come risotti, zuppe o paste, ma anche per antipasti o secondi, cucinandole, ad esempio, in forno con uno strato fine di trito di pangrattato, aglio e prezzemolo.



Le vongole sono ricche di vitamina A, fondamentale per lo sviluppo dell'organismo: la sua carenza può infatti inibire la crescita, portare alla deformazione delle ossa, degli organi riproduttivi e degli organi visivi.
La vongola contiene inoltre fosforo, elemento strutturale di ossa e denti, potassio e proteine, indispensabili per le difese immunitarie del nostro organismo.
Il consumo della vongola è indicato per le diete ipocaloriche: essa ha un apporto di grassi molto ridotto e contiene solo 72 Kcal per 100 g.

Il termine vongola è di origine latina e deriva da conchŭla, cioè conchiglia.
Caparozzolante è, invece, una denominazione di origine dialettale che si riferisce al pescatore di vongole veraci, che in Veneto sono appunto chiamate "caparozzoli" e vengono pescate nella laguna con particolari imbarcazioni.

L'organismo vivente più vecchio al mondo mai trovato è proprio una vongola della veneranda età di 410 anni: essa è stata ritrovata nei freddi mari dell'Islanda ed è stata subito sottoposta a studi per scoprire il segreto della sua longevità.

In linea di massima è possibile affermare che il contenuto calorico dei molluschi bivalvi sia PARTICOLARMENTE basso; mediamente, infatti, si aggira sulle 70-85 kcal per 100g di parte edibile.
I molluschi bivalvi possiedono caratteristiche nutrizionali piuttosto simili tra loro; in termini di macronutrienti apportano circa 10-11g di proteine, l'1-3% di lipidi (prevalentemente POLINSATURI, quindi grassi "buoni") ed a volte (per esempio nella cozza o nell'ostrica) tracce di Carboidrati complessi (glicogeno). E' opportuno ricordare che i molluschi bivalvi possiedono un contenuto di colesterolo NON trascurabile e variabile in base al periodo di fertilità degli organismi; essi, se in fase di riproduzione, aumentano la sintesi di colesterolo per sostenere la produzione ormonale, di conseguenza il relativo contenuto alimentare in colesterolo può subire oscillazioni anche rilevanti.
Dal punto di vista micronutrizionale, i molluschi bivalvi apportano una notevole quantità di cobalamina (vitamina B12 - particolarmente carente nei regimi alimentari vegani) ed in quantità variabili altre vitamine del gruppo B. Inoltre, scrutando il profilo minerale si evidenzia un notevole apporto di ferro emico (anch'esso carente nei regimi alimentari vegetariani e vegani), iodio (la cui integrazione alimentare pare univocamente utile al raggiungimento della razione raccomandata), zinco e selenio. Per contro, il consumo frequente di molluschi bivalvi presenta un inconveniente per nulla trascurabile; essi, che per alimentarsi filtrano l'acqua, se catturati in mare contengono quantità molto elevate di sodio, aspetto che li rende assolutamente sconsigliati nella dieta contro l'ipertensione.
Dal punto di vista della digeribilità, i molluschi bivalvi si caratterizzano per il ridotto contenuto in tessuto connettivo, il che ne riduce il tempo di permanenza gastrica rendendoli idonei al trattamento dietetico delle difficoltà digestive, purché consumati nelle PORZIONI APPROPRIATE.


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RICCIO DI MARE



I ricci di mare sono animali molto conosciuti ed alcune specie sono talmente diffuse nei litorali del Mar Mediterraneo tanto da rendere difficile la balneazione.

All'interno della classe Echinoidea del grande Phylum degli Echinodermata ritroviamo i ricci di mare, vasto gruppo di animali esclusivamente bentonici (vale a dire che vivono a contatto con il fondo marino o comunque fissati ad un substrato solido) e deuterostomi (la bocca non si è formata durante il processo di differenziazione cellulare ma successivamente).

La classe comprende circa 950 specie marine diffuse in tutti gli habitat del mondo fino a 5000 m di profondità. Di queste, 26 specie si ritrovano nel Mar Mediterraneo di cui 11 sono le forme regolari e 15 di forma irregolari.

La particolarità dei ricci di mare è il fatto che il loro corpo è formato da un dermascheletro rigido costituito da diverse piastre saldate assieme che assumono una consistenza rigida e provviste di aculei più o meno vistosi a seconda della specie.

I ricci di mare (come tutti gli echinodermi) sono animali esclusivamente marini e sono poco tolleranti nei confronti delle variazioni di salinità a causa della loro anatomia.

Tra gli echinodermi le forme sono diverse a seconda delle specie infatti vengono suddivisi in due grandi gruppi: echinoidea con il corpo a forma regolare ed echinoidea con il corpo a forma irregolare.

Le specie con il corpo a forma regolare sono i classici ricci di mare che tutti conosciamo dove il corpo assume una forma globosa o subconica e sono ricoperti da aculei formati da carbonato di calcio in forma di calcite mescolata con sostanza organica, più o meno lunghi e distribuiti in maniera abbastanza uniforme su tutto il corpo a seconda della singola specie.

Sono animali che allo stadio adulto presentano simmetria pentamera (il corpo è diviso in cinque regioni disposte intorno ad un disco centrale) e le dimensioni sono variabili da pochi millimetri fino a 30 cm.

L'emisfero orale è la parte rivolta verso il substrato al centro della quale si trova la bocca che si riconosce per la presenza dei 5 denti della lanterna di Aristotele che è la struttura preposta alla masticazione circondata da un'area membranosa chiamata membrana peristomale.

Nell'emisfero aborale si trova la regione anale (detta periprocto) ed è la parte rivolta verso l'alto formata da un anello con 10 piastre ed è presente una struttura chiamata madreporite o piastra madreporica attraverso la quale il liquido del sistema acquifero è in collegamento con l'esterno.
Tra gli aculei si trovano i pedicellaria che sono delle appendici molto mobili e con funzioni diverse e di diverso tipo: pedicellarie che terminano con una ventosa e sono preposte al movimento o a trattenere gli oggetti con i quali alcune specie di ricci di mare si coprono il corpo; pedicellarie a forma di pinza usate per afferrare; pedicellarie che terminano con una piccola spina cava che può iniettare del veleno nella carne di un aggressore (es Asthenosoma varium).

Il movimento avviene attraverso il sistema acquifero che è formato da dei vasi molto simili a quelli sanguigni che circolano in tutto il corpo dell'animale al cui interno scorre acqua prelevata dall'ambiente esterno; l'acqua pompata in questo sistema determina una variazione del turgore dei pedicelli che così si possono muovere. Molto particolare è la locomozione come avviene negli appartenenti all'ordine Cidaroida dove sono presenti aculei molto sviluppati e poco numerosi grazie ai quali si muovono come se fossero sui trampoli anche se non è facile vederli in quanto vivono dai 50 ai 200 m di profondità.



Gli scambi gassosi avvengono grazie ai pedicelli ambulacrali attraverso i quali l'Ossigeno entra all'interno del corpo.

L'apparato riproduttore è formato da cinque gonadi (che sono la parte edule, quella che normalmente è apprezzata dai buongustai) unite tra loro da filamenti e quando sono mature appaiono voluminose e di colore aranciato più o meno intenso e si estendo dalla parte aborale dove comunicano con l'esterno fin quasi alla lanterna di Aristotele.

Tutte le appendici esterne del riccio di mare (spine, pedicelli, pedicellarie) se perse si rigenerano molto rapidamente così come le ferite del guscio vengono riparate con la riformazione dello scheletro calcareo.

Le specie maggiormente conosciute sono la Arbacia lixula (ordine Arbacioida - famiglia Arbaciidae) conosciuta come "riccio nero" o "riccio maschio" e la Paracentrotus lividus (ordine Echinoida - famiglia Echinidae) conosciuta come "riccio viola" o "riccio femmina" che è la specie che normalmente nel Mediterraneo siamo abituati a mangiare.

In America sono più diffuse le specie: Strongylocentrotus franciscanus, S. purpuratus e S. droebachiensis (ordine Echinoida - famiglia Strongylocentrotidae) che sono anche esportate in Giappone per essere usate nel famoso sushi.

Altre specie molto belle che ritroviamo frequentemente nel mar Mediterraneo sono: Cidaris cidaris (ordine Cidaroida - famiglia Cidaridae) di colore grigio - giallastro che vive sul fondo del mare e si nutre soprattutto di spugne e gorgoni ed è conosciuta con il nome comune di "riccio matita".

I ricci sono animali bentonici che vivono a contatto con il fondo marino oppure ancorati ad un substrato solido. In genere vivono nei fondali rocciosi ed alcune specie si scavano delle vere e proprie nicchie nelle rocce usando i denti della lanterna di Aristotele. Il Paracentrotus lividus ad esempio, è un grande scavatore delle rocce in quando scava delle nicchie nelle quali si infossa e vi rimane permanentemente in quanto capita spesso che non riesca più ad uscirne perchè l'apertura fatta quando era in stadi più piccoli, è diventata talmente stretta che non riesce più a venirne fuori e per nutrirsi dipende dai materiali che vengono portati dalla corrente.

I ricci di mare in generale sono animali sedentari e gli spostamenti avvengono con estrema lentezza.

Tutti gli echinoidei sono animali a fototropismo negativo vale a dire che tendono a ricercare l'ombra ed addirittura le specie come il Paracentrotus lividus tendono a coprirsi il corpo con sassolini o pezzetti di conchiglie per ripararsi dalla luce. Addirittura nelle zone tropicali la maggior parte delle specie hanno abitudini notturne e passano il giorno nascosti in anfratti o buchi della roccia.

I ricci regolari che vivono nei substrati rocciosi sono per lo più erbivori brucatori e la loro dieta è a base di alghe. Le due specie A. lixula e P. lividus quando formano dei tappeti nelle rocce spogliano completamente la vegetazione della zona dalle alghe. Le specie di ricci regolari che vivono invece sui fondali incoerenti e in acqua profonde sono detrivori e consumatori della sostanza organica che si deposita nel sedimento così come ci sono ricci irregolari che si nutrono anche di Diatomee, di Foraminiferi e di altri piccoli organismi bentonici.

Nei ricci, di mare come in tutti gli echinodermi i sessi sono separati e non esiste dimorfismo sessuale in quanto i maschi e le femmine sono del tutto simili tra loro. La riproduzione avviene senza accoppiamento in quanto le uova sono deposte nell'acqua dove vengono fecondate dal seme maschile. In diverse specie la gametogenesi è regolata dal fotoperiodo in modo che i maschi e le femmine producano le uova e gli spermatozoi contemporaneamente.

Dall'uovo fecondato si sviluppano le larve planctoniche la cui particolarità è che sono a simmetria bilaterale che attraverso varie metamorfosi arrivano alla forma adulta a simmetria pentaradiale.

In genere non ci sono cure parentali anche se alcune specie sono incubatrici vale a dire che fanno crescere le uova nel peristoma oppure altre specie formano una specie di tenda comprimendo le spine attorno alla bocca (Emocidaris nutrix).

I principali predatori dei ricci di mare possono essere sia invertebrati che vertebrati. Tra gli invertebrati ritroviamo le stelle di mare ed alcuni Gasteoropodi mentre tra i vertebrati le specie Balistes vetula (pesce porco), alcuni uccelli marini quali i gabbiani ed alcuni mammiferi quali la lontra marina.

Il nome Echinodermi deriva dal greco "echinos = aculeo" e "dérma = pelle" per il fatto che numerosi rappresentanti di questa classe sono provvisti si aculei.

I ricci di mare sono molto utilizzati in laboratorio in quanto, grazie alla grande quantità di uova che producono e alla facilità con cui è possibile fecondarle anche in laboratorio, sono i migliori animali per lo studio delle modalità di fecondazione e della embriologia sperimentale.



Le gonadi di questi animali sono molto apprezzate dai buongustai di tutto il mondo sia mangiate tal quali con il pane oppure usate per condire gli spaghetti (entrambi i piatti sono tipici della cucina italiana) ed il periodo migliore dell'anno in cui gustarle è l'inverno (gennaio - febbraio), periodo in cui hanno il massimo di sapidità.

In molte zone d'Italia e del mondo più in generale la loro raccolta al di fuori di precisi periodi dell'anno è vietata (ad esempio in Sardegna la raccolta e quindi il relativo consumo è possibile solo tra i mesi di novembre ed aprile) per non compromettere la loro riproduzione.
Si consumano le uova (piccolissime, raggruppate a stella e di colore giallo-arancione), che l'animale produce in quantità variabili a seconda della stagione e del ciclo lunare.
Oltre al Paracentrotus lividus, esistono moltissimi tipi di riccio di mare - appartenenti a Sottoclassi, Ordini, Famiglie, Generi e Specie differenti - ma essi NON rappresentano una fonte alimentare consuetudinaria per l'essere umano.
Il riccio di mare comunemente utilizzato a scopo alimentare (P. lividus) è spesso oggetto di un equivoco di classificazione scientifica; i profani ne distinguono i due sessi in base al colore, ipoteticamente bruno-viola per la femmina e nero per il maschio, pertanto se ne preleverebbero solo le femmine escludendo i maschi. Tuttavia, se è vero che solo quelli bruno-viola contengono le ben note sacche ovipare "commestibili" mentre quelli neri ne sono privi, se ne ignora la reale motivazione scientifica. Quello nero, infatti, non è il maschio di P. lividus ma un riccio di mare a sé stante, classificato come Arbacia lixula, quindi totalmente diverso per Ordine, Famiglia, Genere e Specie..
Il riccio di mare (pur essendo considerato un ALIMENTO MOLTO PREGIATO dagli intenditori) NON costituisce un prodotto di "ampio consumo", poiché la sua disponibilità sul mercato (bassa), i costi del prodotto commerciale (elevati), la possibilità di catturarlo autonomamente (solo in prossimità del basso Adriatico e del Tirreno), la modalità di consumo (crudo) ed il sapore caratteristico (particolare), rappresentano (fortunatamente) dei fattori limitanti all'espansione di questo alimento.
Il riccio di mare è un animale estremamente prolifero MA facile da catturare; inoltre, avendo una parte edibile molto ridotta, è necessario reperirlo in grosse quantità. Queste caratteristiche fanno del riccio di mare un organismo la cui densità di popolazione subisce negativamente il prelievo sconsiderato da parte dell'uomo e che per questo necessita una regolamentazione di pesca abbastanza rigida (esistente ma spesso ignorata).

La porzione commestibile del riccio di mare è costituita dalle sacche ovipare e possono essere mangiate crude o passate velocemente in padella. Ovviamente, come per altri invertebrati marini (cozze, vongole, ostriche, capesante ecc.), l'assunzione dell'alimento crudo sottopone il consumatore ad un rischio igienico non indifferente. Le uova di riccio di mare sono anche disponibili in commercio sotto vetro, ma il costo del prodotto è a dir poco elevato (per manodopera di pesca e lavorazione, e per la scarsa parte edibile); per questo motivo, i consumatori più accaniti tendono a procurarselo autonomamente o si rivolgono direttamente ai pescatori di frodo. Tuttavia, mediante questi ultimi due metodi di approvvigionamento, il rischio di ottenere della materia prima contaminata risulta molto elevato.
Il riccio di mare sotto vetro regolarmente commercializzato è (quasi sempre) prelevato sulle secche d'alto mare (ad es. tra la Sicilia e l'Africa), quindi lontano dagli scarichi abusivi e dalle foci fluviali inquinate; in tal caso, il rischio di contaminazione risulta estremamente limitato. I pescatori di frodo ed i profani, invece, tendono a ridurre costi e fatica catturando i ricci di mare presso la fascia costiera, ovunque se ne reperiscano; presso queste zone, la densità di virus e batteri (per non parlare di metalli ed agenti chimici) risulta notevolmente più elevata.
Considerando che la preparazione d'eccellenza del riccio di mare è "la crudità", mangiando le uova direttamente nell'animale spaccato o aggiungendole fresche negli spaghetti, è possibile comprendere quanto possa aumentare il rischio igienico-alimentare.
La malattia più frequentemente trasmessa dai ricci di mare crudi è l'epatite virale di tipo A ed E; questi virus, facilmente inattivabili con la cottura, sono in grado di nuocere gravemente alla salute dell'essere umano attaccando il fegato. Come non citare, inoltre, il rischio della famosa tossinfezione batterica da vibrio cholerae, che in passato è stata in grado di sterminare intere famiglie e decimare piccoli centri urbani. Infine, non sono rare alte concentrazioni di coliformi e molti altri batteri.

E' presumibile che le uova dei ricci di mare vantino un profilo nutrizionale simile a quello delle altre specie; dovrebbero vantare un apporto energetico piuttosto limitato, probabilmente intorno alle 100-110kcal/100g, un ottimo quantitativo di proteine ad alto valore biologico e di grassi essenziali, ma anche un elevato contenuto di colesterolo.
Vitamine e Sali minerali sono presumibilmente contenuti i percentuali più che buone.
Se ne consiglia un consumo occasionale o comunque sporadico, avendo particolare attenzione a moderare le porzioni di consumo in presenza di ipercolesterolemia.

In caso di puntura, lavare e disinfettare la parte traumatizzata, nel caso di permanenza di spine si consiglia di estrarle con delle pinzette o con l'ausilio di un ago, nel caso non si riesca ad estrarle la soluzione può essere quella di applicare dell'ittiolo e proteggere la parte con garza, l'unguento farà uscire spontaneamente le spine ed il gonfiore cesserà in pochi giorni. È consigliato rimuoverle entro poche ore in quanto col passare del tempo le spine tendono a penetrare in maggior profondità, e dopo alcuni giorni la pelle tende a riformarsi coprendo la spina, rendendone quindi più complessa la asportazione.


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domenica 30 agosto 2015

L'ARAGOSTA



L'aragosta è un crostaceo estremamente pregiato. Fin dall'antichità, l'aragosta è stata pescata e destinata al consumo dal ceto medio-alto anche se, in alcuni periodi storici, le sono stati attribuiti significati anche negativi. Tuttavia, ad oggi l'aragosta rappresenta il prodotto della pesca più ambito tra tutti e, com'è deducibile, ciò ne ha determinato un prelievo intensivo. Tutte le specie di aragosta vengono pescate col metodo del tramaglio o della nassa, che di per sé non hanno un impatto ambientale particolarmente dannoso. D'altro canto, l'aragosta è una specie stanziale e gregaria, pertanto l'individuazione anche di un solo esemplare può determinare la concentrazione del prelievo e il conseguente abbattimento di un'intera colonia.
Secondo la Convenzione di Berna - Appendice III (legge n. 503 del 5 agosto 1981), l'aragosta mediterranea è una specie protetta; inoltre, come previsto dall'articolo 132 del D.P.R. 1639/68, l'aragosta mediterranea è soggetta a fermo pesca nel periodo che va' dal 1 gennaio al 30 aprile, quando verosimilmente raggiunge la maturità riproduttiva. Fortunatamente, l'aragosta è una specie soggetta ad allevamento, dal quale proviene la maggior parte degli esemplari reperibili sul mercato.

L'aragosta mediterranea è un crostaceo dell'ordine Decapoda che vive nei fondali del mar Mediterraneo e dell'oceano Atlantico orientale.

Ha una taglia medio-grande con una lunghezza media di 20-40 cm e massima di 50 cm ed un peso fino a 8 kg. Il corpo è di forma sub-cilindrica, rivestito da una corazza che durante la crescita cambia diverse volte per ricrearne una nuova. Il carapace è diviso in due parti - il cefalotorace (parte anteriore) e l'addome (parte posteriore) - con una colorazione da rosso-brunastro a viola-brunastro ed è cosparso di spine a forma conica. L'addome è formato da 6 segmenti mobili.

Anteriormente presenta due antenne più lunghe del corpo, ripiegate all'indietro, gialle e rosse a tratti, che hanno la funzione di organi sensoriali e di difesa; sulla fronte sono anche presenti due spine divergenti a V.

L'ultimo segmento del pleon, il telson, assieme agli pleopodi del sesto segmento, forma il ventaglio caudale, utile per il nuoto. Possiede diverse zampe, ma solo una parte vengono utilizzate per camminare.

Essendo un Palinuro non possiede zampe chelate.

Durante tutta la sua vita non smette mai di crescere ed è un animale piuttosto longevo: può infatti vivere anche fino a 70 anni.

È diffusa nel mar Mediterraneo e nell'oceano Atlantico orientale. Vive nei fondali rocciosi dai 20 m fino ai 150 m di profondità.

È una specie gregaria e piuttosto sedentaria, si trovano spesso insieme numerosi esemplari.

Si nutre di plancton, alghe, spugne, anellidi, echinodermi, briozoi, crostacei e pesci, a volte anche carcasse di questi.



La riproduzione avviene a fine estate e in inverno nascono le larve, le quali raggiungono subito i fondali che le ospiteranno per il resto della loro vita.

L'acquisto dell'aragosta richiede tutti gli accorgimenti specifici degli altri crostacei; in virtù della deperibilità precoce, anche l'aragosta necessita un consumo a ridosso della sua morte, dopo la quale si avvia un velocissimo processo di liberazione di gruppi azotati (percepibile con un più o meno intenso aroma di ammoniaca). Ciò significa che, per mangiare una buona aragosta, questa dovrebbe essere acquistata "viva" anche se non esiste alcun obbligo di cuocerla viva; è pur logico che, nel caso la si voglia preparare bollita, sopprimerla con l'utilizzo di un coltello significa comprometterne il contenuto di liquidi fisiologici racchiusi della testa (ricchi di sapore).
Sono molto diffuse le aragoste congelate, anche se - come (e ancor più) il resto dei crostacei - non possiedono lo stesso gusto del fresco.
L'aragosta si presta a tutte le preparazioni ma, in virtù del sapore delicato e caratteristico, è consigliabile consumarla: cruda, bollita o meglio al vapore. Altri metodi di cottura comprometterebbero notevolmente le caratteristiche organolettiche e gustative del prodotto.

L'aragosta ha una notevolissima quantità di scarto e la parte edibile è limitata a meno di 1/3 del totale.
L'aragosta è ricca di proteine ad alto valore biologico, è povera di lipidi (la maggior parte dei quali sono grassi polinsaturi o grassi buoni) e contiene tracce di zuccheri; l'aragosta è un alimento proteico assolutamente ipocalorico e si presta anche a regimi alimentari dimagranti. Per contro, a causa del relativo contenuto di colesterolo, rappresenta un alimento poco consigliabile alla dieta contro l'ipercolesterolemia.
L'aragosta è ricca di vitamine idrosolubili, soprattutto tiamina, riboflavina e niacina, ma non sono disponibili i valori relativi alle vitamine liposolubili; l'aragosta potrebbe essere ricca anche di retinolo equivalenti.
Il contenuto in ferro è discreto e "dovrebbe" apportare anche buone quantità di potassio (valore non reperibile).
Il guscio dell'aragosta è ricco di chitosano, un polisaccaride trattato industrialmente con soluzioni alcaline al fine di ricavarne la chitina; quest'ultima molecola, frequentemente impiegata nella formulazione di integratori alimentari, dovrebbe vantare la caratteristica di legare i grassi alimentari e impedirne l'assorbimento intestinale. I risultati effettivi di questa applicazione sono comunque inconcludenti.



In alcune ricette viene applicato il metodo della cottura a vivo in acqua bollente, in quanto è opinione diffusa che gli invertebrati non percepiscano il dolore. Al riguardo il governo norvegese ha richiesto nel 2005 uno studio scientifico che ha confermato come il loro sistema nervoso non è in grado di elaborare tali sensazioni. Nel febbraio 2013 è stato pubblicato uno studio di ricercatori irlandesi secondo il quale invece i movimenti del crostaceo al momento dell'immersione non sarebbero dovuti a riflessi automatici, ma a reale percezione del dolore.

L'alto contenuto di emocianina nella loro emolinfa - circolazione comune di sangue e linfa - dà la colorazione viola, la quale però è mantenuta soltanto quando l'aragosta resta in profondità. Alla luce del sole o in superficie il colorito viola svanisce. Spesso l'aggiunta di ammoniaca ai crostacei fissa la colorazione rossa o viola.

Le aragoste soffrono, così come accade a granchi e crostacei, quando vengono immerse ancora vive nell’acqua bollente. La scoperta, pubblicata sul “Journal of Experimental Biology”, contraddice quanto si è creduto finora, ossia che i loro movimenti fossero semplicemente dei riflessi automatici.

A dimostrare che, proprio come i mammiferi, i crostacei possono provare ed esprimere un’autentica sofferenza è l’esperimento condotto dai biologi Elwood e Barry Magee, dell’irlandese Queen’s School of Biological Sciences. Il risultato è la conferma definitiva di quanto gli stessi ricercatori avevano osservato in passato studiando gamberi e paguri. L’esperimento è stato condotto su decine di granchi comuni che, sottoposti ad una piccola scossa elettrica, hanno cercato di evitare la seconda nascondendosi: per gli autori della ricerca è un comportamento che smentisce decisamente quanto si è creduto finora, ossia che i crostacei non provassero dolore. I ricercatori non hanno dubbi in proposito: “L’esperimento”, spiega Elwood “ è stato progettato in modo da poter distinguere chiaramente le reazioni dovute al dolore da quelle generate da un movimento riflesso chiamato nocicezione”. Quest’ultima è una reazione generata dalle terminazioni nervose periferiche. Mentre la prima è una reazione consapevole, la seconda è una sorta di automatismo.

I ricercatori sono convinti che la loro scoperta non potrà non avere conseguenze sul modo in cui aziende alimentari e chef trattano granchi, gamberi e aragoste. E gli chef attendono adesso ulteriori indicazioni dal mondo della ricerca. “Ho sempre saputo che immergendo in acqua bollente dalla testa un’aragosta non sente dolore. Nessuno vuol far male agli animali e io sono sempre stato molto scrupoloso”, commenta lo chef Heinz Beck. “Se non va bene quanto da sempre insegnato nelle scuole di cucina” aggiunge, “aspettiamo ora dai ricercatori indicazioni su metodi indolori di soppressione dei crostacei”.
Beck afferma di avere “sempre rifiutato metodi crudeli che uccidono gli esemplari vivi tagliandoli a metà con un colpo di coltello. È atroce, e io non l’ho mai fatto. Ma se non va bene la tradizionale cottura in acqua bollente, ci diano indicazioni per una dolce morte perché la clientela continua a chiedere, anche in tempi di crisi, i crostacei”. Nel frattempo, conclude, “rimango scrupoloso, ma continuerò a portali a tavola”.


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L'ISOLA DELLE FEMMINE



L'Isola delle Femmine è un'isola sita nel mar Tirreno, in Sicilia.

Amministrativamente appartiene all'omonimo comune della provincia di Palermo.

Risalgono al periodo ellenistico i resti di sette vasche in cocciopesto per la preparazione del garum, una ricercata salsa di pesce, commerciata nel Mediterraneo: la traccia di uno stabilimento per la lavorazione del pesce rende il luogo importante dal punto di vista archeologico. Il ritrovamento nel mare antistante di ceppi di ancore in piombo e resti di anfore puniche e romane accresce il valore del sito.

L'isolotto di Isola delle Femmine è stato considerato sin dall'antichità e per tradizione un luogo da impiegare a scopo economico e difensivo grazie alla sua posizione e conformazione, che lo rende un sicuro riparo contro i venti di levante per le piccole imbarcazioni. L'isolotto si trova, infatti, a 300 metri dalla costa ed ha una conformazione ovale dovuta all'erosione dei forti venti che spirano nella zona. Dal promontorio dell'isola si possono vedere il monte Pellegrino, il promontorio di Capo Gallo, l'isola di Ustica e i comuni di Carini, Isola delle femmine e Capaci.

Dato che il terreno, per la particolare configurazione del suolo, non era adatto alla coltivazione, l'unico mezzo di sostentamento per gli abitanti della zona era la pesca. Non distante infatti in quelle acque vi era stagionalmente il passaggio dei tonni e ben presto i pescatori della vicina Capaci si organizzarono per la pesca del tonno.



La torre di Fuori, costruita in prossimità del punto più alto dell'isola (35 m sul livello del mare), risale al XVI secolo. Ha pianta quadrata, con spessori murari di oltre due metri che la rendevano una fortezza inserita nel sistema difensivo delle torri costiere contro gli attacchi dei pirati alla terraferma. Sfortunatamente, gli eventi che hanno caratterizzato lo sbarco degli Alleati durante la Seconda guerra mondiale, l'incuria del tempo ed il disinteresse hanno trasformato la torre in un rudere, il cui muro, quasi intatto, al di sopra della ripida scogliera del versante nord è ancora il volto che l'isola offre al mare.

La riserva, istituita nel 1997 dalla Regione Siciliana e affidata alla LIPU dal 1998, è nata per tutelare il patrimonio floristico locale e favorire la sosta delle specie migratorie.

Sull'isola è presente una torre, ormai abbandonata ed in stato fatiscente. Una prima vecchia storia vuole che in quella torre fossero segregate delle donne che dovessero scontare una qualche pena prevista dalla legge. Una sorta di carcere femminile che poi avrebbe dato il là al nome dell'isolotto.

Un secondo racconto narra che ben 13 giovani donne turche fossero state abbandonate su una barca senza nocchiero, perchè il mare le punisse per le loro colpe.
Dopo giorni e giorni di solo mare e sale le fanciulle approdarono su un isolotto della baia di Carini.
Lì vissero per 7 lunghi anni, quando finalmente i parenti, lacerati dal rimorso, le ritrovarono a seguito di lunghe e fiaccanti ricerche.
Una volta che le famiglie si riunirono, decisero di non tornare più indietro. Si stabilirono sulla terra ferma e la chiamarono Capaci ("CCa-paci" ovvero: qui la pace), mentre l'isolotto che si era preso cura delle loro donne fu battezzato: Isola delle Femmine.

Una terza leggenda, invece, scrive di un conte, il conte di Capaci, innamorato di una bellissima donna che, però, non lo ricambiava.
Spinto dalla gelosia e dall'astio per il rifiuto egli l'avrebbe condannata a condurre una vita di solitudine sulla torre di un isolotto, così che nessuno potesse averla.
Sola e disperata, una notte di maestrale, si suicidò gettandosi tra i flutti che battevano sugli scogli.

Da allora, quando soffia il vento da nord-ovest, si possono ancora sentire le sue grida strazianti di dolore provenire dall'isolotto.




Ancora, si dice che vi è una testimonianza di Plinio il Giovane, che in una lettera indirizzata a Traiano, gli scrisse che l’isola era la residenza di bellissime fanciulle che si offrivano in premio ai vincitori delle battaglie.

Altra ipotesi che il nome dell’isolotto è dovuto dal latino “Fimis”, la traduzione dell’arabo “fim”, che indicherebbe la bocca: ossia il canale che separa l’isola dalla costa. Ma, secondo altri, il nome dell’isola deriverebbe da “Insula Fimi” in riferimento ad Eufemio, governatore bizantino della Sicilia.

In realtà il nome di isola delle femmine è stato acquisito dall'isolotto e poi dal comune solo per via un lungo processo di italianizzazione del vecchio nome dell'isolotto. Un tempo lo si conosceva come “insula fimi”, che a sua volta sta per “isola di Eufemio”, un vecchio generale messinese diventato poi governatore bizantino della Sicilia.

La torre non era un carcere, quanto una comoda postazione di avvistamento. Utile per difendersi dall'arrivo improvviso di navi sconosciute.





LA TORPEDINE



Torpedine deriva dal latino torpedo-dinis, da torpere, intorpidire, per l'effetto delle scariche elettriche del pesce.
Le torpedini sono pesci cartilaginei di forma appiattita caratterizzati dalla presenza, ai lati del corpo, di un particolare organo definito organo elettrogeno in grado di produrre un campo elettrico la cui scarica può variare, a seconda delle specie, dagli 8 ai 220 volt.

Sono diffuse in gran parte dell'Oceano Atlantico (con alcune specie endemiche anche del Mediterraneo), Pacifico ed Indiano. Pur essendo eccellenti nuotatori, passano gran parte del loro tempo adagiate sui fondali sabbiosi e melmosi, dove la loro forma appiattita e la loro colorazione smorta consentono loro di mimetizzarsi alla perfezione e risultare perciò invisibili alle loro prede.



Sono animali cacciatori, e la maggior parte delle specie utilizza la propria scarica elettrica per stordire o uccidere le prede.

Sebbene la maggior parte di queste siano costituite da piccoli pesci, alcune specie di torpedini possono sviluppare una scarica sufficientemente potente da tramortire o, in casi estremamente rari, uccidere un essere umano adulto.



La loro innervazione è assicurata da fasci di fibre che partono dai lobi elettrici dell'encefalo e si ramificano fra i prismi. L'entità delle scariche non supera i 60-80 volt. Essa dipende dalle dimensioni del pesce e dalla sua condizione fisica, e diminuisce quando le scariche si ripetono. Un pesce spossato da numerose scariche produce, toccandolo, solo un tremito e impiegherà parecchi giorni per riportare la tensione della propria batteria al livello normale. Le scosse sono più violente sott'acqua e più sensibili quando toccano contemporaneamente le superfici superiore ed inferiore del pesce. Le scosse più forti possono gettare a terra un uomo. Le torpedini sono pesci vivipari aplacentati. Gli embrioni si sviluppano nell'utero della madre grazie alle branchie embrionali molto sviluppate, che estraggono l'ossigeno e gli elementi indispensabili per la crescita dalle secrezioni uterine.


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sabato 29 agosto 2015

LA MURENA



La murena vive nel Mar Mediterraneo e nelle acque calde dell’Oceano Atlantico orientale; popola gli anfratti delle scogliere sommerse, lasciando sporgere nell’acqua libera solo la parte anteriore del corpo. Di colore bruno con variegature gialle e bianche, questo lungo pesce anguilliforme e privo di scaglie ha testa allungata, occhi rotondi e una bocca molto ampia, armata di denti appuntiti ricurvi all’indietro, atti a strappare; la lingua è assente. Assai vorace, la murena si nutre di pesci, crostacei e molluschi (particolarmente seppie e polpi), che attende restando immobile e poi assale con improvvisi agguati. La carne della murena era apprezzata già nell’antichità, tanto che gli antichi Romani per allevarla costruivano vasche apposite, chiamate murenari, in comunicazione con il mare. Nonostante venga a volte descritta come pericolosa per l’uomo, lo aggredisce solo se si sente disturbata o minacciata; in ogni caso il suo morso è assai doloroso e la saliva contiene una blanda tossina.




Popola fondali scogliosi o corallini privi di sedimentazione e ricchi di anfratti a profondità tra 5 e 50 metri. Gli individui giovanili si trovano spesso in acque bassissime.

Come tutti gli anguilliformi la murena presenta corpo serpentiforme e pinna dorsale, caudale e anale unite in una pinna mediana continua. Il corpo è piuttosto massiccio e relativamente compresso ai lati per tutta la sua lunghezza, la sezione del corpo è ovale e non rotondeggiante come, ad esempio, nell'anguilla. Gli occhi sono abbastanza piccoli; la bocca è molto ampia e armata di denti lunghi e appuntiti rivolti all'indietro. La narice posteriore è dotata di un tubulo ed è situata davanti all'occhio. L'apertura branchiale è piccola, rotondeggiante, situata appena dietro la testa. La pinna dorsale inizia subito dietro agli occhi; la pinna anale ha la sua origine leggermente più indietro della metà del corpo. In questa specie sono assenti le pinne ventrali (come in tutti gli anguilliformi) e le pinne pettorali. Manca inoltre la lingua. La pelle è viscida e priva di scaglie visibili.



Il colore di fondo è bruno scuro o quasi nero completamente cosparso di macchie giallastre di forma, numero e dimensioni estremamente variabili.

La taglia massima è di 150 cm, la misura più comune è di circa 80 cm.

È un pesce notturno e territoriale che trascorre le ore di luce nascosto in tana.

Si nutre di pesci, crostacei e molluschi, soprattutto cefalopodi. Caccia di notte serpeggiando tra gli scogli e ricercando le prede con l'olfatto molto sviluppato.

La riproduzione avviene in estate. La larva è un leptocefalo.

La murena si cattura soprattutto con nassa e palamiti. Abbocca con facilità alle lenze, soprattutto di notte, e spesso trancia il terminale con i denti. È anche preda frequente dei pescatori subacquei. Le carni sono buone ma ricche di lische.

La murena può attaccare anche senza essere provocata a causa della sua territorialità. È particolarmente rischiosa l'abitudine di certi subacquei di offrire cibo alle murene con le mani. Il morso della murena è molto doloroso ma non è certo se siano presenti tossine nella saliva. Tossine in grado di provocare l'emolisi sono invece certamente presenti nel sangue della murena e di numerosi altri anguilliformi come l'anguilla e il grongo. Queste tossine, di natura proteica, sono attive solo se introdotte nel circolo sanguigno dell'uomo mentre sono innocue per ingestione. Vengono comunque inattivate dalla cottura. Circolano sul conto di questo animale dall'aspetto inquietante alcune leggende sinistre e del tutto irreali come, ad esempio, che nell'Antica Roma, dove le murene erano tra i pesci più apprezzati, i vivai di questi pesci venissero alimentati con carne umana.



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venerdì 28 agosto 2015

IL SUCCIASCOGLIO



Ha corpo schiacciato dorso ventralmente nella parte anteriore, che si rastrema verso la zona codale. Il profilo è molto convesso e il muso è appiattito a becco d'anatra e la zona al disopra delle pettorali rigonfia.
Gli occhi sono posti in alto e sono orientabili indipendentemente uno dall'altro. Sul bordo posteriore delle narici anteriori anteriore è impiantata un'appendice dermica, divisa a volte in rami secondari.
La bocca è molto ampia e la mascella superiore copre completamente quella inferiore. Le labbra sono carnose e in ogni mascella si notano numerosi piccoli dentini villiformi disposti in una fascia.
L'unica pinna dorsale è composta solo di raggi molli (17-21) e si unisce con una breve membrana alla pinna codale (11-14 raggi) nello stesso modo dell'anale (10-12 raggi), che ha lo stesso andamento ma è più corta. Le pinne pettorali (20-23 raggi) sono corte, a bordo arrotondato e unite con un'altra membrana alle ventrali, che sono a base ampia e raggi brevi e fiancheggiano la ventosa adesiva che è formata da due dischi, uno anteriore e uno posteriore. All'interno del disco vi sono delle serie di papille schiacciate.



Il colore di fondo varia dal giallo-verdastro all'ocraceo. Sul corpo possono esserci macchie più o meno grandi di colore rossiccio, bruno scuro o azzurrastro,  ma può anche non esserci alcuna macchia. Gli ocelli azzurri bordati di nero che appaiono sulla testa, possono essere più sbiaditi o non esistere affatto.
Pertanto la colorazione non è un elemento determinante nella classificazione di questa specie.



Vive in fondi sassosi da pochi decimetri a un metro circa, nascosto sotto le pietre ai quali aderisce col disco ventrale. La femmina depone 200-300 uova giallo oro brillante, che fissa alle pietre o all'interno delle conchiglie vuote, dove il maschio le sorveglia fino alla schiusa, che avviene dopo circa 15 giorni. Si nutre di piccoli  organismi animali e residui organici. Si cattura, per gli acquari, con piccoli retini a mano. Lunghezza massima di circa 8 cm.
Comune su tutte le coste italiane, specialmente nel Tirreno; scarso nell'Adriatico occidentale.



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L'ACTINIA EQUINA



È un'anemone di mare di piccole dimensioni (3-9 centimetri), di colore dal rosso vivo al rosso brunastro, munita di tentacoli urticanti, talvolta di colorazione più chiara.

Il corpo è cilindrico ed ha alla base un disco pedale più ampio del tronco sovrastante. L'apertura boccale è circondata da circa 200 tentacoli piuttosto corti.

Durante la bassa marea spesso rimane al di fuori dell'acqua, assumendo l'aspetto di una piccola pallina di aspetto gelatinoso con un incavo al centro. Quando è completamente immersa estroflette i suoi tentacoli e assume una forma simile a quella di un fiore.

Vive ancorata alle rocce ma è in grado di spostarsi, seppur molto lentamente, scivolando sul disco pedale.

Ha una forte resistenza alle sollecitazioni esterne, grazie anche alla sua capacità di resistere senza acqua e ad alte temperature per molte ore.

È una specie carnivora; si nutre di molluschi, crostacei e piccoli pesci che cattura con i suoi tentacoli, provvisti di cellule urticanti che paralizzano le prede.

Di regola si riproduce per accoppiamento tra esemplari di sesso differente, ma può anche riprodursi assessualmente per scissione.

Pressoché cosmopolita, vive nella zona intertidale dei mari dell'area temperata, dall'Atlantico all'Indo-Pacifico.

Comune nel mar Mediterraneo ove popola gli scogli costieri e i trottoir a vermeti.
Specie robusta ed estremamente adattabile, si presta ad essere allevata facilmente in acquario.



Vive lungo la costa, sulle pareti rocciose della zona mediolitorale (caratterizzata da specie che sopportano o esigono brevi emersioni) ed infralitorale superiore (caratterizzata da specie provenienti dalla zona mesolitorale inferiore e da specie costantemente immerse), lungo le banchine dei porti, negli interstizi, sulla superficie inferiore delle pietre in condizioni a volte difficili.

Durante la bassa marea il pomodoro di mare si trova spesso fuori dall'acqua. Resiste a questa condizione grazie alla capacità di ritrarre i tentacoli assumendo una forma subsferica che gli conferisce appunto il nome con il quale è conosciuto da tutti. Quando chiude tutti i tentacoli, trattiene dell'acqua al suo interno per evitare la disidratazione.

Quando la marea si alza, e più precisamente nel momento in cui l'acqua torna a coprirla, l'attinia si «riapre», estroflettendo i suoi tentacoli alla ricerca di cibo: organismi planctonici, piccoli crostacei e pesci, o detriti organici che giungono alla portata dei suoi tentacoli. I tentacoli, infatti, hanno proprietà adesive che bloccano la vittima e successivamente la paralizzano con i filamenti urticanti. A questo punto portano la preda verso il centro del corpo, dove si apre la grande bocca.

Il corpo è cilindrico, dal diametro di circa 7 cm, e può raggiungere i 6 cm di altezza. I tentacoli misurano circa 2 cm di lunghezza e sono piuttosto brevi, disposti a corona intorno all'apertura boccale.

Una caratteristica peculiare di questo organismo è la presenza di organelli urticanti situati soprattutto sui tentacoli e intorno alla bocca. Il corpo è costituito da 2 strati di cellule (epidermide e gastrodermide) tra i quali è compresa una sottile mesoglea acellulare.
All'interno del corpo vi è una cavità detta celenteron, che funge prevalentemente da cavità digerente, e si apre all'esterno attraverso una sola apertura che serve sia da bocca che da ano.

In sostanza, come quasi tutti i celenterati, l'attinia è uno «stomaco con i tentacoli» senza un apparato nervoso centralizzato ma disposto a «rete».



Le modalità riproduttive del pomodoro di mare sono controverse, e non c'è totale accordo tra gli esperti: l'ipotesi più probabile, è che esistano due forme di A. equina: una che si riproduce sessualmente, ed una asessualmente. Il periodo riproduttivo si estende per tutto l'anno con picchi da marzo a settembre. Ne caso di riproduzione sessuale,  La fecondazione è interna e, poco dopo, gli embrioni abbandonano il genitore per trasformarsi in una larva ciliata capace di muoversi liberamente. Le larve planctoniche che riescono a sopravvivere si sviluppano fino allo stadio di planula. Successivamente vengono aspirate da un'attinia adulta e completano il loro sviluppo nella sua cavità gastrovascolare. A questo punto lasciano l'attinia adulta e vagano per breve tempo nell'acqua. Si fissano poi a qualche substrato sommerso, ove emettono i tentacoli e iniziano la loro vita. Actinia equina è in grado di vivere molti anni.

I pomodori di mare sembrano essere tra gli animali più innocui al mondo, ma in realtà sono animali molto aggressivi. Si ha l'impressione che sia il moto ondoso a far dondolare dolcemente nell'acqua i tentacoli che circondano la bocca. Ma è lui, l'animale, che volontariamente allarga i tentacoli in tutte le direzioni per estendere al massimo il raggio del suo territorio di caccia. L'animale cattura, paralizza e uccide pesciolini, crostacei e molluschi di piccola taglia con i cnidociti, cellule presenti anche negli altri Celenterati. Ciascun cnidocita è una singola cellula che contiene una capsula, la nematocisti, piena di liquido tossico. Al suo interno c'è un filamento cavo avvolto a spirale con una parte terminale che sporge all'esterno, detta cnidociglio. Appena questa parte esterna viene sfiorata, in una frazione di secondo lo stimolo meccanico si trasmette al filamento che scatta all'esterno iniettando nel disturbatore o nella preda il liquido velenoso. I tentacoli lavorano a tempo pieno per sostituire le capsule esplose. L'anemone, così come la medusa, non rimane mai “disarmato”.

Questi accaniti cacciatori sono anche fieri difensori del proprio territorio, mostrandosi a volte aggressivi anche verso i propri simili. L'aggressività è stimolata dal contatto tra i tentacoli di due attinie adiacenti: l'attinia più grande è generalmente colei che aggredisce, mentre l'altra è la vittima. Il pomodoro di mare che aggredisce rigonfia speciali vescicole a forma di sacco, che stanno normalmente nascoste sotto i tentacoli. Sono gli "acroragi": appena toccano un anemone estraneo, da essi si stacca la parte terminale che si incolla al corpo dell'antagonista. Poiché questa parte è piena di nematocisti velenose, viene iniettata in questo modo nei tessuti del vicino una dose massiccia di veleno. L'attinia sconfitta, riconosciuta la superiorità dell'avversario, ritira tentacoli e acroragi e si allontana in cerca di un posto più tranquillo.

In ogni caso, nessuna attinia può essere tanto tranquilla quando in giro ci sono i suoi predatori, come ad esempio il nudibranco Aeolidia papillosa (che di pomodori di mare va ghiotto), ed i picnogonidi, piccoli artropodi chelicerati marini che succhiano liquidi dal corpo dell'attinia, aggrappati alla colonna o al disco pedale.


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IL TROTTOIR A VERMETI



Il termine trottoir (letteralmente “marciapiede”), deriva dalla letteratura scientifica francofona, ed è quello impiegato più comunemente dai ricercatori italiani di biologia marina. Esistono in realtà termini italiani equivalenti. Il termine "piattaforma a vermeti" (senz’altro linguisticamente più corretto di trottoir), è utilizzato diffusamente in campo biologico, mentre nella letteratura geologica storica è generalmente preferito il termine "panchina" per indicare facies sedimentarie del tipo descritto in questa voce (sia dominate da Vermetidi che da altri taxa). Un esempio classico di queste ultime facies è la cosiddetta Panchina tirreniana, caratterizzata da estesi accumuli conchigliari, che caratterizza il sottopiano statigrafico Tirreniano (Pleistocene del mediterraneo) ed è costituita da specie atlantiche ad affinità tropicale (fra cui anche diverse specie di Vermetus) denotanti un clima più caldo dell’attuale.

Il Trottoir a vermeti o “piattaforma a vermeti” è una piattaforma carbonatica litoranea che si espande verso il mare, formata in seguito ad un processo di cementificazione di gusci di alcune specie di molluschi della famiglia dei Vermetidi. Si tratta di un’importante biostruttura tipica del Mar Mediterraneo, per molti versi simile alle barriere coralline. La sua crescita è legata principalmente all’azione di due specie di molluschi gasteropodi: Dendropoma petraeum e Vermetus triquetrus.

“ll trottoir fu descritto da Jean Louis Armand de Quatrefages de Bréau nel suo volume intitolato: “Souvenirs d’un naturaliste”, pubblicato a Parigi intorno al 1854. Nel 1952 Molinier e Picard si recavano in Sicilia per ritrovare i luoghi di Quatrefages, e non solo, e ridescrivevano il trottoir di Torre de l’Isola con molti più dettagli. Nel 1964 la formazione veniva ripresa da Pérés e Picard nel:” Nouveau manuel de bionomie benthique de la mer Méditerranée” pubblicato a Marsiglia. Negli ultimi venti anni l’argomento è stato trattato dai malacologi, che a Palermo sono ben rappresentati da Riccardo Giannuzzi e da Francesco Pusateri. Inoltre, Pandolfo A., Chemello R. & Riggio S. (1992) con: “Notes sur la signification écologique de la malacofaune d’un “Trottoir à Vermets” le long de la côte de Palerme (Sicile)” e con altri lavori.”



Il trottoir è edificato dal mollusco gasteropode vermetide Dendropoma (Novastoa) petraeum (Monterosato, 1892), considerato il principale biocostruttore del trottoir a vermeti (Chemello et al., 2000), in associazione con alcune alghe rosse incrostanti, come Neogoniolithon brassica – florida (Harvey) Setchell & Mason (Fig.2), considerata una componente importante dei trottoir a vermeti. Quest’ultimo è comune in “cuvettes” e pozze di marea, e non si trova mai su altre alghe. Alla piattaforma si associa spesso il Vermetus triquetrus (Bivona Ant., 1832) che, sia in forma solitaria che gregaria, occupa le porzioni perennemente immerse della struttura poiché, differentemente dal Dendropoma petraeum, presenta un opercolo vestigiale poco adatto per resistere ai periodi di secca.

Dendropoma petraeum può essere considerato una specie “strutturale”. Dendropoma petraeum è un mollusco gasteropode sessile endemico del Mediterrano che ha una robusta conchiglia di forma tubulare a crescita irregolare.

E’ una specie gregaria e coloniale adattata a vivere nella fascia intermareale grazie alla presenza di uno spesso opercolo corneo che chiude l’apertura della conchiglia nei periodi di emersione cui l’animale è sottoposto durante l’alternanza dei cicli di marea. La specie si nutre esclusivamente attraverso filtrazione per mezzo di ciglia, che con l’ausilio di sostanze mucillaginose intrappolano piccoli organismi contenuti nell’acqua (Calvo et al., 1998). D. petraeum può essere considerato la principale specie biocostruttrice (30%) del reef a vermeti (Chemello et al., 2000).

Dendropoma petraeum presenta le gonadi di entrambi i sessi. Le uova presentano uno sviluppo diretto (Calvo et al., 1998) e sono incubate all’interno della cavità del mantello in una capsula ovigera. La schiusa delle uova è diretta, ed i giovanili sono in grado di insediarsi sul substrato subito all’esterno della conchiglia materna.

In uno studio comparativo tra coste con trottoir a vermeti e coste nelle quali queste strutture sono assenti, è stato evidenziato come questa formazione contribuisce all’aumento della diversità.

La componente malacologica è costituita da circa 46 taxa, tra questi ad esempio Mytilaster minimum (Poli, 1795), Cardia caliculata (Linnaeus, 1758), Pisinna glabrata (Von Mühlfeldt, 1824)



Per quanto riguarda la componente algale, sono stati identificati 129 taxa.

I trottoir a vermeti sono distribuiti in tutto il Mediterraneo, anche se le strutture più imponenti sono descritte per il settore orientale, in particolare lungo le coste di Israele (Safriel, 1975) e del Libano (Dalongeville, 1977).

Nella Sicilia nord-occidentale la distribuzione delle biocostruzioni a vermeti coincide con le formazioni carbonatiche costiere a prevalente esposizione ad Ovest/Nord-Ovest (Dieli et al., 2001). I siti sono: Cefalù, Capo Zafferano, Capo Gallo, Punta Barcarello, Isola delle Femmine, Punta Raisi, Tonnara del Cofano e Isole Egadi.

Dall’osservazione dei trottoir siciliani è possibile definire uno schema morfologico generale in cui, secondo un transetto costa-largo, distinguiamo le seguenti componenti:

Cintura infralitorale a Cystoseira amentacea var. stricta: Posta inferiormente al bordo esterno della piattaforma.

Bordo esterno: Costituito da una spessa incrostazione di Dendropoma, a volte superiore ai 40 cm, molto articolata e fessurata, che rappresenta la vera porzione attiva del trottoir, in espansione verso il largo.

Cuvettes: Una o più depressioni dal diametro variabile da qualche decimetro ad oltre un metro ed una profondità generalmente inferiore ai 50 cm. Le cuvettes di dimensioni maggiori possono essere paragonate a piccole lagune retrorecifali.

Cornice prossimale: Di pochi centimetri di spessore, formata dalle incrostazioni di due rodoficee, Neogoniolithon brassica-florida (sin. Spongites notarisii) e Lithophyllum byssoides (sin. L. tortuosum), quest’ultima considerata un marcatore del trottoir.

Nella Convenzione di Berna del 1979 sulla “Conservazione della vita selvatica e dell’ambiente naturale in Europa”, ratificata dall’Italia nel 1981 (L. 503 del 5/08/1981) e recepita con i suoi allegati soltanto dopo il 1996, viene elencato tra i molluschi il Dendropoma petraeum (Monterosato, 1884), principale costruttore di piattaforme a vermeti. Da sottolineare che la protezione delle specie elencate negli allegati I e II della Convenzione impone la protezione dell’habitat in cui queste si trovano. Tuttavia, questa Convenzione non ha lo stesso potere della Direttiva Habitat (Cinelli et al., 2009). La Convenzione di Barcellona del 16 febbraio 1976, modificata nel 1995, e i protocolli elaborati nell’ambito di tale Convenzione mirano a proteggere l’ambiente marino e costiero del Mediterraneo, incoraggiando la progettazione di piani regionali e nazionali che contribuiscono allo sviluppo sostenibile.

Nel protocollo SPA/BIO (Convenzione di Barcellona) troviamo una serie di criteri finalizzati ad individuare le aree di particolare interesse per la conservazione della biodiversità mediterranea, ASPIM (Aree Specialmente Protette di Importanza Mediterranea). La presenza e lo stato di associazioni animali e vegetali meritevoli di salvaguardia è uno dei requisiti più importanti che viene preso in considerazione per istituire una ASPIM.


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giovedì 27 agosto 2015

IL GRANCHIO



Il granchio, conosciuto dagli esperti col nome di brachyura, appartiene all’ordine dei crostacei decapodi acquatici: è diffuso nelle acque marine di tutto il mondo.

È dotato di una dura corazza, chiamata esoscheletro che ricopre tutto il corpo: quest’ultimo è diviso in due zone, il cefalotorace e l’addome. Il primo comprende il capo e il torace, ed è coperto da una sorta di guscio detto carapace da cui originano 4 paia di arti più le chele che usa per cibarsi, per difendersi e anche per scavare e come mezzo di seduzione nell'atto che precede l’accoppiamento. È risaputo che il granchio, vista la posizione delle zampe, si esibisce in una camminata laterale molto particolare.



Sul capo vi sono gli occhi dalla forma sferica, posti su peduncoli mobili che gli permettono di osservare tutto intorno, e delle antenne che possiedono terminazioni tattili e olfattive. L'addome è rettangolare nel maschio e arrotondato nella femmina.


Alcune specie modificano la corazza due volte all'anno: sia durante la stagione primaverile, sia in quella autunnale. Questo cambiamento trae origine non tanto dalla crescita del crostaceo, quanto dal cambiamento meteorologico che si ha in questi due periodi dell’anno.

Molte specie sono notturne, quando la presenza di potenziali predatori è minore; l'alimentazione varia da specie a specie e comprende animali, piante, carcasse.



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L'ISOLA DEL GIGLIO



L’ Isola del Giglio da anni è riconosciuta per le meraviglie del suo ambiente naturale e del suo mare cristallino. Nel 2008 è stata dichiarata località turistica costiera numero uno dalla Guida Blu di Legambiente e Touring Club,  il più alto riconoscimento in Italia per le qualità e le caratteristiche ambientali, con la consegna delle Cinque Vele per il mare più pulito d’Italia.

Infatti sono il mare e i suoi fondali il fiore all’ occhiello di un’ isola che da sempre presta particolare attenzione alla tutela e al preservamento del suo ambiente naturale, che ha saputo resistere alla tentazione di una cementificazione selvaggia sul proprio territorio.
Questa particolare cura che gli isolani hanno della propria terra, e la varietà della sua costa, che alterna scogliere a picco sul mare a spiagge più o meno ampie si adatta facilmente a più tipologie di turisti. Gli amanti della barca potranno godersi il periplo delle due isole, seppur tenendo conto dei divieti presenti a Giannutri, gli appassionati di immersioni avranno molto da scrutare nei fondali marini ricchi di specie ittiche o alla ricerca di qualche antico relitto affondato, i giovani e le famiglie avranno a disposizione 4 spiagge principali dove sdraiarsi al sole oltre a quelle minori o alle calette disseminate lungo tutta la costa.

Da ricordare che i fondali dell’ Isola del Giglio sono tra i più noti ed apprezzati in Italia, con un seguito di estimatori che giungono qui annualmente da tutta Europa. Tra i pertugi che si aprono tra le rocce, fare capolino granchi, murene ed aragoste, il passaggio di maestose cernie,si vedono ricci e lampate (arselle) aggrappati agli scogli ed in primavera  interi banchi di acciughe volteggiare sotto la superficie. Più a largo è invece territorio di giganteschi tonni, branchi di ricciole, barracuda e lecci, ma lo spettacolo più entusiasmante lo offrono i delfini che talvolta sono visibili anche nei pressi della costa e talvolta si divertono a rincorrere le rotte delle imbarcazioni.

Non vi sono molti animali stanziali sull’Isola del Giglio. La famiglia più numerosa è quella dei conigli selvatici e quella dei mufloni, importati e allevati alla riserva del Franco. Tra i volatili si annoverano quelli di passo, ma il più noto è il Gabbiano Reale. Numerosa la presenza dei rapaci come il Gheppio, Poiana, Falco Pellegrino, Corvo Imperiale. Comuni sono anche il Barbagianni, l’Assiolo, la Civetta e i Pipistrelli.

I mammiferi che vivono al Giglio sono il coniglio selvatico, molosso del testoni, muflone, orecchione, pipistrello comune, pipistrello di Schreibers, ratto, serotino comune, topo domestico.

Lungo i sentieri che sfiorano la macchia e passano all'interno dei boschi di lecci si possono vedere numerose lucertole che fuggono impaurite al passaggio degli escursionisti, come si può scorgere qualche raro e innocuo biacco in cerca di rifugio dietro qualche recesso delle rocce o nei terreni rigogliosi di vegetazione: biacco, lucertola sicula tirrenica, lucertola campestre, il Discoglosso Sardo e la Lacerta sicula tyrrenica fa parte di una razza endemica che si ritrova anche nella vicina isola di Giannutri.
Per gli anfibi possiamo ricordare un anuro la cui presenza, oltre che al Giglio, è riscontrata nelle altre zone dell'Arcipelago Toscano nonché all'Argentario, in Sardegna, in Corsica e nelle isole di Hyères di fronte alla Costa Azzurra.



Tra i molti insetti che popolano il Giglio possiamo trovarne uno di particolare interesse che, stranamente, vive principalmente nella lontana penisola Iberica: la Potoria Oblunga, raro e curioso scarabeo.

Nel mondo sottomarino figurano numerose specie ittiche che trovano in queste acque limpidissime e incontaminate il loro ambiente ideale per poter vivere e riprodursi. Diamo qui un piccolo elenco di alcune presenti sui fondali del Giglio che i pescatori e i subacquei ben conoscono: castagnola nera, castagnola rossa, cernia, dentice, grongo, murena, pesce spada, puntazzo, ricciola, sarago maggiore, scorfano, torpedine, triglia di scoglio.

Per i molluschi possiamo ricordare la presenza della lima, del polpo e della seppia, mentre gli avvistamenti della pinna nobilis, il più grande mollusco bivalve del Mediterraneo, un tempo molto diffuso sui fondali del Giglio, sono ormai un ricordo a causa della scomparsa totale di questa specie.

Al Giglio sono presenti circa 700 specie di piante e tra queste anche alcune comuni come il castagno, l'olivo, la vite, l'arancio, il limone e il fico.

Gli studi effettuati nel 1900 dal botanico Stefano Sommier hanno rivelato la presenza, fino ad allora sconosciuta, della Fumaria, del Cardo cefalanto, della Linaria delle capre, dell'Astragalo, della Valerianella microcarpa, del Gladiolo dubius e dell'Artemisia arbo­rescente.

Giglio Campese è un piccolo centro abitato a circa 5 km da Giglio Castello, adagiato sul versante occidentale e affacciato sul Golfo di Campese e caratterizzato dal famoso faraglione e dalla omonima Torre.
La prima costruzione risale al XVIII secolo ed è la caratteristica Torre del Campese realizzata per l’avvistamento di navi provenienti dal versante ovest dell’ isola, per darne immediato avviso al presidi di Giglio Castello. Questa torre è nota soprattutto per l’eroico respingimento di parte di una flotta di pirati, che dettero l’ultimo assalto all’ isola nel 1799.

In seguito all’ unità di Italia nel 1861 la torre fu demilitarizzata e ceduta a privati, tra i quali ricordiamo il noto Capitano Enrico Alberto d'Albertis, che amava qui riposare nelle pause tra un viaggio ed un altro. Attualmente la Torre è di proprietà di privati ed è utilizzata come residenza turistica.


Il Campese rimase poco popolato fino agli inizi ‘900 e vide un notevole impulso economico con l'apertura della miniera di pirite nel 1938, dalla quale molte famiglie isolane traevano sostentamento. L’attività estrattiva proseguì fino alla chiusura definitiva nel 1962, in seguito alle future modifiche societarie della Montecatini Società Generale per l'Industria Mineraria e Chimica.

Negli anni a seguire, che coincisero anche con il boom economico in Italia, il Campese intraprese uno sviluppo basato sul turismo. Cosi il centro abitato aumentò le sue unità, furono costruiti appartamenti, i primi negozi e il residence sul versante del promontorio del Franco, fino allo sviluppo odierno che lo ha reso l'insediamento turistico più importante dell'isola, con la sua ampia spiaggia e l’invidiabile mare cristallino.

La sua posizione geografica rivolta verso ovest, permette un' esposizione solare prolungata rispetto agli altri centri abitati, ed in più rende visibili tramonti mozzafiato che riverberano nel Golfo di Campese, in particolare nei periodi estivi si protraggono oltre le nove di sera, dando quindi a questa fantastica località ben sedici ore circa di luce solare.

Giglio Campese è dunque, soprattutto in estate un centro balneare con un' ampia e caratteristica spiaggia granulosa, frequentata da turisti e amanti delle immersioni.

Il borgo medievale di Giglio Castello, affascinante per la struttura imponente delle sue mura (XI sec), appare ancora più suggestivo se si segue il percorso lungo i camminamenti tra feritorie e trioni (torrioni), o si esplorano i suoi vicoli sbalzati e interrotti da scale e baschetti (tipiche terrazze con gradini esterni alle abitazioni). Il caratteristico ingresso principale, a tre porte addossate a ciclopici massi di granito, testimonia ancora oggi i tempi delle incursioni piratesche e le signorie dominanti, come mostra lo stemma mediceo sull’ultima arcata.

Alla sommità del borgo, in Piazza XIII novembre si staglia l’imponente Rocca Pisana del XII sec. In posizione dominante, sul lato ovest, si erge la Chiesa di S. Pietro Apostolo, restaurata nel Settecento in tipico stile tardo-barocco, ma risalente almeno al XV sec.

All’interno della chiesa si possono ammirare oggetti di pregevole fattura, quali due originali acquasantiere sostenute da basamenti provenienti dalla villa dei Domizi Enobarbi di Giglio Porto (I-II sec d. C.). L’altare maggiore è di marmo policromo del XI secolo, mentre il presbiterio è impreziosito dai busti di San Mamiliano (a destra) e di San Pietro Apostolo (a sinistra).

Sulle cappelle laterali tre belle tele dei fratelli Nasini (XVII sec.). Di particolare interesse la Cappella del Crocefisso, nella parete destra, dove si conservano oggetti di grande valore artistico e devozionale, provenienti dalla Cappella di Papa Innocenzo XIII, che ne fece dono, nel 1725, al suo segretario Olimpio Miliani, nativo del Giglio. Qui si possono ammirare dipinti del Seicento di scuola veneta e fiorentina, calici, ostensori, tutti in argento cesellato, del XVII e XVIII sec.

Notevoli sono il reliquiario con il velo della Madonna, quello appartenuto a Urbano VIII con ostensorio, e le reliquie si San Giuseppe e di Urbano I. In primo piano la reliquia d’argento del 1724 con l’ulna destra di San Mamiliano, di profonda venerazione da parte dei Gigliesi. Al centro della teca attrae, per la sua delicatezza, il piccolo e pregevolissimo crocifisso d’avorio attribuito al Giambologna (XVI sec.).

A fianco della Cappella, le armi saracene, con impugnatura in argento e intarsi d’oro, testimoniano ancora la fuga precipitosa dei saraceni (tunisini) dopo l’ultimo assalto del 1799.

Uscendo dalla Chiesa, sotto il piazzale, si può notare una cisterna contrassegnata da un pozzo con colonne squadrate e trabeazione in granito. Progettata da Alessandro Nini ai primi dell’Ottocento, fu un dono di Ferdinando III Lorena per consentire ai Gigliesi un’adeguata riserva d’acqua in caso di un successivo assedio, dopo quello terribile ed eroico del 1799. Una passeggiata intorno all’abitato fortificato offre, a sua volta, una vista mozzafiato sulle isole di Giannutri, Corsica, Elba e su un bel tratto della costa continentale.

Giglio Porto è adagiato sul versante orientale dell’ Isola del Giglio, ed è il primo insediamento che si vede dalle navi traghetto provenienti da Porto Santo Stefano, ma di sicuro fu anche il primo insediamento civile dell’ isola, risalente all’ epoca romana. Si evince da svariati testi storici e testimonianze archeologiche, che in quel periodo fu realizzato un molo in granito lungo 179 braccia (circa 120 mt) per sopperire all’ intensa attività marittima, e ne furono cancellati i resti in seguito ai restauri nel 1796.

Giglio Porto, fu nell’ arco della storia, abbandonato e ripopolato a più riprese, poiché vivere nei pressi della costa in molti periodi storici risultava essere pericoloso a causa delle frequenti scorribande piratesche, ed iniziò la sua strada verso lo sviluppo attuale a partire dalla metà del  XVIII° d.C.

Giglio Porto è oggi un piccolo centro abitato molto caratteristico, con casette colorate e strette tra loro, a formare vicoli e viottoli, disposte parallele su tutto il versante che si affaccia sul mare, i due caratteristici fari che troneggiano sui rispettivi moli e l’antica Torre del Saraceno (1596).



Il 23 luglio del 2014 fa la Costa Concordia se n’è andata per sempre dal Giglio, diretta a Genova nel suo ultimo viaggio verso la demolizione. Dietro di sé ha lasciato un fondale disastrato e una montagna di detriti da recuperare. Il gigante naufragato in quel disgraziato «inchino» del 13 gennaio 2012 , se n’è stato per due anni e mezzo nelle acque di Punta Gabbianara, nelle immediate vicinanze del porto della piccola isola toscana.

Per permetterne la rotazione, necessaria al rigalleggiamento, sul granito del Giglio sono stati piantati 21 piloni dal diametro di due metri per nove di profondità, sui quali, poi, sono state fissate sei piattaforme d’acciaio larghe fino a 40 metri. Intorno al relitto sono stati collocati 11 blocchi per le torri di ancoraggio.

E poi, per creare una solida base d’appoggio, sono stati sistemati 12mila metri cubi di sacchi simili a grandi materassi contenenti una speciale malta cementizia (i cosiddetti «grout bag»), per un peso totale di 25mila tonnellate. Erano necessari a riempire il vuoto tra due speroni di roccia, uno a poppa e uno a prua, su cui poggiava il relitto prima della rotazione. Tutto questo, adesso, verrà smantellato.

Dopo le operazioni preliminari avviate a dicembre del 2014, a gennaio 2015 si è iniziato a raccogliere i detriti dal fondo: l’80 per cento è stato già rimosso. Poi, ad aprile, si è passati a togliere i «materassi» di cemento, e adesso si sta già procedendo al taglio delle piattaforme.

Con quasi 3mila adesioni tra sommozzatori professionisti e sportivi di tutta Italia, si è costituita nel luglio 2014 l'Associazione nazionale memoriale della Concordia, subito dopo la rimozione del relitto e in seguito all’iniziativa di un comitato di cittadini del Giglio che avevano preso a raccogliere firme perché le piattaforme non venissero smantellate.

«Queste strutture hanno uno loro utilità – dice il presidente – sono paragonabili alle barriere artificiali che in altri Paesi vengono costruite appositamente per promuovere la biodiversità marina. Già ci sono coralli, madrepore, banchi stanziali di ricciole. Lasciandole al loro posto, avrebbero potuto dar vita a una vera e propria capitale mondiale della subacquea in grado di attrarre fino a 40mila immersioni all’anno. Le attività di rimozione, invece, porteranno solo altri danni ambientali». Il Consiglio comunale del Giglio, nell’agosto 2014, aveva approvato una mozione per il mantenimento delle piattaforme.

Ma il ministero dell’Ambiente, a cui spettava l’ultima parola, ha deciso per lo smantellamento, confermando la decisione presa in conferenza dei servizi. «Bisogna comunque ricordare – dice il sindaco dell’isola, Sergio Ortelli – che le piattaforme sono state progettate per durare non più di vent’anni, e quindi potrebbero diventare un pericolo, con il rischio di crolli. Adesso, poi, ci si è accorti che alcuni sacchi di cemento sono finiti sotto la struttura in acciaio e l’unico modo per rimuoverli è liberare il fondale dalle piattaforme».

Col tempo, le strutture di acciaio potrebbero rilasciare sostanze nocive, come gli ioni ferrosi derivanti dalla corrosione delle acque. Su questo punto c’è stata anche un’interrogazione parlamentare da parte dei senatori Cinque Stelle Girotto e Castaldi. Ma non mancano voci di docenti di ecologia che ne ritengono auspicabile il mantenimento sul fondale.

Nell’area del naufragio ci sono praterie di posidonia e un’elevata densità di molluschi di pinna nobilis; è costante, nell’area del Giglio, la presenza di mammiferi marini. Durante le operazioni di rimozione della nave è stata svolta una costante attività di monitoraggio e analisi delle acque, con rilievi di flora e fauna e valutazioni dell’impatto acustico dei lavori sulla vita dei cetacei. Una volta partito il relitto, è stato previsto un nuovo piano di controllo dell’area, coordinato dall’osservatorio di monitoraggio ambientale per il naufragio della Concordia istituito presso la Regione Toscana.

Adesso, però, tutta l’attenzione è concentrata sulla rimozione dei sacchi, che «in parte si sono lacerati sotto il peso della nave», come ammette il sindaco Ortelli. Proprio per questo, secondo Ruggeri i «grout bag» andavano tolti «utilizzando container con coperchi in profondità, e non sollevandoli fino in superficie, col rischio di dispersione delle polveri». L’ingegner Bartolotti spiega che «i materassi di cemento, col tempo, si sono compattati fino a formare un unico blocco. La rimozione di questi mesi ha richiesto quindi l’intervento di una benna. Ma non c’è stata nessuna dispersione di polveri».

Un inconveniente non previsto, questo, se si pensa che i sacchi erano stati dotati fin dall’inizio di appositi occhielli con cui essere agganciati e rimossi. Il 15 luglio, poi, durante le operazioni, un manicotto idraulico si è rotto, causando lo sversamento in mare di olio vegetale biodegradabile. Il primo cittadino dell’isola rassicura sul fatto che «le analisi delle acque stanno danno valori confortanti», come si legge anche nelle relazioni inviate dai tecnici all’osservatorio regionale. Quanto ai piloni, verranno tagliati sul filo della roccia, e la parte inglobata resterà nel cuore del granito.

I lavori, prevede Bartolotti, «termineranno nel gennaio 2016, condizioni atmosferiche permettendo», ma il monitoraggio ambientale proseguirà per altri anni ancora. All’operazione lavorano in 150 tra tecnici, operai, sommozzatori. Tutto quello che viene raccolto viene portato nelle discariche selezionate di Piombino e Talamone, dove si procede alla separazione dei materiali. Dalla Concordia, però, sono fuoriusciti 110mila metri cubi di detriti che durante il naufragio, e nel periodo successivo ad opera delle correnti, sono andati ben al di là dell’area della Gabbianara.

Lo scorso anno, ad esempio, era possibile osservare sulla spiaggia nella cala dell’«Acqua del prete», targhe delle cabine o cestini di lavastoviglie. «Gli oggetti che vengono a galla sono raccolti regolarmente da squadre di volontari – dice il sindaco Ortelli –, è previsto che anche la Micoperi svolga controlli di questo tipo». Certo, le profondità e le correnti non aiutano la realizzazione di un recupero dei detriti che ancora si muovono sui fondali intorno all’isola. Secondo Ruggeri, questo è un lavoro che richiederà anni e che si potrebbe realizzare col coinvolgimento dei club sportivi di sommozzatori. Il primo cittadino è convinto che «per la primavera 2016 la comunità del Giglio si sarà lasciata tutto questo alle spalle». Dall’Associazione memoriale, intanto, pensano ad azioni legali.

Il sindaco di Giglio è convinto che entro la primavera del 2016 i cittadini finalmente si lasceranno tutto alle spalle.

Ma ottimismo e spot elettorali a parte, una pulitura quasi totale dei fondali e della superficie richiederà comunque degli anni e anche il coinvolgimento di sommozzatori dilettanti, al di là di società ben pagate per farlo; le quali lavorano solo nei tempi previsti dai contratti.

Da quando la Concordia è affondata alcuni bar sul porto hanno aumentato le vendite del 700% durante le operazioni di recupero della nave. Alcuni turisti prendevano il traghetto dalla vicina costa, attraccavano al porto dell’isola per poi ripartire sul solito mezzo, solo per scattare una foto dell’enorme leviatano abbattuto. Questo è avvenuto tutti i giorni dell’anno, almeno fino al completo recupero.

Intanto la piattaforma ogni giorno produce tonnellate di materiale rimosso, la spazzina dei mari rimuoverà anche le ultime briciole fino a quando anche questa sarà smantellata. Rimarrà allora solo il ricordo di un terribile incidente, che tuttavia non potrà essere rimosso, neanche con tanta solerzia.