La pesca del tonno ha origini antiche, con la nascita dei primi nuclei di umanità primitiva che si stabilirono lungo i litorali e si rivolsero al mare per trarre il loro sostentamento. L’uomo primitivo incominciò ad affinare le sue tecniche di pesca e incominciò ad ottenere i frutti del suo lavoro. L'oggetto della pesca erano in particolare le specie di pesci, che si radunavano in zone della costa dove l'acqua era più bassa per la deposizione delle uova. Queste specie di pesci sarebbero state quelle più facili da catturare con rudimentali attrezzi primitivi. L'attenzione dei pescatori sarebbe stata sempre rivolta verso quelle specie di pesci che erano caratterizzate da una spiccata gregarietà, che consentiva una più facile cattura nell'avvicendarsi presso la riva di raggruppamenti molto compatti, il che riduceva di molto la possibilità di errore. Una specie che rispecchiava a pieno queste caratteristiche era il tonno rosso.
Già dalla civiltà mesopotamica di Ur, sono stati trovati grossi ami di rame, simili a quelli trovati a Tello, in Palestina ed a Tell Asman e sigilli cretesi, incisi intorno al 2.000 a.C, in cui oltre a delle navi alberate adibite con tutta probabilità alla pesca del tonno, si potevano osservare delle sagome di grandi pesci, che per taglia e per la grande coda lunata, rappresentavano senza dubbio grossi tonni da catturare con i riconoscibili attrezzi della stessa epoca.
J. Couch (1867) sosteneva, che i primi pescatori di tonni furono i Cananei delle città costiere, che catturavano grandi animali marini, indicati con il nome ebreo e/o fenicio di Than, perfezionando i sistemi di cattura ed allontanandosi sempre di più dalle coste per seguire gli ampi e periodici spostamenti di questi grandi pesci.
Omero e Plinio scrivono già sulla pesca del tonno di Sicilia. Gli antichi la praticavano su larga scala, soprattutto a Gibilterra e nell'Ellesponto.
Con il passare dei secoli la pesca del tonno incomincia ad essere praticata in tutto il Mediterraneo poiché si conosceva il percorso di migrazione, chiamato anche viaggio d’amore di questo grande pesce. I tonni entravano infatti dallo stretto di Gibilterra nel periodo di aprile/maggio grossi e carichi di uova, e le depongono sulle coste bagnate dal Mar Mediterraneo. Così la pesca del tonno diventò una vera e propria fonte di guadagno per i popoli delle coste, che si specializzarono nella pesca di questo grande pesce, che con le sue migrazioni molto frequenti e numerose assunse ben presto un valore rilevante nell'economia delle città costiere. La sapidità della loro carne si prestava a gustose manipolazioni ed a lunghe conservazioni.
Dalla metà del periodo imperiale romano, non si hanno indicazioni sulla pratica delle tonnare. Non se ne conosce le ragioni: alcuni pensano che questo sia dovuto ai costi delle pesca e alle tasse che lo stato imponeva e che probabilmente la pesca del tonno si effettuava ugualmente, ma non in maniera ufficiale e quindi non menzionata nelle fonti.
Nel periodo della dominazione bizantina, le marinerie godettero di più ampi spazi e libertà di appropriazione degli specchi d’acqua e sono pervenute alcune norme legislative che vietavano la pesca intorno agli impianti privati (quindi anche accanto alle tonnare).
Nel XII secolo Al Idrisi, l'importante geografo arabo, fu il primo a stilare e descrivere le sei zone siciliane, dove erano presenti delle tonnare: a Trabia e Caronia (tra Capo d’Orlando e Tusa)“si tendono le reti per la pesca dei grandi tonni”, a Oliveri “si pescavano tonni in abbondanza” , a Milazzo, e a Castellamare del Golfo “si pesca il tonno facendo uso di reti”, tra queste vi erano pure quelle della zona di Trapani, dove “la pesca è abbondante e superiore al fabbisogno, vi si pescano grandi tonni, usando grandi reti”. Oltre a i luoghi menzionati dal geografo arabo si pensa che la tonnara si effettuasse anche nella zona di Nubia e San Giuliano (costiera tra il comune di Trapani e Erice); a Bonagia, e si pensa anche a Favignana, anche se, le prime notizie di una tonnara sull'isola sono più recenti: la tonnara di San Nicola risalente al primo decennio dell'Ottocento.
Nel medioevo vi erano diversi modi di pescare il tonno, tra cui: "la tonnara a sciabica" (il trascinamento di grandi reti fino alla costa cariche di tonni, dalle imbarcazioni), "la tonnara fissa" (reti posizionate lungo la costa, per attendere l'arrivo dei tonni), infine, il metodo più utilizzato per la sua praticità e abbondanza nel pescato era la tonnara di corsa.
Con l'arrivo dei Normanni in Sicilia (dal 1077 al 1194), viene regolamentato il “diritto di pesca che proibiva ai privati, fino alla distanza di un tiro di balestra per iactum balistae tutta l'estensione dei litorali idonei alla cattura dei tonni, la pesca di questo grande pesce”. Le grandi imprese di pesca erano amministrate direttamente dal un ufficio amministrativo reale, soprattutto attraverso gabelle e dazi.
Il feudatario riceveva la gabella, che comprendeva la gestione della tonnara; questa veniva ottenuta per meriti acquisiti in campo bellico, esso in oltre, doveva sostenere le Diocesi, i Santuari e i Monasteri che erano collegati per devozione alle tonnare, con donazioni di pescato e onerose. Sono soprattutto i Vescovi a beneficiare della munificenza reale, i quali ricevevano doni dalle tonnare, come ad esempio: il Vescovo di Patti (1090) poteva godere della rendita della tonnara di Oliveri e di un terzo della rendita di quella di Milazzo.
La pesca del tonno nel medioevo, quindi, fu un'attività di grande guadagno che necessitava però di grandi investimenti. Nel 1271, i Salernitani presero in concessione le tonnare di Castellamare del Golfo e di Trapani e successivamente, durante i Vespri siciliani, furono gli amalfitani Tagliavia ad amministrare le tonnare dell'intera Sicilia occidentale.
Intorno al XIV secolo, la pesca del tonno incominciò ad ampliarsi in tutto il Mediterraneo. Vennero costruite tonnare nello stretto di Gibilterra, nella costa spagnola, africana e francese. Le più tarde furono le tonnare francesi di Marsiglia e Roussillon.
Alla tonnara di Marsiglia, nel 1641 accadde un evento significativo, simbolo dell'incontro tra fede e tradizione. Ne fu protagonista Luigi XIII, che andò a visitare la tonnara con la regina Anna d'Austria, durante un pellegrinaggio ad un santuario, per invocare la grazia divina per aver un erede che ancora tardava a nascere. Il Re nel suo soggiorno assistette alla mattanza ed uccise un tonno con le sue stesse mani, da cui, sotto pressante invito del Rais, mangiò le gonadi, ritenute afrodisiache e di buon auspicio; dopo qualche anno nacque Luigi XIV.
Tutte queste tonnare sorte nel mar Mediterraneo avevano però sempre un legame con le tonnare siciliane dato che erano gli stessi tonnaroti siciliani ad essere sovente chiamati ad aprire nuove tonnare e a insegnare ai locali, i segreti di questa antica pesca.
I metodi di pesca ancora oggi utilizzati sono: la tonnara di corsa, insieme di reti organizzate a camere, posizionate nella zona di passaggio dei tonni, e la tonnara volante, avviene con il posizionamento "volante" delle reti dopo aver intercettato dei banchi di tonno, con eco scandagli e radar.
Alla fine della mattanza il pescato veniva portato dalle imbarcazioni dentro lo stabilimento dove veniva lavorato e preparato per essere commercializzato. Come racconta Orazio Cancila: “la preparazione del prodotto sembra seguisse regole tradizionali, ma nel Quattrocento compaiono il taglum de Sibilia, cioè la preparazione della surra(parte grassa del tonno) alla sivigliana, e il tonno a la spagnola. L'uovo di tonno, che era la qualità più pregiata, si confezionava attraverso un processo di essiccazione, così pure la musciama (filetto essiccato), i morsilli e i salsicciotti, mentre la surra, che dopo l'uovo di tonno era la qualità più pregiata, la tonnina netta e i grossami (occhi, bosonaglia, botana, cioè il collo, schinali, rispettivamente la schiena, spuntatura, spinelli, ecc.)si confezionavano sotto sale in barili del peso di kg. 60 o di kg. 40.”
I primi valori assoluti di produzione (in pesci e non solo in soldi) risalgono al 1598, anno in cui nelle tonnare del trapanese furono prodotti 21.140 barili di tonno, per circa 25.500 quintali utilizzati per l'esportazione e 24.700 quintali per il consumo locale, oltre alle ruberie e agli obblighi nei confronti dei monasteri e delle chiese. Grosso modo, si pescavano più di 35.000 tonni da 150 kg. di peso medio, per un fatturato annuo di 30/35 milioni di euro ai giorni nostri. Questo fa capire come la pesca del tonno sia diventata uno dei principali guadagni della Sicilia nel periodo medievale e moderno. Uno studioso che ci informa la produttività delle tonnare nella zona del trapanese è Orazio Cancila che scrive: “A fine secolo (1599), la tonnara di Favignana si rivela tra le più produttive del trapanese con 5.359 barili, ma non riusciva ancora a superare Bonagia, che nello stesso 1599 segnava una produzione di ben 8.186 barili, mentre Formica, appena impiantata, non andava oltre i 3.847 barili.”
Le tonnare sulle isole di Levanzo, Marettimo e Favignana, furono le più prolifere, nei dati di pesca del 1619 resero al Real Patrimonio ben 4375 scudi, praticamente la metà dei guadagni complessivi delle tonnare della zona del Trapanese.
Nel secolo successivo, la pesca del tonno subì un notevole tracollo, con stagioni che videro produzioni che spesso non superavano qualche migliaio di barili. Al principio del XIX secolo, il prodotto della pesca del tonno della marineria di Trapani si stabilizzò intorno ai 6.000 barili sino a scendere e diminuire sempre di più.
Sia nella I che nella II Guerra Mondiale le tonnare rimasero ferme. Perché i mari erano infestati da mine e da bombardamenti che spaventavano i pesci e non permettevano la calata in mare della tonnara; un altro motivo era la mancanza di personale chiamato alle armi. Anche dopo la II Guerra Mondiale la pesca del tonno tardava a riprendere la sua produttività, poiché i mari erano ancora infestati da mine che andavano ad impigliarsi con la corrente nelle reti delle tonnare: infatti molti tonnaroti nel secondo dopo guerra morirono per lo scoppio delle mine abbandonate.
Quando i mari ritornarono sicuri la pesca del tonno rosso riprese a pieno ritmo, ma non riuscì a raggiungere i numeri dei secoli passati. Così poco alla volta molte Tonnare dovettero chiudere, fino ai primi anni ’80, quando nella provincia di Trapani erano rimaste soltanto tre tonnare: quella di Bonagia, quella di Favignana e quella di San Cusumano. La più prolifica delle tre è stata sempre quella di Favignana.
In tempi recenti la produttività delle tonnare, si è notevolmente ridotta sia, per il poco pescato sia per il cambiamento del “viaggio d’amore” effettuato da questi pesci. Tutto ciò a portato alla chiusura di molte tonnare nel Mediterraneo tra cui quelle della costa francese e quelle della zona iberica, so invece aperte le tonnare nel Nord Africa e quelle della Sicilia Occidentale, più produttive.
Le attuali tonnare si possono dividere in due tipi: “di andata” e “di ritorno”, in relazione al tipo di tonno che di passaggio. Nel primo caso si tratta di tonni che vengono dallo Stretto di Gibilterra, carichi di energia e uova, pronti per andare a depositarle nei mari più caldi; nel secondo caso si tratta dei tonni che tornano dalla deposizione delle uova, stanchi e mal nutriti dopo un lungo viaggio. Le tonnare “di andata” nella costa occidentale siciliana sono: Favignana, Formica, San Cusumano, Bonagia, Scopello, Castellammare, Trabia; mentre tonnare “di ritorno” sono: Capo Passero, Siculiana, Sciacca, Capo Granitola. Queste ultime hanno una minore produzione dovuta all'esiguo numero dei tonni che sono sfuggiti al loro viaggio d’andata.
I riti e le tradizioni legate alla tonnara rimasero immutati dai tempi del Medioevo, anche il modo di pesca, con il metodo delle tonnare “da corsa”. Gli stessi nomi, le stesse mansioni rimasero inalterate; la figura del Rais, colui che coordinava tutte le diverse fasi della pesca del tonno, con scrupolosa attenzione e dedizione, restò fondamentale, è diventato importante anche l'ausilio della tecnologia.
Negli anni ’80 la pesca del tonno ebbe una diminuzione drastica nel numero dei tonni pescati. I motivi furono molteplici, e si ebbero varie teorie in proposito: la prima causa più importante è stata la nascita delle tonnare volanti.
Secondo l'ex Rais Leonardo Barraco è l'inquinamento acustico del mare, dovuto all'aumento delle imbarcazioni, ha provocato la diminuzione del pescato. L'ex Rais racconta un aneddoto della sua giovinezza sulla necessità di avere la massima quiete durante la pesca: nei primi anni ’30 il Rais della tonnara di San Cusumano era Domenico (detto Mommo) Barraco, padre di Leonardo, che a quei tempi era solo un ragazzino. Il giovane decise di andare con una piccola barca a motore a vedere da vicino la tonnara e i tonni intrappolati in essa. Mentre si avvicinava sentì una voce che gli urlava da lontano, era suo padre che gli ordinava di allontanarsi, poiché il rumore dell'imbarcazione avrebbe creato agitazione tra i tonni. Quindi se solo un motore di una piccola imbarcazione può disturbare il quieto vivere dei tonni, si pensi a tutti gli aliscafi che passano ogni giorno, per esempio tra l'isola di Favignana e Formica per motivi turistici, considerando anche il grande porto di Trapani con le numerose barche che vanno e vengono giornalmente.
L'ex Rais Leonardo Barraco propone quindi che nel periodo del passaggio dei tonni gli aliscafi e le imbarcazioni cambiano la loro rotta in altre zone, per non disturbare l'avanzare del grande pesce.
Un altro motivo per cui non si effettua più la mattanza è anche la mancanza di finanziatori che vogliano mantenere viva questa tradizione.
Per mantenere uno stabilimento con le sue tradizioni ci vogliono infatti molte risorse economiche.
Le ultime mattanze si sono effettuate a Bonagia nel 2003 e a Favignana nel 2007.
Oggi la tradizione ha lasciato spazio all'industria e alla speculazione, al posto dei tonnaroti ci sono ora gli argani delle barche e l'arpione è stato sostituito dal fucile, per cui il sapere del Rais e le sue intuizioni sono state sostituite dai radar e dagli eco-scandagli. La mattanza non è più una ricorrenza antica basata sul rispetto per il grande pesce: ormai la pesca viene fatta tutto l'anno, con le tonnare volanti, in particolare dai giapponesi.
Pochi anni fa è stata lanciata la richiesta di inserire le tonnare fisse nella lista mondiale dei Patrimoni dell’Umanità, stilata dall’Unesco.
È stato giustamente confermato che la tonnara, da un punto di vista ecologico, è senza dubbio un’arte di pesca sostenibile, perché come rete fissa non danneggia i fondali marini ed inoltre le maglie larghe permettono ai pesci di piccola taglia di poter trovare una via di fuga.
Ma cosa succedeva nei giorni di pesca? Nell’arco dei circa cento giorni si susseguono quattro fasi distinte: il cruciatu, il calatu, la mattanza ed il salaptu. Nella prima fase vengono collocati i cavi che sosterranno le reti, che saranno appunto calate successivamente. Si portavano le reti fino ad un miglio marino circa dalla costa, creando la isula: tre camere sempre più piccole per abituare i peci a spazi sempre più ristretti senza che tentassero di forzare le reti. La prima camera era di forma rettangolare, la seconda, la camera più piccola, a forma di quadrato, la “leva” o “camera della morte”, di dimensioni poco più piccole, aveva il lato sud che coincideva con la lunghezza delle sciere (un barcone lungo 15 metri).
La disposizione della isula era in funzione del percorso dei tonni; per tale motivo, la camera grande con la porta d’ingresso era a nord e le altre a sud. Si assecondava così l’orientamento dei pesci verso sud, che era poi quello che faceva loro imboccare più facilmente sia la “porta chiara” che quella della “leva” o “porta della morte”.
Le reti di tutto l’apparato aderivano al fondo grazie a dei massi di pietra detti mazzère, disposte a coppie in filari con una distanza di circa 15 metri mentre dall’altro lato galleggiavano grazie a dei sugheri. Nella camera della morte, per tutta la superficie, vi era inoltre una rete adagiata sul sabbioso fondo marino, di cocco nel suo primo tratto, di canapa ancora sottile e a maglie larghe nel secondo tratto e a maglie strettissime e robustissime, sempre di canapa, nell’ultimo tratto. L’apparato era poi saldamente ancorato contro le mareggiate e le correnti.
Un solo minimo errore nella disposizione dell’apparato, avrebbe comportato l’inefficienza della tonnara. La perizia e la precisione necessarie, erano tramandate di padre in figlio ed era dei Capi Rais, uomini semplici ma autoritari, spesso analfabeti ma sempre con gli occhi arrossati e bruciati dal riverbero del sole sul mare per e lunghe giornate di osservazioni sia delle correnti sia dei movimenti dei branchi di tonni. “A chianari vannu” gridavano ai Rais i marinai disposti nelle altre camere, o “a scinniri vannu” a secondo che i tonni si avvicinassero alle porte intermedie delle camere o se ne amuciarellontanassero.
In pratica i tonni, nel loro percorso da nord a sud, venivano intercettati dal pedali della tonnara e ritenendolo un muro invalicabile, ne seguivano l’andamento. Favoriti dall’enorme porta più larga all’ingresso e più stretta dall’altro lato, per le due ingegnose appendici alla porta stessa, si trovavano già nella “camera grande”. Qui cominciavano a girare vorticosamente, finchè non imboccavano la “porta chiara” che li portava nella seconda camera “il piccolo”. La porta della camera della morte rimaneva sempre chiusa e veniva aperta solo dopo l’accertamento della presenza dei tonni ne “il piccolo”.
L’apertura della porta della camera della morte veniva comandata con delle funi collegate allo sciere che prendeva posto sulla porta stessa. Il secondo sciere veniva invece collocato sul lato opposto e vi rimaneva fisso per tutta la durata della campagna di pesca, aveva quindi la funzione di costituire passivamente uno dei quattro lati della camera della morte e di ospitare gli occasionali ospiti per la mattanza. Tutte le barche della tonnara (due sciere quattro muciare e una chiatta) erano di colore nero, ottenuto grazie all’applicazione di un sottile strato di pece, per non disturbare i tonni, molto sensibili ai colori vivaci.
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