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lunedì 12 ottobre 2015

LA GONDOLA



Uno dei simboli di Venezia, come attestato anche in famosi dipinti, è la gondola, sebbene di essa si sappia veramente poco, sia per quanto riguarda origine che data di nascita. Sulla stessa etimologia del suo nome ancora non sono d'accordo tutti gli studiosi. Sembra tuttavia che la gondola  esisteva nell'809. Infatti in quell'anno, sulla base di un racconto popolare veneziano, Estella, figlia del Doge Agnello Partecipazio (quello che si batté contro i Franchi per l'indipendenza di Venezia) si recò su una bella gondola, da Pipino (il figlio di Carlo Magno divenuto re d'Italia a 5 anni) per pregarlo, invano, di non inseguire i veneziani che si erano rifugiati su alcune isole di Rialto. A prescindere dalla leggenda, un primo atto ufficiale dove si parla della gondola, è del 1094 e porta la firma del grande Doge Vitale Faliero.

La gondola è imbarcazione "unica" e affascinante. Le sue componenti portano ancor oggi dei nomi così particolari da suonare fiabeschi e misteriosi. La gondola poteva nascere solo in un posto dal fascino arcano: lo "squèro". Lo squero è una sorta di cantiere per la costruzione di imbarcazioni.

La gondola è un'imbarcazione tipica della laguna di Venezia.

Per le sue caratteristiche di manovrabilità e velocità è stata, fino all'avvento dei mezzi motorizzati, l'imbarcazione veneziana più adatta al trasporto di persone in una città come Venezia, le cui vie acquee sono sempre state quelle più usate per i trasporti.

La gondola è composta da 280 diversi pezzi, fabbricati con 8 essenze di legname.

La sua costruzione richiede solitamente più di un anno.

Lunga all'incirca 11 metri e di caratteristica forma asimmetrica, con il lato sinistro più largo del destro, può essere condotta da uno a quattro rematori che vogano alla veneta, cioè in piedi e rivolti verso la prua, e con un solo remo (distinguendosi così dalla voga alla valesana).

Il lungo remo è manovrato appoggiandolo ad una sorta di scalmo libero denominato fórcola, che si inserisce nel suo apposito alloggiamento e viene sfilato dopo l'uso.

L'asimmetria serve a semplificare la conduzione a un solo remo. La molto accentuata asimmetria delle gondole attuali è comunque di introduzione piuttosto recente: progetti della fine dell'Ottocento dimostrano che, all'epoca, la forma era solo marginalmente asimmetrica.

Il tipico pettine o ferro di prua (in veneziano fero da próva o dolfin) ha lo scopo di proteggere la prua da eventuali collisioni ed anche come abbellimento. La sua forma ha tradizionalmente il significato di rappresentare i sei sestieri di Venezia (i sei denti rivolti in avanti), la Giudecca (il dente rivolto all'indietro) e il cappello del Doge, l'archetto sopra il dente più alto del pettine rappresenta il Ponte di Rialto, infine, la "S" che parte dal punto più alto per arrivare al punto più basso del ferro rappresenta il Canal Grande. In quello di alcune gondole di recente costruzione sono presenti anche tre rifiniture - una sorta di ricami detti foglie posti tra le sei barrette anteriori - che rappresentano le tre isole più importanti tra quelle delle laguna veneta, ovvero le isole di Murano, Burano e Torcello.

Il ferro di poppa, molto più piccolo di quello di prua e con funzioni principalmente di protezione dagli urti, è detto rìço.



Malgrado la considerevole lunghezza, la gondola è estremamente maneggevole, grazie al fondo piatto e alla ridotta porzione di scafo immersa, e può essere manovrata anche in spazi angusti. Le manovre richiedono però una notevole abilità da parte del conduttore, detto gondoliere, che deve essere dotato di un senso dell'equilibrio molto sviluppato in quanto la posizione di voga all'estremità della poppa è assai instabile. Per evitare scontri, vi è l'usanza di avvertire alla voce quando si svolta in un rio stretto e i tipici richiami (òhe) sono divenuti un elemento caratteristico della città.

Alcune gondole (in voga nell'Ottocento, ora quasi scomparse) presentano una sorta di cabina (chiamata "felze") a protezione dei passeggeri.

La forma della gondola si è venuta definendo progressivamente nel corso del tempo. Le rappresentazioni pittoriche risalenti al XV-XVI secolo mostrano un'imbarcazione notevolmente differente da quella attuale. Nel quadro Miracolo della Croce caduta nel canale di San Lorenzo di Gentile Bellini, databile al 1500, le gondole appaiono più corte, più larghe e meno slanciate di quelle attuali e soprattutto prive di asimmetrie. La coperta di prua e quella di poppa, dove si posiziona il gondoliere, sono piatte e molto basse rispetto al pelo dell'acqua. I ferri, sia a prua che a poppa, sono costituiti da due brevi e sottili astine metalliche. La forcola del rematore appare piatta ed essenziale, priva di gomiti.

Fu solo tra il 1600 e il 1700 che la fisionomia della gondola, utilizzata sempre più per il trasporto privato di rappresentanza, si avvicinò a quella attuale. In questo arco di tempo, la lunghezza dello scafo aumenta e anche i ferri, soprattutto quello di prua, assumono dimensioni sempre maggiori, più grandi rispetto a quelli attuali, con un carattere ornamentale sempre più spinto. La poppa si stringe e inizia ad alzarsi rispetto al pelo dell'acqua. Le coperte di poppa e di prua perdono la forma piatta per diventare spioventi e a poppa viene aggiunta una piccola pedana di appoggio per garantire l'equilibrio del gondoliere. Anche la forcola assume la sua caratteristica forma a gomito. Lo scafo tuttavia mantiene ancora una sostanziale simmetria.

Nel corso dell'Ottocento, la poppa e, in misura minore, la prua si alzano ancora rispetto al pelo dell'acqua, per migliorare la manovrabilità dello scafo, la cui lunghezza si assesta definitivamente attorno agli 11 metri. Si introduce anche una prima leggerissima asimmetria, che viene accentuata in modo deciso solo all'inizio del Novecento, sempre per esigenze di manovrabilità, così come sia la prua che la poppa vengono alzate ulteriormente. Lo scafo si snellisce leggermente e cambiano anche le dimensioni del ferro di prua, che vengono ridotte per ottenere il bilanciamento ottimale rispetto alle mutate proporzioni.

Attualmente le gondole sono imbarcazioni aperte ma, sino ai primi anni del Novecento, erano dotate di una cabina smontabile detta fèlze. Quando Venezia era una città con un numero di abitanti molto più elevato dell'attuale e non erano stati realizzati i cospicui interramenti dei rii (avvenuti in epoca ottocentesca) la gondola costituiva il mezzo di trasporto per eccellenza. Le permanenze a bordo potevano quindi essere piuttosto lunghe e, con il clima invernale veneziano, la copertura del fèlze consentiva una certa confortevolezza e intimità.

Il tradizionale colore nero dell'imbarcazione è dovuto all'origine per l'uso consueto della pece come impermeabilizzante dello scafo (come tutte le imbarcazioni veneziane e lagunari) e in seguito esteso a tutta la barca come conseguenza dei decreti suntuari del Senato veneziano - a partire dal 1609 - volti a limitare l'eccessivo sfarzo nella decorazione delle gondole, anticamente coperte di stoffe preziose e dorature; del resto il nero è sempre stato considerato un colore elegante, e quindi adatto ad un mezzo di trasporto signorile (come le carrozze ottocentesche) mentre all'epoca il colore del lutto era il pavonazzo o paonazzo, colore simile al rosso porpora.



Le famiglie nobili possedevano una o più gondole de casàda con cui si facevano trasportare per affari o diporto. I cosiddetti freschi, occasioni di incontro e mondanità, erano vere e proprie passeggiate in barca che si svolgevano per la città. Questa abitudine dette origine anche ad un genere musicale, la cosiddetta canzone da batèlo, che ebbe il suo massimo fulgore nel Settecento ma che ancora oggi è molto praticata a scopi turistici.

La corporazione dei gondolieri è stata sempre governata da uno statuto, detto Mariègola, in cui si stabilivano i doveri degli appartenenti. Dagli atti della corporazione è possibile desumere una serie di interessanti notizie, sia tecniche che economiche. Ad esempio è documentato che alla metà del Settecento le gondole a Venezia fossero all'incirca millecinquecento.

Questa imbarcazione è attualmente usata soprattutto a scopi turistici, ma anche per cerimonie come matrimoni e funerali, nonché come traghetto per trasportare le persone da una riva all'altra del Canal Grande. Per quest'ultimo compito vengono utilizzati i cosiddetti gondolóni o barchette, particolarmente capienti e mossi da due rematori, uno a poppa e l'altro a prua. L'usanza è assai antica (i primi documenti che regolamentano il funzionamento dei traghetti risalgono alla metà del Trecento) e i luoghi di transito come la Ca' Rezzonico o la Ca' d'Oro sono segnalati dal nome delle calli (Calle del traghetto).

Un altro uso della gondola è quello sportivo, in regate dedicate alle imbarcazioni della tradizione veneziana, come la celebre Regata Storica. In queste gare si usano anche gondole di formato ridotto a due rematori dette gondolini.

Le serenate in gondola tradizionalmente si svolgono principalmente nella stagione estiva e consistono in un piccolo corteo di una decina di gondole, una delle quali ospita un cantante solitamente accompagnato da una fisarmonica. Vengono eseguite melodie tradizionali in dialetto veneziano di autori anonimi del '600 '700 e contemporanei: Bixio Cherubini, Carlo Concina, Italo Salizzato, Emilio De Sanzuane, Franco Millan o anche della tradizione italiana (Renato Carosone, per esempio). I cortei partono da San Marco e percorrono tratti del Canal Grande o percorsi interni lungo i rii, attraversando le zone più caratteristiche della città.




sabato 22 agosto 2015

LE TONNARE



Le tonnare rappresentano un  pezzo dei  meravigliosi beni culturali e proprio per questo sono entità straordinarie. Sangue, violenza e lotta per la sopravvivenza convivono in questa antica tradizione dei pescatori siciliani. La morte del tonno per la vita del pescatore: questa la legge crudele della tonnara. Ciò nonostante si sta perdendo la loro cultura e dimenticando tutto cio' che per la Sicilia hanno rappresentato.

La pesca del tonno ha origini antiche, con la nascita dei primi nuclei di umanità primitiva che si stabilirono lungo i litorali e si rivolsero al mare per trarre il loro sostentamento. L’uomo primitivo incominciò ad affinare le sue tecniche di pesca e incominciò ad ottenere i frutti del suo lavoro. L'oggetto della pesca erano in particolare le specie di pesci, che si radunavano in zone della costa dove l'acqua era più bassa per la deposizione delle uova. Queste specie di pesci sarebbero state quelle più facili da catturare con rudimentali attrezzi primitivi. L'attenzione dei pescatori sarebbe stata sempre rivolta verso quelle specie di pesci che erano caratterizzate da una spiccata gregarietà, che consentiva una più facile cattura nell'avvicendarsi presso la riva di raggruppamenti molto compatti, il che riduceva di molto la possibilità di errore. Una specie che rispecchiava a pieno queste caratteristiche era il tonno rosso.

Già dalla civiltà mesopotamica di Ur, sono stati trovati grossi ami di rame, simili a quelli trovati a Tello, in Palestina ed a Tell Asman e sigilli cretesi, incisi intorno al 2.000 a.C, in cui oltre a delle navi alberate adibite con tutta probabilità alla pesca del tonno, si potevano osservare delle sagome di grandi pesci, che per taglia e per la grande coda lunata, rappresentavano senza dubbio grossi tonni da catturare con i riconoscibili attrezzi della stessa epoca.

J. Couch (1867) sosteneva, che i primi pescatori di tonni furono i Cananei delle città costiere, che catturavano grandi animali marini, indicati con il nome ebreo e/o fenicio di Than, perfezionando i sistemi di cattura ed allontanandosi sempre di più dalle coste per seguire gli ampi e periodici spostamenti di questi grandi pesci.

Omero e Plinio scrivono già sulla pesca del tonno di Sicilia. Gli antichi la praticavano su larga scala, soprattutto a Gibilterra e nell'Ellesponto.

Con il passare dei secoli la pesca del tonno incomincia ad essere praticata in tutto il Mediterraneo poiché si conosceva il percorso di migrazione, chiamato anche viaggio d’amore di questo grande pesce. I tonni entravano infatti dallo stretto di Gibilterra nel periodo di aprile/maggio grossi e carichi di uova, e le depongono sulle coste bagnate dal Mar Mediterraneo. Così la pesca del tonno diventò una vera e propria fonte di guadagno per i popoli delle coste, che si specializzarono nella pesca di questo grande pesce, che con le sue migrazioni molto frequenti e numerose assunse ben presto un valore rilevante nell'economia delle città costiere. La sapidità della loro carne si prestava a gustose manipolazioni ed a lunghe conservazioni.

Dalla metà del periodo imperiale romano, non si hanno indicazioni sulla pratica delle tonnare. Non se ne conosce le ragioni: alcuni pensano che questo sia dovuto ai costi delle pesca e alle tasse che lo stato imponeva e che probabilmente la pesca del tonno si effettuava ugualmente, ma non in maniera ufficiale e quindi non menzionata nelle fonti.



Nel periodo della dominazione bizantina, le marinerie godettero di più ampi spazi e libertà di appropriazione degli specchi d’acqua e sono pervenute alcune norme legislative che vietavano la pesca intorno agli impianti privati (quindi anche accanto alle tonnare).

Nel XII secolo Al Idrisi, l'importante geografo arabo, fu il primo a stilare e descrivere le sei zone siciliane, dove erano presenti delle tonnare: a Trabia e Caronia (tra Capo d’Orlando e Tusa)“si tendono le reti per la pesca dei grandi tonni”, a Oliveri “si pescavano tonni in abbondanza” , a Milazzo, e a Castellamare del Golfo “si pesca il tonno facendo uso di reti”, tra queste vi erano pure quelle della zona di Trapani, dove “la pesca è abbondante e superiore al fabbisogno, vi si pescano grandi tonni, usando grandi reti”. Oltre a i luoghi menzionati dal geografo arabo si pensa che la tonnara si effettuasse anche nella zona di Nubia e San Giuliano (costiera tra il comune di Trapani e Erice); a Bonagia, e si pensa anche a Favignana, anche se, le prime notizie di una tonnara sull'isola sono più recenti: la tonnara di San Nicola risalente al primo decennio dell'Ottocento.

Nel medioevo vi erano diversi modi di pescare il tonno, tra cui: "la tonnara a sciabica" (il trascinamento di grandi reti fino alla costa cariche di tonni, dalle imbarcazioni), "la tonnara fissa" (reti posizionate lungo la costa, per attendere l'arrivo dei tonni), infine, il metodo più utilizzato per la sua praticità e abbondanza nel pescato era la tonnara di corsa.

Con l'arrivo dei Normanni in Sicilia (dal 1077 al 1194), viene regolamentato il “diritto di pesca che proibiva ai privati, fino alla distanza di un tiro di balestra per iactum balistae tutta l'estensione dei litorali idonei alla cattura dei tonni, la pesca di questo grande pesce”. Le grandi imprese di pesca erano amministrate direttamente dal un ufficio amministrativo reale, soprattutto attraverso gabelle e dazi.

Il feudatario riceveva la gabella, che comprendeva la gestione della tonnara; questa veniva ottenuta per meriti acquisiti in campo bellico, esso in oltre, doveva sostenere le Diocesi, i Santuari e i Monasteri che erano collegati per devozione alle tonnare, con donazioni di pescato e onerose. Sono soprattutto i Vescovi a beneficiare della munificenza reale, i quali ricevevano doni dalle tonnare, come ad esempio: il Vescovo di Patti (1090) poteva godere della rendita della tonnara di Oliveri e di un terzo della rendita di quella di Milazzo.

La pesca del tonno nel medioevo, quindi, fu un'attività di grande guadagno che necessitava però di grandi investimenti. Nel 1271, i Salernitani presero in concessione le tonnare di Castellamare del Golfo e di Trapani e successivamente, durante i Vespri siciliani, furono gli amalfitani Tagliavia ad amministrare le tonnare dell'intera Sicilia occidentale.

Intorno al XIV secolo, la pesca del tonno incominciò ad ampliarsi in tutto il Mediterraneo. Vennero costruite tonnare nello stretto di Gibilterra, nella costa spagnola, africana e francese. Le più tarde furono le tonnare francesi di Marsiglia e Roussillon.

Alla tonnara di Marsiglia, nel 1641 accadde un evento significativo, simbolo dell'incontro tra fede e tradizione. Ne fu protagonista Luigi XIII, che andò a visitare la tonnara con la regina Anna d'Austria, durante un pellegrinaggio ad un santuario, per invocare la grazia divina per aver un erede che ancora tardava a nascere. Il Re nel suo soggiorno assistette alla mattanza ed uccise un tonno con le sue stesse mani, da cui, sotto pressante invito del Rais, mangiò le gonadi, ritenute afrodisiache e di buon auspicio; dopo qualche anno nacque Luigi XIV.

Tutte queste tonnare sorte nel mar Mediterraneo avevano però sempre un legame con le tonnare siciliane dato che erano gli stessi tonnaroti siciliani ad essere sovente chiamati ad aprire nuove tonnare e a insegnare ai locali, i segreti di questa antica pesca.

I metodi di pesca ancora oggi utilizzati sono: la tonnara di corsa, insieme di reti organizzate a camere, posizionate nella zona di passaggio dei tonni, e la tonnara volante, avviene con il posizionamento "volante" delle reti dopo aver intercettato dei banchi di tonno, con eco scandagli e radar.

Alla fine della mattanza il pescato veniva portato dalle imbarcazioni dentro lo stabilimento dove veniva lavorato e preparato per essere commercializzato. Come racconta Orazio Cancila: “la preparazione del prodotto sembra seguisse regole tradizionali, ma nel Quattrocento compaiono il taglum de Sibilia, cioè la preparazione della surra(parte grassa del tonno) alla sivigliana, e il tonno a la spagnola. L'uovo di tonno, che era la qualità più pregiata, si confezionava attraverso un processo di essiccazione, così pure la musciama (filetto essiccato), i morsilli e i salsicciotti, mentre la surra, che dopo l'uovo di tonno era la qualità più pregiata, la tonnina netta e i grossami (occhi, bosonaglia, botana, cioè il collo, schinali, rispettivamente la schiena, spuntatura, spinelli, ecc.)si confezionavano sotto sale in barili del peso di kg. 60 o di kg. 40.”

I primi valori assoluti di produzione (in pesci e non solo in soldi) risalgono al 1598, anno in cui nelle tonnare del trapanese furono prodotti 21.140 barili di tonno, per circa 25.500 quintali utilizzati per l'esportazione e 24.700 quintali per il consumo locale, oltre alle ruberie e agli obblighi nei confronti dei monasteri e delle chiese. Grosso modo, si pescavano più di 35.000 tonni da 150 kg. di peso medio, per un fatturato annuo di 30/35 milioni di euro ai giorni nostri. Questo fa capire come la pesca del tonno sia diventata uno dei principali guadagni della Sicilia nel periodo medievale e moderno. Uno studioso che ci informa la produttività delle tonnare nella zona del trapanese è Orazio Cancila che scrive: “A fine secolo (1599), la tonnara di Favignana si rivela tra le più produttive del trapanese con 5.359 barili, ma non riusciva ancora a superare Bonagia, che nello stesso 1599 segnava una produzione di ben 8.186 barili, mentre Formica, appena impiantata, non andava oltre i 3.847 barili.”

Le tonnare sulle isole di Levanzo, Marettimo e Favignana, furono le più prolifere, nei dati di pesca del 1619 resero al Real Patrimonio ben 4375 scudi, praticamente la metà dei guadagni complessivi delle tonnare della zona del Trapanese.



Nel secolo successivo, la pesca del tonno subì un notevole tracollo, con stagioni che videro produzioni che spesso non superavano qualche migliaio di barili. Al principio del XIX secolo, il prodotto della pesca del tonno della marineria di Trapani si stabilizzò intorno ai 6.000 barili sino a scendere e diminuire sempre di più.

Sia nella I che nella II Guerra Mondiale le tonnare rimasero ferme. Perché i mari erano infestati da mine e da bombardamenti che spaventavano i pesci e non permettevano la calata in mare della tonnara; un altro motivo era la mancanza di personale chiamato alle armi. Anche dopo la II Guerra Mondiale la pesca del tonno tardava a riprendere la sua produttività, poiché i mari erano ancora infestati da mine che andavano ad impigliarsi con la corrente nelle reti delle tonnare: infatti molti tonnaroti nel secondo dopo guerra morirono per lo scoppio delle mine abbandonate.

Quando i mari ritornarono sicuri la pesca del tonno rosso riprese a pieno ritmo, ma non riuscì a raggiungere i numeri dei secoli passati. Così poco alla volta molte Tonnare dovettero chiudere, fino ai primi anni ’80, quando nella provincia di Trapani erano rimaste soltanto tre tonnare: quella di Bonagia, quella di Favignana e quella di San Cusumano. La più prolifica delle tre è stata sempre quella di Favignana.

In tempi recenti la produttività delle tonnare, si è notevolmente ridotta sia, per il poco pescato sia per il cambiamento del “viaggio d’amore” effettuato da questi pesci. Tutto ciò a portato alla chiusura di molte tonnare nel Mediterraneo tra cui quelle della costa francese e quelle della zona iberica, so invece aperte le tonnare nel Nord Africa e quelle della Sicilia Occidentale, più produttive.

Le attuali tonnare si possono dividere in due tipi: “di andata” e “di ritorno”, in relazione al tipo di tonno che di passaggio. Nel primo caso si tratta di tonni che vengono dallo Stretto di Gibilterra, carichi di energia e uova, pronti per andare a depositarle nei mari più caldi; nel secondo caso si tratta dei tonni che tornano dalla deposizione delle uova, stanchi e mal nutriti dopo un lungo viaggio. Le tonnare “di andata” nella costa occidentale siciliana sono: Favignana, Formica, San Cusumano, Bonagia, Scopello, Castellammare, Trabia; mentre tonnare “di ritorno” sono: Capo Passero, Siculiana, Sciacca, Capo Granitola. Queste ultime hanno una minore produzione dovuta all'esiguo numero dei tonni che sono sfuggiti al loro viaggio d’andata.

I riti e le tradizioni legate alla tonnara rimasero immutati dai tempi del Medioevo, anche il modo di pesca, con il metodo delle tonnare “da corsa”. Gli stessi nomi, le stesse mansioni rimasero inalterate; la figura del Rais, colui che coordinava tutte le diverse fasi della pesca del tonno, con scrupolosa attenzione e dedizione, restò fondamentale, è diventato importante anche l'ausilio della tecnologia.

Negli anni ’80 la pesca del tonno ebbe una diminuzione drastica nel numero dei tonni pescati. I motivi furono molteplici, e si ebbero varie teorie in proposito: la prima causa più importante è stata la nascita delle tonnare volanti.

Secondo l'ex Rais Leonardo Barraco è l'inquinamento acustico del mare, dovuto all'aumento delle imbarcazioni, ha provocato la diminuzione del pescato. L'ex Rais racconta un aneddoto della sua giovinezza sulla necessità di avere la massima quiete durante la pesca: nei primi anni ’30 il Rais della tonnara di San Cusumano era Domenico (detto Mommo) Barraco, padre di Leonardo, che a quei tempi era solo un ragazzino. Il giovane decise di andare con una piccola barca a motore a vedere da vicino la tonnara e i tonni intrappolati in essa. Mentre si avvicinava sentì una voce che gli urlava da lontano, era suo padre che gli ordinava di allontanarsi, poiché il rumore dell'imbarcazione avrebbe creato agitazione tra i tonni. Quindi se solo un motore di una piccola imbarcazione può disturbare il quieto vivere dei tonni, si pensi a tutti gli aliscafi che passano ogni giorno, per esempio tra l'isola di Favignana e Formica per motivi turistici, considerando anche il grande porto di Trapani con le numerose barche che vanno e vengono giornalmente.

L'ex Rais Leonardo Barraco propone quindi che nel periodo del passaggio dei tonni gli aliscafi e le imbarcazioni cambiano la loro rotta in altre zone, per non disturbare l'avanzare del grande pesce.

Un altro motivo per cui non si effettua più la mattanza è anche la mancanza di finanziatori che vogliano mantenere viva questa tradizione.

Per mantenere uno stabilimento con le sue tradizioni ci vogliono infatti molte risorse economiche.

Le ultime mattanze si sono effettuate a Bonagia nel 2003 e a Favignana nel 2007.

Oggi la tradizione ha lasciato spazio all'industria e alla speculazione, al posto dei tonnaroti ci sono ora gli argani delle barche e l'arpione è stato sostituito dal fucile, per cui il sapere del Rais e le sue intuizioni sono state sostituite dai radar e dagli eco-scandagli. La mattanza non è più una ricorrenza antica basata sul rispetto per il grande pesce: ormai la pesca viene fatta tutto l'anno, con le tonnare volanti, in particolare dai giapponesi.

Pochi anni fa è stata lanciata la richiesta di inserire le tonnare fisse nella lista mondiale dei Patrimoni dell’Umanità, stilata dall’Unesco.

È stato giustamente confermato che la tonnara, da un punto di vista ecologico, è senza dubbio un’arte di pesca sostenibile, perché come rete fissa non danneggia i fondali marini ed inoltre le maglie larghe permettono ai pesci di piccola taglia di poter trovare una via di fuga.
Ma cosa succedeva nei giorni di pesca? Nell’arco dei circa cento giorni si susseguono quattro fasi distinte: il cruciatu, il calatu, la mattanza ed il salaptu. Nella prima fase vengono collocati i cavi che sosterranno le reti, che saranno appunto calate successivamente. Si portavano le reti fino ad un miglio marino circa dalla costa, creando la isula: tre camere sempre più piccole per abituare i peci a spazi sempre più ristretti senza che tentassero di forzare le reti. La prima camera era di forma rettangolare, la seconda, la camera più piccola, a forma di quadrato, la “leva” o “camera della morte”, di dimensioni poco più piccole, aveva il lato sud che coincideva con la lunghezza delle sciere (un barcone lungo 15 metri).

La disposizione della isula era in funzione del percorso dei tonni; per tale motivo, la camera grande con la porta d’ingresso era a nord e le altre a sud. Si assecondava così l’orientamento dei pesci verso sud, che era poi quello che faceva loro imboccare più facilmente sia la “porta chiara” che quella della “leva” o “porta della morte”.
Le reti di tutto l’apparato aderivano al fondo grazie a dei massi di pietra detti mazzère, disposte a coppie in filari con una distanza di circa 15 metri mentre dall’altro lato galleggiavano grazie a dei sugheri. Nella camera della morte, per tutta la superficie, vi era inoltre una rete adagiata sul sabbioso fondo marino, di cocco nel suo primo tratto, di canapa ancora sottile e a maglie larghe nel secondo tratto e a maglie strettissime e robustissime, sempre di canapa, nell’ultimo tratto. L’apparato era poi saldamente ancorato contro le mareggiate e le correnti.
Un solo minimo errore nella disposizione dell’apparato, avrebbe comportato l’inefficienza della tonnara. La perizia e la precisione necessarie, erano tramandate di padre in figlio ed era dei Capi Rais, uomini semplici ma autoritari, spesso analfabeti ma sempre con gli occhi arrossati e bruciati dal riverbero del sole sul mare per e lunghe giornate di osservazioni sia delle correnti sia dei movimenti dei branchi di tonni. “A chianari vannu” gridavano ai Rais i marinai disposti nelle altre camere, o “a scinniri vannu” a secondo che i tonni si avvicinassero alle porte intermedie delle camere o se ne amuciarellontanassero.

In pratica i tonni, nel loro percorso da nord a sud, venivano intercettati dal pedali della tonnara e ritenendolo un muro invalicabile, ne seguivano l’andamento. Favoriti dall’enorme porta più larga all’ingresso e più stretta dall’altro lato, per le due ingegnose appendici alla porta stessa, si trovavano già nella “camera grande”. Qui cominciavano a girare vorticosamente, finchè non imboccavano la “porta chiara” che li portava nella seconda camera “il piccolo”. La porta della camera della morte rimaneva sempre chiusa e veniva aperta solo dopo l’accertamento della presenza dei tonni ne “il piccolo”.
L’apertura della porta della camera della morte veniva comandata con delle funi collegate allo sciere che prendeva posto sulla porta stessa. Il secondo sciere veniva invece collocato sul lato opposto e vi rimaneva fisso per tutta la durata della campagna di pesca, aveva quindi la funzione di costituire passivamente uno dei quattro lati della camera della morte e di ospitare gli occasionali ospiti per la mattanza. Tutte le barche della tonnara (due sciere quattro muciare e una chiatta) erano di colore nero, ottenuto grazie all’applicazione di un sottile strato di pece, per non disturbare i tonni, molto sensibili ai colori vivaci.





mercoledì 19 agosto 2015

L'ACQUA




" Un giorno la terra emerse dalle acque per l'opera creatrice di Dio, e come ogni bambino esce dalle acque amniotiche per vedere la luce, così l'emersione, che segue ad un'immersione nel mikvè, ripete simbolicamente ogni volta un processo di rinascita"

Fin dai tempi antichi della religione ebraica, ma ancora ai giorni nostri, il mikvè rappresenta una piscina per le immersioni rituali dei proseliti, in altre parole per coloro che si convertono all'ebraismo.

Tale piscina deve corrispondere a criteri precisi: deve essere costruita nel terreno o ad esso connesso; deve contenere una quantità d'acqua sufficiente ad un'immersione totale; l'acqua deve essere piovana e non può essere veicolata in alcun modo attraverso tubature o contenitori, non può quindi avere interferenze artificiali.

Paradossalmente si può parlare d'acqua che dona la vita, ma anche la morte.

Laddove si rinasce è necessario prima morire, questa è la filosofia della maggior parte delle religioni, in altre parole, la morte del corpo terreno ci permette la rinascita dello spirito e dell'anima ad un'altra vita.

Rimanendo al tema della gravidanza, anche qui si può applicare il concetto della vita che scaturisce da una morte precedente.

Al momento della nascita, infatti, il piccolo lascia l'ambiente in cui ha vissuto per nove mesi e rinasce ad una nuova vita: la sua vita nel grembo materno "muore", attraverso il parto ha una fase di transizione, che si conclude con una nuova nascita, la nascita dell'essere umano alla vita terrena.

Nel mikvè così come nel grembo materno ci troviamo in una situazione transitoria, in un punto di confine fra un passato che non è già più e un futuro che non è ancora.



Fin dall'antichità si parla dell'acqua come fonte originaria della vita e le religioni dalla Genesi alla mitologia Indù, dall'Islam al Corano, citano l'acqua come luogo di nascita delle creature animate e inanimate dell'Universo.

L'acqua viene espressa come principio cosmico femminile, anima del Mondo, Madre per eccellenza, genitrice di vita.

Quest'aspetto femminile lo esprime attraverso attributi di passività, accoglienza, recettività.

Il suo stato liquido la rende libera da qualsiasi vincolo e le dà la capacità di trasformarsi e assumere qualsiasi forma, riempiendo gli spazi e colmando i vuoti.

E' l'elemento che mette in comunicazione, crea un ponte tra lo spirito e la materia.

Se l'acqua è simbolo della vita e la vita nasce dall'amore, l'acqua è anche simbolo dell'amore che, come l'acqua abbraccia senza stringere.

In generale si può affermare che l'acqua, così come può pulire materialmente può "lavare" anche l'anima dal peccato, per questo motivo nelle varie religione essa viene utilizzata attraverso formule e rituali o attraverso persone investite di potere religioso.

Nella religione romana e italica troviamo già i riti di purificazione, attraverso le frequenti cerimonie di lustrazione, che avevano lo scopo di purificare persone e luoghi fisici attraverso l'aspersione di acqua.
Inoltre, per i romani era oggetto di culto, la fonte dedicata alle Camene (ninfe delle fonti), perchè si riteneva, che le sue acque avessero il potere di risanare gli infermi.



La religione ebraica, già nominata in precedenza, afferma che all'inizio della Creazione lo spirito di Dio aleggiasse sulle acque, l'acqua vista quindi come manifestazione di Dio.
Tutto l'antico Testamento esalta il segno di benedizione dell'acqua: il Diluvio e il passaggio attraverso il Mar Rosso segnano la sua forza distruttrice, ma anche la rinascita dell'umanità.

Per la religione cattolica il rituale del battesimo esprime bene il significato rigeneratore di purificazione dal peccato originale.
L'acqua assume quindi un significato di purificazione ed iniziazione.

Gli ortodossi hanno la tradizione, durante il rito del battesimo, di immergere completamente per ben tre volte il neonato nella fonte battesimale.
I musulmani possono compiere la loro preghiera rituale solo in uno stato di purezza e in un passo del corano si legge: "Nessuno può rifiutare l'acqua in eccedenza senza peccare contro Allah e contro l'uomo".

Per l'uomo primitivo che viveva in stretto contatto con la natura, le cose veramente importanti erano poche e riconducibili ai quattro elementi: il fuoco, la terra, l'aria e l'acqua, considerati dunque "divini".

L'acqua tra i quattro elementi è il più presente nella speculazione simbolica, perchè esso più di ogni altro si carica di significati legati all'origine della vita e rappresenta per eccellenza il principio vitale che penetra le cose della natura.

Nel corso degli anni l'acqua ha assunto significati a livello religioso, mitologico, letterario, mantenendo sempre la connotazione di elemento puro e purificatore, ma nello stesso tempo misterioso e inquietante.

Nell'immaginario collettivo l'acqua non ha mai perso completamente la connotazione cosmica di elemento originario, alla stregua del liquido amniotico dell'ambiente protettivo intrauterino.

Nei miti greci si narra che da Oceano, il figlio maggiore di Urano e Gaia, si generarono tutti i mari, i fiumi, le fonti, i laghi e tutte le sorgenti di acqua dolce e salata.

Nell'epica omerica, in particolare, il dio del mare era raffigurato da Poseidone, che esercitava il proprio potere su tutti i mari.

Sarebbero migliaia le citabili leggende e credenze greco-romane, che vedono protagonista l'acqua, ma per amor di sintesi riporto quella che mi ha più affascinata, vale a dire il mito di Egeria.

Egeria era la ninfa che secondo la tradizione sarebbe stata amante e musa ispiratrice di Numa Pompilio.

Alla morte di questi, gli dei impietositi dal suo dolore la trasformarono in fonte, a simboleggiare l'eternità di quell'amore.



L'acqua può anche assumere le funzione di specchio, così come dimostra il mito di Narciso.

Essa permette di scoprire la bellezza e raggiungere la consapevolezza di sé (narcisismo positivo), ma poi Narciso sbaglia, dando amore solo a se stesso e spezzando il compimento del proprio ciclo vitale ritorna alla madre (narcisismo negativo).

Inoltre l'acqua è collegata alle profezie degli oracoli, infatti, spesso, una profezia veniva rivelata attraverso una fontana o una sorgente oppure erano gli stessi siti oracolari che terminavano con una fonte, come gli oracoli di Apollo a Didima, Delfi e Rodi.

In Messico il primo lavaggio di un neonato avveniva tra litanie di ringraziamento alla dea dell'acqua, considerata la vera madre del bambino.

Ungheresi e Finnici pregavano la madre acqua, simile alla madre terra, per avere figli.

In Gambia le donne con problemi di fertilità s'immergevano e s'immergono ancora oggi negli stagni del coccodrillo sacro, perché le loro acque sono ritenute propizie al concepimento.

Gli Aztechi pensavano che la pioggia fosse il seme del dio della tempesta Tlaloc, quindi sottolineavano l'importanza dell'acqua che attraverso la pioggia feconda la terra.

Perfino la luna può essere paragonata all'acqua o addirittura, in talune circostanze, viene citata come la "Signora Delle Acque", perché essa domina le acque, sia corporee, sia degli oceani, inoltre domina i sentimenti, le emozioni.

Nel campo della psicoanalisi (Freud e Jung) viene affidata una grande importanza all'elemento acqua, essendo, infatti, l'acqua materna il primo contatto per gli esseri umani con la vita.

Secondo Jung la proiezione dell'immagine materna sull'acqua conferisce a quest'ultima delle qualità quasi magiche, peculiari della madre, come quelle di dare la vita, appunto attraverso l'acqua.



Nei sogni e nelle fantasie, inoltre, il mare, o una qualsiasi vasta distesa di acqua, significa l'inconscio.

Anche quest'ultimo può essere collegato all'aspetto materno dell'acqua, perché esso viene considerato in psicoanalisi come madre o matrice della coscienza.

L'acqua del mare, per esempio, è liquido e cibo vitale per migliaia di pesci che lì vivono e che si nutrono inconsciamente di particelle infinitesimali di cibo disciolte in esso, al pari di un bambino che si nutre al seno materno senza sapere cosa sta inghiottendo.

Nell'acqua non c'è ricerca di cibo, come c'è sulla terra, ma tutto scorre e fluttua insieme al liquido stesso.

Bachelard, afferma inoltre che l'acqua, tra tutti, è l'elemento che più si avvicina all'uomo per la sua analogia con la scorrevolezza: la vita dell'uomo scorre così come scorre un fiume nel suo letto.

Fabio Piangiani (compositore) afferma che una prima similitudine tra acqua e musica si trova nello scorrere e nel fluire, movimenti che appartengono all'acqua come alla musica, quindi si trovano ad essere simbolo e manifestazione del procedere del tempo.

Nelle sue varie forme (fiume, mere, pioggia, neve, ghiaccio, nebbia...) l'acqua è come la musica, espressione della creazione infinita, che nel suo incessante mutare, rimane sempre se stessa.

Se ci pensiamo l'acqua produce musica e suoni: ad esempio l'infrangersi delle onde, il ticchettio della pioggia, il gorgoglio di un ruscello....

Non dimentichiamo quanti cantanti e compositori abbiano associato al loro lavoro l'elemento acqua: il mare, un fiume, un lago che potevano essere dispensatori di pace e allegria, ma anche di oscuri presagi.

Lo scienziato e ricercatore giapponese Masaru Emoto ha messo a punto una tecnica per esaminare al microscopio e fotografare i cristalli che si formano durante il congelamento di diversi tipi di acqua, come l'acqua di rubinetto di diverse città del mondo, l'acqua proveniente da sorgenti, laghi, paludi, ghiacciai di varie parti del mondo.

Le immagini osservate a microscopio mostrano come l'acqua sia quasi un nastro magnetico liquido in grado di registrare in modo molto sensibile le informazioni energetiche che riceve dall'ambiente.

Si rileva come l'acqua di torrenti e sorgenti incontaminati mostra dei bellissimi disegni geometrici nella struttura cristallina.

Al contrario, l'acqua inquinata, tossica o stagnante, mostra forma e strutture cristalline distorte e non armoniche.

Grazie agli studi sulla musico terapia, Emoto ebbe l'intuizione di esporre l'acqua alla musica per vederne gli effetti sulla struttura.

Quest'esperimento ha evidenziato come l'acqua trattata con parole "positive", forma dei cristalli bellissimi, simili a quelli della neve; l'acqua trattata con parole "cattive" reagisce in modo "negativo", creando forme amorfe e brutte.

Questo ci dimostra sempre di più che l'acqua può avere notevoli effetti benefici se correttamente energizzata ed influenzata, pensiamo per esempio all'omeopatia ed ai fiori di Bach.



Dante Alighieri e nella "Divina Commedia" nella parte riguardante l'inferno, cita i famosi due fiumi dell'oltretomba: Acheronte e Stige.

Il primo segnava il confine con l'oltretomba ed era attraversato dalle anime sulla barca guidata da Caronte, mentre le acque dello Stige erano considerate venefiche e rappresentavano la palude che circonda la città di Dite.

Dante non si limita a dare solo un simbolo di connotazione negativa all'elemento acqua, infatti, nel paradiso cita altri due fiumi, il Lete e l'Eunoè, in cui le anime che stavano per passare in paradiso s'immergevano per cancellare la memoria dei peccati commessi in vita e rafforzare la memoria delle opere buone.
Nell'opera dantesca si vede come l'acqua può segnare un passaggio doloroso per i dannati dell'inferno, ma altresì un passaggio purificatore per i beati del paradiso.

Questo elemento accompagna gli svariati destini degli esseri umani nel bene e nel male.

Ogni elemento possiede una propria dissoluzione, la terra ha la polvere, il fuoco il fumo, mentre l'acqua dissolve nel modo più completo, quindi ci aiuta a morire totalmente.

L'acqua è un liquido flessibile, si muove secondo le impressioni che riceve.

L'acqua assimila, interiorizza, ammorbidisce, mescola, inibisce, omogeneizza, riempie e risolve, si espande, è profonda, ricettiva, purificante e terapeutica.

L'acqua vince sempre, cedendo, cambiando forma, adattandosi alle circostanze, aggirando gli ostacoli che incontra, ma inesorabilmente dalla sorgente in cui nasce piano piano giunge al mare, diventando prima torrente e poi fiume in un continuo processo di trasformazione che è la sua vera forza.

Questo percorso assomiglia un po' a quello che deve affrontare una donna in gravidanza, perché come l'acqua, ella cambia forma, si adatta alle circostanze, incontra ostacoli e paure, che deve avere la forza di riuscire ad aggirare, ma alla fine del percorso di nove mesi, giunge al suo mare, rappresentato dalla nascita del bambino che porta in grembo.

Così come l'acqua dalla sorgente ha l'unico scopo di giungere al mare ed è disposta ad affrontare ogni ostacolo, così la donna dalla sua nascita sviluppa un percorso ricco d'esperienze, gioie e dolori, che quasi sempre la porteranno alla sua naturale realizzazione suprema, quella della procreazione.




L'acqua è la sorgente di vita e mezzo di purificazione e di rinascita.

In India, l'acqua è la materia prima, la Prakriti. Il Brahmanda, l'Uovo del mondo, è covato alla superficie delle acque. Analogamente, nella Genesi, lo spirito di Dio aleggia sulle superfici delle acque. Per i Cinesi, l'acqua è il Wu-chi, il senza culmine, il Caos primitivo. La nozione di acque primordiali è quasi universale. In Polinesia e presso la maggior parte dei popoli austro-asiatici individuano nell'acqua la potenza cosmica. L'acqua è origine e veicolo di ogni forma di vita. La linfa è acqua ed in alcuni testi tantrici l'acqua rappresenta il prana, cioè il soffio vitale. Sul piano fisico, ed in quanto dono del cielo, è simbolo universale di fecondità e fertilità.

Altrettanto generale è la concezione dell'acqua come strumento di purificazione rituale. Dall'Islam al Giappone nei riti degli antichi fu-shui taoisti e naturalmente nelle aspersioni di acqua benedetta del cristianesimo, l'abluzione ha una funzione fondamentale. In India ed in tutto il Sud est asiatico, l'aspersione delle statue sacre e dei fedeli, specialmente al Capodanno, è rito insieme di purificazione e di rigenerazione.

Nelle tradizioni ebraica e cristiana, l'acqua simboleggia innanzi tutto l'origine della creazione. Tuttavia, come avviene per ogni simbolo, l'acqua presenta anche un'ambivalenza totale e a tutti i livelli, come del resto avviene per tutti i simboli. E' fonte di vita e fonte di morte, creatrice e distruttrice. Lo scatenamento delle acque è simbolo delle più gravi catastrofi: in questo caso l'acqua punisce i peccatori, ma non colpisce i giusti che nulla hanno da temere dalle grandi acque.

L'acqua si presenta come un simbolo cosmogonico: poiché essa purifica, guarisce e ringiovanisce, essa introduce all'eternità.

L'acqua possiede in se stessa una virtù di purificazione, ed anche per questo è considerata sacra, e per sua virtù, cancella ogni colpa. L'acqua del battesimo lava i peccati e viene somministrata una sola volta perché essa fa accedere ad un altro stato, a quella di uomo nuovo. Questa scomparsa del vecchio uomo, può essere paragonata ad un diluvio, perché quest'ultimo simboleggia una scomparsa, una cancellazione: un'epoca scompare, un'altra sorge. L'immersione nell'acqua è rigeneratrice, opera una rinascita nel senso che essa è contemporaneamente morte e vita.









lunedì 10 agosto 2015

LE CONCHIGLIE



Le conchiglie sono oggetti amati quasi da tutti, sparse sulle spiagge, come gioielli di mare che da sempre bambini e adulti raccolgono. Pochi sanno, tuttavia, che per gran parte della storia, le conchiglie ebbero un ruolo fondamentale per l’uomo, vennero utilizzate in tutti i campi, dai soldi all’arte. Gli uomini primitivi dell’età della pietra utilizzavano le conchiglie per decorare i loro gioielli, case e barche. In molti paesi tropicali, le tribù utilizzavano le conchiglie come moneta di scambio. Gli Inca seppellivano delle conchiglie con i loro morti. Nel corso della storia, architetti e artisti incorporarono nelle loro opere svariati simbolismi tra cui appunto la conchiglia. Tra le rovine a Pompei, vennero trovate conchiglie usate per decorare le statue delle divinità.

Il risultato di queste antiche usanze fu che le conchiglie vennero assorbite nel nostro inconscio collettivo come simbolo positivo.

Nei miti greci e romani le conchiglie erano un simbolo di prosperità, di rinascita e, se associate al mare, indicavano la fonte della fertilità. Tutti proveniamo dal mare, la conchiglia divenne così simbolo del grembo materno e della nascita della dea Venere o Afrodite.

Per questo motivo, la conchiglia rappresentò la divinità femminile nel culto pagano, e venne associata all’amore, alla nascita, alla riproduzione.

Nella mitologia romana si dice che, Venere, la dea dell’amore e della fertilità, venne creata dalla schiuma portata a riva sulla cima di una conchiglia. Molti dipinti rappresentanti la Venere raffigurano quindi una conchiglia per identificarla. Un esempio classico è “La Nascita di Venere” del Botticelli.



Spesso capita nelle nostre chiese di vedere il simbolo della conchiglia riprodotto in varie situazioni pittoriche e decorative ma in modo del tutto particolare nelle acquasantiere. Queste occorrenza simbolica non è affatto casuale poiché la conchiglia ha rivestito per tutto il medioevo un significato proprio legato all’acqua ma anche alla resurrezione e quindi alla tomba. La polisemia della parola arca, termine derivato da arcēre, proteggere, è particolarmente adatta a spiegare la densità di significati che si raccoglie intorno alla figura-simbolo della conchiglia. Arca, infatti, è un semantema pertinente al sarcofago, alla cassa dove si ripongono gli oggetti preziosi (si pensi all’arca dell’alleanza) e all’imbarcazione biblica per eccellenza. Curiosamente, ma non troppo, arca è anche un genere di bivalvi comune in tutto il Mediterraneo catalogato con questo nome da Linneo (1758) per la sua forma che collega così l’immagine del sepolcro alla simbologia della conchiglia. La duplice valenza della conchiglia, emblema di fertilità e al contempo simbolo della tomba, trova spiegazione nel fatto che in entrambi i casi si tratta di un occultamento che prelude a un disvelamento secondo un punto di vista precedente anche all’avvento del pensiero cristiano. Su tale substrato, come sempre avviene nei casi di tessiture simboliche così ricche e cangianti, il cristianesimo ha posto il suo impianto interpretativo facendo diventare il binomio conchiglia-sepolcro un emblema non solo di vita ma anche di redenzione. È evidente che il primo e più perfetto frutto della conchiglia-sepolcro, in un’ottica squisitamente cristiana, non può essere che il Cristo il quale è dunque perla di perfezione. Anche Giovanni, il figlio che aveva sussultato nel ventre materno al saluto di Maria, gode di un’iconografia che gli attribuisce la valva della conchiglia quale strumento di identificazione del suo ruolo di battista, ossia di precursore del Cristo-perla. Il Physiologus, primo bestiario cristiano a cui si ispireranno gli altri testi a venire, descrive il rapporto tra Giovanni e Cristo come simile a quello tra la perla e l’agata che, per la sue proprietà intrinseche, era utilizzata nella pesca delle conchiglie: «Vi è una pietra che è chiamata agata: i cercatori di perle le trovano per mezzo della pietra d’agata; i pescatori infatti legano l’agata con un filo solidissimo e lo lasciano affondare in mare; e l’agata va verso la perla e non si muove più; allora i pescatori possono così seguire la fune e recuperare la perla» (Physiologus latinus, VIII sec., par. XXII). L’agata sta alla perla come Giovanni sta Gesù poiché come l’una pietra mostra l’altra, così il Battista rivela agli uomini il Salvatore.



Un passo del Tesoro di Brunetto Latini, peraltro ripreso dal suddetto Physiologus, descrive il comportamento della conchiglia: «Cochilla è un pesce di mare, lo quale sta chiuso con due ossa grosse, ed apre e chiude, e sta in fondo di mare, e la mattina e la sera viene a sommo, e toglie la rugiada. E poi sta al sole, e indurano alquanto queste gocciole della rugiada; poi quando sono cavate di queste cochille elle indurano e queste sono quelle che l’uomo chiama perle, le quali sono pietre di grande nobiltà, e specialmente in medicina; e come la rugiada è pura e netta, così sono le perle bianche e nette».

Ecco dunque che il simbolo che così spesso troviamo negli edifici sacri cristiani, ma non solo, prende senso alla luce della storia che ci ha preceduti e della sua interpretazione della natura. Anche se troppo spesso non ce ne rendiamo nemmeno conto.

La Capasanta o conchiglia di San Giacomo è il simbolo del Pellegrinaggio nella città di Santiago de Compostela.

Il Pellegrino o “Peregrino” nel corso dei secoli ha da sempre raccolto sulle spiagge galiziane e sulla costa di Finis Terrae (in lingua galiziana Fisterra) le conchiglie di San Giacomo di Compostela.

La conchiglia di San Giacomo doveva essere cucita sul mantello o sul cappello ed era l’indicazione o il simbolo da mostrare a tutti che il Pellegrino aveva raggiunto e visitato la tomba di San Giacomo nella lontanissima e verdeggiante regione della Galizia nella penisola iberica.

“Las conchas” di San Giacomo nel medioevo e nei secoli successivi diventavano delle testimonianze e delle certificazioni simili a dei documenti con sigillo dell’avvenuto pellegrinaggio nella città di Santiago de Compostela e della visita alla tomba dell’apostolo di Gesù.

Le conchiglie di San Giacomo, trasportate e custodite con molto rispetto, servivano come certificazione da mostrare alle autorità preposte una volta rientrati nella città o paese natale per ottenere esenzioni dalle tasse o dal pagamento di pedaggi lungo il viaggio di ritorno.

Oggi,nei moderni pellegrinaggi, le conchiglie di San Giacomo possono essere trovate e comprate lungo tutto il tratto del “Cammino” da Roncisvalle fino all’arrivo nella città di Santiago de Compostela e vengono esibite con orgoglio sui moderni e utili zaini a testimonianza del moderno sacrificio lungo tutto il tratto del pellegrinaggio.



La conchiglia è un simbolo spesso usato per rappresentare l´amore.

Il guscio infatti rappresenta la protezione, la sicurezza, così come in una coppia affiatata.