lunedì 10 agosto 2015

RISO E PIANTO


Uno studio dei ricercatori olandesi del Max Planck Institute for Psycholinguistics, ha reso noto che l’essere umano nasce con una gioia innata, anche se nasciamo piangendo. L’uomo, nasce infatti con la capacità di ridere, di gioire, di essere felice e di essere armonioso.

Tutti gli stati d’animo ed i sentimenti negativi, nascono dopo, nel corso della vita e saranno mediati dalle esperienze che si vivono. Gli scienziati che hanno esaminato ben 16 persone, tra cui 8 sordi dalla nascita, hanno chiesto di esprimere le proprie emozioni senza parole, ma con le sensazioni.

Inoltre, dopo è stato fatto il test con 25 persone, facendo scegliere ai singoli di associare a suoni delle emozioni e quello che è stato scoperto è che i sordi, hanno avuto tutti sentimenti legati alla gioia, cosa che i normodotati non sono riusciti a dimostrare.

Le conclusioni sono state della dottoressa Dina Sauter che ha dichiarato: “Gli esseri umani hanno la innata capacità di esprimere la gioia e magari affinano questa abilità nel corso degli anni con l’obiettivo di aumentare il grado di empatia, invece imparano ad esprimere tutte le altre emozioni ascoltando i suoni emessi dagli altri“.




Di tipologie del pianto e del riso ce ne sono molte, moltissime: dal pianto e dal riso «fenomenologici», ma non ne hanno alcuna controparte interna o fisica», al piangere e al ridere «chimici», quelli appunto frutto del vino. E qui ci si sente profondamente tristi e depressi anche se, in effetti, è proprio una sorta di reazione chimica a sprofondare nella depressione o nell’euforia.

Ma di forme di pianto e di riso ce ne sono tante altre, tutte interessate da una propria forma di normatività: il piangere  per un ricordo, ovvero il «piangere coscientemente ma senza un oggetto presente»; il piangere in sogno, ovvero il piangere inconsciamente ma senza un oggetto presente. Senza dimenticare due pianti “strani”, che qualche fenomenologo oserebbe definire pseudo-pianti, come il «piangere per errore, a causa di oggetti che in un secondo momento di rivelano fasi» e il «piangere di felicità» che è piangere sì, ma «senza tristezza».

C’è il pianto di chi è colpito da un dolore reale e il pianto di chi si commuove per il personaggio (fittizio) di un romanzo. C’è chi non riesce a piangere per una moglie vera eppure singhiozza disperatamente per la fine della povera Anna Karenina. E c’è chi ha pianto a dirotto per la morte di Lady D annunciata in mondovisione ma, in compenso, non è stato capace di versare una sola lacrima nel compiere quell’omicidio che l’ha portato in uno dei “bracci della morte” americani.



Nell’uno o nell’altro caso «piangere veramente è difficile, sia perché gli altri sono impenetrabili, almeno se vogliamo dar retta agli esistenzialisti, sia perché, nel piangere e nel ridere, e nella legittimità di farlo o di non farlo, si nasconde un potente elemento normativo». Insomma, «si può piangere o si può ridere solo a certe condizioni, e se uno piange o ride senza rispettarle, allora si esclude che pianga o rida veramente».





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