Visualizzazione post con etichetta descrizione. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta descrizione. Mostra tutti i post

venerdì 1 gennaio 2016

LA CHEPPIA



Questa specie è diffusa nel Mediterraneo occidentale, nel Mar Nero, nell'Atlantico orientale tra il Marocco e la Norvegia, in parte del Mare del Nord e nel Mar Baltico; nel periodo riproduttivo risale i corsi d'acqua dolce che sfociano in questi mari.
Vive in banchi nelle acque costiere, diventa solitario lungo la risalita dei fiumi, dove frequenta acque a media corrente.
L'agone è una sottospecie di cheppia adattata alla vita stanziale nei laghi.
Corpo relativamente alto e compresso in senso laterale. Testa a profilo triangolare. Bocca terminale con mascella superiore incisa. Assenza di denti sulle ossa palatine. Sugli opercoli sono evidenti striature raggiate. Peduncolo caudale piuttosto stretto. Pinna caudale biloba con profonda incisura tra i due lobi. Intermascellare con incisione sottile e profonda. Branchiospine ruvide, ossificate, non ravvicinate tra loro. Dorso verde azzurro, con riflessi metallici. Fianchi e ventre argentei o bianco argentei. Sui fianchi, a partire dal bordo superiore dell'opercolo, sono presenti da 4 ad 8 macchie nere, spesso poco marcate, di grandezza decrescente in senso anteroposteriore.

Specie migratrice anadroma. Pesce pelagico con abitudini gregarie, svolge la fase trofica in alto mare e compie migrazioni riproduttive per deporre le uova nelle acque interne. Gli adulti si riuniscono in prossimità degli estuari in primavera e fanno il primo ingresso in acqua dolce quando la temperatura dell'acqua giunge alla temperatura di 10 - 12 °C. La deposizione e la fecondazione si svolgono, con modalità collettive nelle ore centrali della notte, e con temperature dell'acqua superiori ai 15 °C. Attualmente la frega si svolge raramente fuori dai limiti di flusso e riflusso della marea ma, prima della creazione di sbarramenti invalicabili sui principali fiumi, questi pesci risalivano i fiumi per notevoli distanze.
Il flusso migratorio che interessa il delta del Po si svolge prevalentemente attraverso il Po di Levante, caratterizzato da portate più costanti e da migliore qualità delle acque rispetto agli altri rami. In Adriatico le cheppie trascorrono l'inverno isolate, stazionando in prossimità del fondo, mentre in estate si possono osservare piccoli branchi di immaturi in crescita e di adulti non riproduttivi che stazionano in superficie.

In mare gli adulti si cibano di  crostacei planctonici (copepodi e misidiacei), altri crostacei ed elementi del plancton, e piccoli pesci. In acqua dolce gli adulti non si alimentano. I giovani si nutrono di ogni tipo di piccoli invertebrati planctonici e bentonici. Nel contenuto stomacale di esemplari in risalita catturati nel fiume Tevere è stata rilevata la presenza preponderante di crostacei gammaridi, seguiti da invertebrati, avannotti e piccoli pesci.

I maschi sono sessualmente maturi fra 2 e 3 anni, le femmine a 3 - 4. In grande maggioranza i banchi di alose in migrazione sono costituiti da maschi di 3 - 4 anni e femmine di 4 -5  anni. All'inizio del periodo di migrazione nei banchi prevalgono i maschi, mentre nel periodo di massimo afflusso, in aprile e maggio, prevalgono le femmine. Durante la riproduzione si formano gruppi costituiti, in genere, da 1 femmina e da 20 maschi, La frega ha luogo in acque basse su fondali sabbiosi o ghiaiosi. La femmina, sfrega il ventre contro il fondo per provocare la fuoriuscita delle prime uova, quindi dà inizio ad una serie di movimenti verticali dal fondo alla superficie, e viceversa, durante i quali emette le rimanenti uova. Secondo Malfer le uova hanno diametro di circa 1 mm e una femmina adulta ne può produrre fino a diverse decine di migliaia. Dopo la frega le uova vanno alla deriva sul fondo. Al termine della riproduzione la mortalità  da stress incide notevolmente sugli individui di maggiore età, tanto che le alose che ritornano al mare al termine della primavera e all'inizio dell'estate hanno taglie mediamente inferiori rispetto a quelle entrate in acque interne.

La specie viene predata da varie specie di pesci ed uccelli ittiofagi. A. fallax è soggetta a malattie virali e batteriche. Sono state ossevate varie specie di parassiti, tra cui trematodi digenei, il trematode monogeneo Mazocraes alosae, cestodi e crostacei parassiti.

L'alosa è un pesce ancora relativamente comune, anche se la costruzione di sbarramenti e il deterioramento di qualità delle acque hanno determinato in alcuni bacini drastiche riduzioni dell'afflusso dei migratori o, in certi casi, l'impossibilità di raggiungere i fondali precedentemente utilizzati per la riproduzione. Alla fine del secolo scorso l'alosa era comune nel Po fino a Casale Monferrato, dove la presenza di una diga impediva già allora un'ulteriore risalita, e si riproduceva in tutti i principali affluenti; oggi, nello stesso bacino, la migrazione dell'alosa non può procedere oltre lo sbarramento di Isola Serafini. In Lombardia frequentava, nel 1896, tutti i principali affluenti di sinistra del Po. Negli ultimi due decenni, grazie all'introduzione di misure di protezione e di ripristino ambientale, la specie ha iniziato un lento recupero ed attualmente, in gran parte dell'areale europeo le popolazioni appaiono stabilizzate. Contrariamente alla tendenza europea, nella maggioranza dei fiumi italiani, come ad esempio nel Tevere, in assenza di scale di monta o di altri strumenti in grado di ripristinare la continuità fluviale, la cheppia è praticamente scomparsa.



Pesce di scarsa importanza commerciale. Carni discrete, ricche di spine; migliori quelle dei soggetti pescati in acque dolci. Commercializzato fresco, congelato, essiccato ed affumicato. Viene anche trasformato in farina di pesce, nonché utilizzato come esca per la pesca di specie ittiche marine. Malgrado le carni siano poco apprezzate, l'alosa è sempre stata intensamente pescata, sia dai pescatori professionisti che da quelli sportivi.

Si praticava un tempo con reti a strascico e a circuizione in acque marine litorali, nonché con reti di vario tipo e "bilancioni" in acque fluviali durante la montata primaverile. La rarefazione della specie, unicamente alla quasi completa scomparsa della pesca fluviale di mestiere, ha in pratica azzerato la cattura di questa specie già di per se stessa poco apprezzata.

La pesca sportiva viene praticata durante la montata riproduttiva in acque fluviali con canna da lancio ed esche artificiali (cucchiai rotanti a 1-2 palette, piccoli cucchiaini ondulanti ad amo semplice, mosche artificiali di grandi dimensioni).



domenica 20 settembre 2015

IL PESCE BALESTRA



La presenza di Balistes carolinensis (Gmelin, 1789) in Mediterraneo è documentata da tempi remoti, addirittura dal Neolitico, con riferimento alle coste mediterranee di Israele. Il limite termico di questo pesce oscilla tra un minimo di 18°C e un massimo di 24 °C (Whintehead & al., 1984), non tollerando, questa specie, generalmente acque al di sotto dei 12°C.
Il nome “pesce balestra” nasce da una caratteristica tipica della prima pinna dorsale che, dotata di robusti raggi spinosi, può essere sollevata o abbassata a piacimento con un movimento a scatto; a riposo, la pinna e i suoi robusti raggi alloggiano in un’apposita scanalatura presente sul dorso, scomparendo quasi alla vista.
Il movimento a scatto, simile a quello effettuato per armare il grilletto nelle antiche armi da fuoco a pietra focaia (e forse, precedentemente, anche delle balestre), ha ispirato il singolare appellativo, che deriva dalla traduzione del termine anglosassone “trigger fish”, che letteralmente significa poi “pesce grilletto”.

Nel Mediterraneo, la famiglia è rappresentata da una sola specie che ha una forma inconfondibile. Non è molto comune.

Ha corpo ovale, molto compresso lateralmente e piuttosto alto. E’ ricoperto di pelle spessa, cuoiosa e armata interamente di placchette a losanga, che formano una specie di corazza. La testa termina con un muso appuntito. Le aperture branchiali sono ridotte a delle fessure inclinate, situate poco al disopra dell’inserzione delle pinne pettorali. L’occhio è piccolo, situato molto in alto verso il profilo superiore della testa e da esso parte un solco diretto in avanti. Le aperture nasali sono piccolissime, di forma rotonda e situate molto vicine al margine anteriore dell’occhio. La bocca è piccola, con labbra grosse e carnose e porta sulla mascella superiore due file di denti accostate tra loro. Nella mandibola è presente una sola fila di otto denti (centrali più robusti). La linea laterale ha un decorso sinuoso, visibile negli stadi giovanili, non evidente negli adulti, tranne la parte codale.

Le pinne dorsali sono due. L’anteriore è formata da tre spine che si possono ripiegare indietro alloggiandosi in un solco dorsale. La posteriore è ampia e a ventaglio, molto simile alla anale alla quale è opposta. I raggi spinosi della prima dorsale sono articolati tra loro in modo che quando si trovano in posizione eretta, non è possibile abbattere indietro il primo se non si agisce sugli altri due, che formano così come una sicura dì scatto in un grilletto. Da cui deriva il nome di pesce Balestra.
La pinna codale varia di forma a secondo la età e negli adulti gli apici si prolungano quasi in filamento. Le pettorali sono piccole e tondeggianti, mentre le ventrali sono trasformate in una placca mobile, rugosa esternamente, unita a una membrana sostenuta da una dozzina di spine, che si congiunge con l’apertura anale.



La colorazione va dal grigio piombo a grigio azzurrastro, con riflessi verdastri sui fianchi e biancastri sul ventre. Sul dorso grigio violaceo.

Vive in vicinanza della costa su fondali scogliosi e su quelli detritici e algosi con sottofondo di sabbia. E’ un modesto nuotatore e si lascia avvicinare dai sub. La riproduzione si ha verso la fine di giugno o al principio di luglio. La femmina prepara un nido soffiando sulla sabbia del fondo e asportando boccate di sabbia e ciottoli in modo da creare un infossamento, in cui deposita le uova. Durante l’icubazione (circa 3 giorni) il maschio fa la guardia poco distante. Le uova si schiudono di notte. Le larve sono plantoniche. Si nutre di molluschi e crostacei, spezzando coi denti gusci e conchiglie. Si cattura occasionalmente con reti strascico o con tramagli. Di ottimo sapore e in alcuni luoghi la sua carne è molto apprezzata. Arriva fino a 40 cm. di lunghezza, ma la taglia media è sui 25 cm. Raro in Adriatico settentrionale.

B. capriscus è pescato per la qualità delle sue carni, ma sono stati segnalati avvelenamenti da ciguatera (non in Mediterraneo).



LEGGI ANCHE : http://marzurro.blogspot.it/2015/09/il-mare-mediterraneo.html






LA RICCIOLA FASCIATA



Questa piccola ricciola è una specie tropicale e subtropicale diffusa nelle regioni calde dell'Oceano Atlantico che è penetrata in anni recenti nel mar Mediterraneo in virtù della tropicalizzazione di questo mare. È segnalata per il bacino occidentale lungo le coste francesi e spagnole ed è abbastanza occasionale. Nei pressi dell'isola di Lampedusa sembra essersi stabilita una discreta popolazione.
Ha corpo allungato e fusiforme, compresso leggermente di lato, discretamente alto (più convesso superiormente che nella parte inferiore). E' coperto di squame piccole e cicloidi. La linea laterale è priva di scudetti.
La bocca è ampia, la mascella è più estesa posteriormente e arriva all'altezza del margine anteriore dell'occhio. I denti sono minuti e disposti a fascia sia nella mascella superiore sia in quella inferiore.
La prima pinna dorsale, normalmente, ha 8 raggi spinosi (negli individui adulti il primo e l'ottavo raggio regrediscono), di cui i centrali sono i più alti. La seconda dorsale ha un raggio spinoso  seguito da 28-33 raggi molli, che dopo il lobo iniziale appena accennato, si mantengono di altezza leggermente decrescente. La pinna anale è poco più della metà della seconda dorsale, ha due piccoli raggi spinosi distaccati, a cui fa seguito un altro raggio spinoso  e 17-20 raggi molli; il suo andamento è simile a quella della seconda dorsale. Le pinne pelviche sono più lunghe delle pettorali. La coda è molto forcuta. Ai lati del peduncolo caudale è presente una carena carnosa e due fossette.


Il colore del dorso è scuro con riflessi rosa-violacei, mentre le regioni addominali e i fianchi sono bianco madreperlaceo. Sul capo presente una fascia scura, che va dall'occhio alla nuca. La pinna dorsale è scura alla base e va schiarendosi verso il margine, fino a diventare biancastro. La pinna anale ha margini e lobo biancastri, per il resto è scura. Le pinne pettorali si scuriscono verso la base. Le pinne pelviche sono biancastre, ma gran parte della superficie dorsale è scura. Una macchia nerastra si nota nella parte centrale della pinna caudale, la quale, nell'insieme, è più chiara delle altre pinne. I giovani portano 8 fasce scure, di cui 7 verticali e discontinue sui fianchi e una sul peduncolo caudale.
Ha abitudini più costiere dei congeneri e frequenta fondali di 50-130 m. I giovani si radunano in superficie sotto oggetti galleggianti. Si nutre soprattutto di calamari. Misura fino a 75 cm e supera il peso di 5 kg.
La sua presenza nei mari italiani sta divenendo sempre più frequente, specie a sud.

Vive solitamente a notevoli profondita' ma sembra che faccia anche migrazioni verticali fino in superficie. Si nutre di Crostacei, Cefalopodi e organismi pelagici.

Si cattura con reti a strascico, occasionalmente con reti da circuizione e talvolta abbocca anche negli ami dei palangresi superficiali.

Ha carni un po' molli ma dal gusto prelibato specie se cucinate per la zuppa.
Gli esemplari piccoli hanno l'abitudine di stare sotto l'ombrello delle Meduse. Sembra che fra maschi e femmine ci sia un dimorfismo sessuale non sempre costante, rappresentato dalla presenza di una colorazione grigiastra e dall'assenza di macchie nere negli esemplari di sesso femminile.

L'animale e' parassitato dai Trematodi Lecithocladium crenatum e Prosorchis legendrei.



LEGGI ANCHE :http://marzurro.blogspot.it/2015/09/il-mare-mediterraneo.html





domenica 13 settembre 2015

IL PESCE INVISIBILE



Avvistato per la prima volta nel 1939 il pesce Macropinna microstoma, che abita nel mare al largo della California, con il suo cranio trasparente era rimasto un mistero a lungo.
Ma dopo vari studi un gruppo di ricercatori di Monterey Bay Aquarium Research Institute ha finalmente svelato i suoi segreti.
Vivendo negli oscuri fondali marini, fino a 800 metri, questo buffo pesce ha sviluppato una vista speciale, grazie alla forma degli occhi e al cranio trasparente. Che gli permettono di raccogliere e immagazzinare tutta la luce necessaria per vedere anche nella semi oscurità. Gli occhi inoltre possono muoversi, secondo gli scienziati, all’interno della copertura trasparente, permettendo di controllare tutto quello che gira loro intorno. In particolare le prede, piccoli pesci di cui si nutrono e che catturano con manovre molto veloci e precise.
La calotta trasparente rende perfettamente visibili tutti gli organi interni della sua testa, conferendo all’animale un buffo aspetto. I ricercatori hanno potuto riprendere l’animale grazie a un veicolo comandato a distanza.



In realtà, quelli che a prima vista ci sembrano due occhietti tristi sono chemiorecettori, in pratica delle narici. E quella che ci sembra una testa trasparente è uno schermo protettivo per gli occhi. E dove sono gli occhi? Sono quelle due grandi semisfere verdi. Anzi le semisfere sono solo i cristallini. Il resto degli occhi sono due “barilotti” cilindrici che sostengono i cristallini. Questo sofisticato sistema ottico, che assomiglia ad un paio di binocoli puntati verso l’alto, è immerso in un liquido trasparente contenuto nella cupola protettiva, anch’essa trasparente.

Per capire le ragioni di tale stranezza bisogna, come sempre, capire dove vive e come vive: le forme degli organismi viventi sono il risultato di un complesso adattamento evolutivo all’ambiente.

Macropinna microstoma  vive nelle acque del Pacifico settentrionale, a profondità comprese tra i 700 e i 1000 metri dove la luce del sole è debolissima o non arriva affatto. I suoi grandi occhi verdi sono sensibili anche al debole chiarore residuo proveniente dalla lontana superficie e hanno due posizioni di funzionamento: nella modalità “di ricerca” sono rivolti verso l’alto per distinguere le ombre di eventuali prede che contrastano con il chiarore dello sfondo; nella modalità “di inseguimento” gli occhi puntano in avanti e fanno da guida per il nuoto in modo che la piccola bocca sia direzionata verso la preda.

Che questo sistema di caccia sia ben congegnato ce lo fa capire il notevole volume dell’apparato digerente.



Il pesce cattura piccole prede ma disdegna la carne di medusa. Inoltre un suo terreno di caccia favorito sembra essere quello tra i tentacoli di un  sifonoforo degli abissi del genere Apolemia. I sifonofori sono particolari idrozoi, simili solo apparentemente alle normali meduse. In realtà si tratta di colonie di individui specializzati (zoidi) in stretta simbiosi. I sifonofori del genere Apolemia hanno la forma di nastri, lunghi anche dieci metri, coperti da tentacoli urticanti per mezzo dei quali catturano copepodi e altri piccoli organismi. Il nostro pesce dalla testa trasparente diventa ladro: si intrufola tra i tentacoli del sifonoforo per strappargli le prede intrappolate. Ed ecco che la cupola trasparente espleta la sua funzione di scudo che protegge gli organi più delicati e preziosi: gli occhi.





sabato 12 settembre 2015

IL DELFINO ROSA


 
Un delfino tutto rosa è fotografato in un lago della Louisiana, per quello che è un avvistamento davvero unico. Si tratta di un animale albino, notato per la prima volta nel 2007 da Erik Rue, un pescatore della zona. Negli anni gli avvistamenti si sono ripetuti ed è lo stesso uomo a raccontarne la storia: "L'ho visto che era un piccolo e adesso è cresciuto di alcuni metri".

Il web ha subito adottato il mammifero che lo ha battezzato Pinky: è un tursiope albino ma, ed è questa la particolarità, la specie, in caso di albinismo, presenta infatti una colorazione rosa anzichè bianca, oltre che un paio di occhi rossi, come si vede nella foto della National Wildlife Association.

L'inia è il delfino più colorato del mondo. Il colore brillante della sua pelle non è dovuto alla pigmentazione , ma dalla presenza di numerosi vasi sanguigni che traspaiono sotto la pelle. La ricca vascolazione serve a regolare la temperatura corporea sotto lo sforzo liberando calore. Appena nato però è nero, per poi diventare grigio man mano che cresce, e infine rosa nella maturità.

L'inia, nome scientifico Inia geoffrensis della famiglia Iniidae è un cetaceo odontoceta (ovvero provvisto di denti al contrario delle balene che sono cetacei misticeti cioè privi di denti) d'acqua dolce, tipico del Rio delle Amazzoni e dei bacini idrografici dell'Orinoco e dei loro principali affluenti. Si ritrova pertanto in Bolivia, Brasile, Colombia, Ecuador, Perù e Venezuela, vale a dire in tutti i paesi dove scorrono questi fiumi.

Le tre sottospecie oggi riconosciute considerano la diversa localizzazione geografica di questi delfini: Inia geoffrensis geoffrensis occupa tutta la parte centrale del rio delle Amazzoni; Inia geoffrensis humboldtiana si ritrova nel bacino dell'Orinoco in Venezuela e Colombia e Inia geoffrensis boliviensis come dice il nome stesso in Bolivia.

Il suo habitat è rappresentato non solo dal corso principale del fiume ma anche dai piccoli canali, dalle foci, dai laghi e anche appena al di sotto di cascate e rapide. In pratica la presenza del delfino rosa in una zona piuttosto che in un'altra è determinata esclusivamente dalla presenza di cibo quindi dal livello dell'acqua: durante la stagione secca l'inia si concentra nei canali principali più ricchi di acqua mentre durante la stagione delle piogge si sposta senza problemi anche nei bracci secondari, avventurandosi anche nelle pianure alluvionali e nelle foreste allagate.



E' stato osservato che esiste una preferenza di habitat tra maschi e femmine di delfino rosa: mentre i maschi tendono a rimanere nei canali principali, con un livello dell'acqua molto alto, le femmine tendono con i piccoli a stare nelle zone più interne. Questo sembra sia dettato dal fatto che nelle acque secondarie le correnti sono meno impetuose e quindi i piccoli corrono minor pericolo inoltre le catture dei pesci sono più facili e quindi anche l'insegnamento; inoltre possono essere aggrediti con minor frequenza sia dai maschi adulti oltre che da altri predatori.

In pratica la sua presenza è limitata solo dal mare, dalle rapide, dalle cascate, dai fondali troppo bassi coprendo una superficie pari a circa 7 milioni di kmq.

Le inia presentano dimorfismo sessuale in quanto i maschi sono più grandi delle femmine e questa caratteristica è unica tra le diverse specie di delfini di fiume dove in genere sono le femmine più grandi dei maschi.

Il colore del corpo è in relazione all'età dell'animale: gli esemplari giovani sono di colore grigio scuro mentre gli adulti tendono ad essere rosati o chiazzati di rosa ed i maschi sono in genere più rosa delle femmine. Si pensa in ogni caso che la colorazione del corpo dipenda molto sia dalla temperatura, che dalla limpidezza dell'acqua che dalla zona geografica.

Ad una prima occhiata sembrerebbe che l'inia sia un animale tozzo, sgraziato e poco agile in quanto non difetta certo di peso. In realtà è un animale particolarmente agile e presenta la caratteristica di essere privo di vertebre cervicali cosa che porta con se il vantaggio che può girare la testa in tutte le direzioni.

Ha pinne pettorali triangolari inserite nel corpo non per tutta la loro larghezza cosa che consentono al delfino inia di muoversi con maggiore libertà ed agilità consentendo una grande navigabilità potendosi muovere senza problemi in tutte le direzioni a discapito però della velocità. La pinna dorsale è piccola e di forma triangolare.

Non sono dei delfini particolarmente veloci tanto la velocità massima è di 15-20 km/h (la media è di 1,5-3,2 km/h) che però possono sostenere anche per un discreto periodo di tempo.

Hanno un rostro molto allungato rispetto a quello che siamo abituati a vedere nei delfini di mare. Hanno occhi piccoli anche se hanno una buona visione.

La pelle del corpo in genere forma numerose pieghe, anche nella testa. Hanno una buona dentatura e sono eterodonti vale a dire che hanno i denti diversi a seconda della loro posizione, come nell'uomo.



Le inia sono animali solitari e gli unici gruppi sono quelli formati dalla madre con i suoi piccoli (in genere la madre con due piccoli di età diverse). Tuttavia è possibile che per brevi periodi di tempo, si possano creare dei piccoli gruppi finalizzati all'accoppiamento o all'alimentazione anche se si è visto in cattività, che non vengono stabilite delle gerarchie all'interno dei gruppi. La inia può però associarsi con animali diversi dalla sua specie quali ad esempio la sotalia (Sotalia fluviatilis), un'altra specie di delfino fluviale, o la lontra gigante (Pteronura brasiliensis) per cacciare assieme.

E' stato osservato che la inia è un cetaceo molto attivo sia di giorno che di notte ed è un animale particolarmente socievole e giocherellone tanto da lasciarsi avvicinare senza problemi da chiunque (vedi video sotto) anche se è molto più difficile da addomesticare rispetto ai delfini tursiopi.

Le inia non sono dei cetacei che amano cambiare spesso il luogo che sono soliti frequentare tanto che sono considerati animali sedentari. In ogni caso le loro migrazioni sono legare al livello dell'acqua, quindi all'andamento delle stagioni che ovviamente condiziona la maggiore o minore presenza di cibo.

Le inia, come tutti i delfini usano l'ecolocalizzazione (lo stesso meccanismo dei sonar che sfrutta la riflessione delle onde sonore) per individuare ostacoli, capire come sono strutturati i fondali e localizzare la preda. In pratica l'inia emette dei suoni ad una frequenza tra 16-170 Hz che sono anche utilizzati per comunicare tra individui della stessa specie.

La inia ha una dieta estremamente varia e si è visto che comprende una quarantina di specie diverse di pesce di dimensioni comprese tra 5-80 cm (media 20 cm) comprese le tartarughe di fiume in quanto la loro dentatura è talmente forte da consentirle di rompere anche un carapace o un guscio di un granchio.

La dieta del delfino rosa varia in funzione della stagione infatti durante il periodo delle piogge, quando diventa più difficile catturare il pesce data la grande abbondanza di acqua e quindi il pesce è più sparpagliato, si accontentano di quello che trovano mentre durante la stagione secca, quando la densità dei pesci è più elevata, diventano molto più selettivi.

La inia è un cacciatore solitario e normalmente caccia la mattina tra le 9,00 e le 10,00 oppure il primo pomeriggio tra le 15,00 e le 16,00. Alle volte forma delle rapide società con un'altra specie di delfino fluviale la sotalia (Sotalia fluviatilis) o la lontra gigante (Pteronura brasiliensis) per cacciare il pesce in maniera coordinata, specialmente quando si tratta di banchi. Questa caccia è favorita dal fatto che i gusti di ciascuna specie di fatto sono molto diversi per cui alla fine della caccia non c'è competizione su ciò che deve mangiare una specie rispetto all'altra.

Circa le abitudini sessuali di questo delfino rosa si sa molto poco. E' stato osservato in cattività che i maschi sono molto aggressivi nei confronti delle femmine all'atto dell'accoppiamento. Questo è stato evidenziato anche dal fatto che tutti i maschi presentano sia cicatrici dovute a morsi sia le pinne danneggiate e questo fa supporre che in natura la lotta per accoppiarsi con una femmina deve essere abbastanza dura e cruenta. Questa conclusione fa supporre pertanto che le inia non sono dei cetacei monogami.

Le osservazioni sulle loro modalità di accoppiamento sono state osservate in cattività dove si è visto che il maschio corteggia la femmina, girandole attorno, mordicchiandola. Se una femmina non è in calore a queste attenzioni del maschio risponde in maniera aggressiva. Il maschio però è particolarmente tenace ed insiste fino a quando non ottiene di accoppiarsi. Sempre in cattività è stato osservato che nel giro di 3,5 ore si accoppiano una cinquantina di volte ed in diverse posizioni.

Le femmine diventano sessualmente mature quando raggiungono una lunghezza di 160-175 cm mentre i maschi ad una lunghezza di circa 200 cm che corrispondono entrambe a circa 5 anni di età del delfino rosa.

In genere gli accoppiamenti avvengono tra giugno - agosto e dopo circa 11 mesi nasce un solo piccolo del peso di 6-7 kg lungo circa 80 cm. Le nascite avvengono pertanto nel periodo in cui i fiumi sono ricchi di acqua (maggio-luglio) e quindi le femmine si possono spostare nei canali laterali. Questo fatto porta con se diversi vantaggi: via via che le acque si abbassano si ha una maggiore concentrazione di pesce e quindi diventa più facile pescare sia per la madre che per il piccolo.

I piccoli di delfino rosa sono allattati per circa un anno ma restano con la madre almeno sino ai 3 anni e questo comporta che spesso la madre sia incinta mentre allatta il piccolo.

Di fatto non ha nemici naturali. Alle volte il caimano nero (Melanosuchus niger) o l'anaconda o i giaguari o il pesce gatto (famiglie Cetopsidae e Trichomycteridae) possono disturbarla.

La Inia geoffrensis è classificata nella Red list dell'IUNC tra gli animali DATA DEFICIENT (DD) vale a dire che non vi sono informazioni adeguate per effettuare una valutazione diretta o indiretta del suo rischio di estinzione in base alla sua distribuzione e/o allo stato della popolazione. Infatti nelle zone nelle quali l'inia è studiata si hanno abbondanti informazioni tuttavia queste zone sono solo una piccolissima area poco rappresentativa dell'estensione territoriale di questo cetaceo ed è per questo motivo che la sua valutazione viene considerata "dati insufficienti".

La specie si trova elencato nell'Appendice II del CITES (Convenzione sul commercio internazionale di specie di fauna e flora minacciate d'estinzione, nota semplicemente come "Convenzione di Washington") che include le specie non necessariamente minacciate di estinzione, ma il cui il commercio deve essere controllato al fine di evitare uno sfruttamento incompatibile con la loro sopravvivenza.

E' stato osservato che anche se il tipo di pesce che mangia non è una varietà particolarmente pescata, in realtà questo delfino rosa è visto come una calamità dai pescatori in quanto squarcia le reti dei pescatori per rubare il pesce.

Gli indigeni dell'Amazzonia, prevenuti da varie superstizioni, in genere non cacciano l'inia; solo in Brasile in rari casi per ricavarne olio. Ma la crescita di insediamenti, in maggioranza da parte di persone non soggette ai tradizionali tabù, ha comportato un notevole aumento delle uccisioni di questi curiosi e interessanti cetacei. Numerose inie sono tenute in cattività da delfinari nordamericani (una è ancora a Duisburg in Germania): vi vivono anche più di 10 anni. Un parto si è avuto nello zoo di Fort Worth, Texas, ma il piccolo è morto poco dopo la nascita.



LEGGI ANCHE : http://marzurro.blogspot.it/2015/09/i-delfini.html





venerdì 11 settembre 2015

IL PESCE LUNA



Il pesce luna (Mola mola)  fa parte dell'ordine Tetraodontiformi, detto anche pesce mola, frequente in tutti i mari della zona torrida e diffuso anche in quelli temperati, Mediterraneo compreso: ha forma di un grande disco, compresso lateralmente, che può raggiungere 2 m e più di diametro e fino a 3 o 4 q di peso; ha bocca stretta, occhi piccolissimi, pinne dorsale e anale straordinariamente sviluppate.

Il corpo (inconfondibile e tipico) è ovale, molto schiacciato lateralmente, troncato posteriormente e senza peduncolo caudale. La pelle non ha squame e l'aspetto è rugoso e consistente come cuoio e internamente è foderata da uno strato cartilagineo, che gli conferisce robustezza. Il muso nella parte terminale, specie nei maschi, ha una protuberanza simile ad un naso. L'occhio è abbastanza grande. Manca la vescica natatoria.



La bocca è piccola e non protrattile. I denti, esclusi i faringei inferiori, sono saldati tra loro e formano un becco osseo tagliente in ogni mascella. Le aperture branchiali sono piccole e si trovano subito davanti alle basi delle pettorali.
Le pinne dorsale e anale si uniscono posteriormente in una flangia corrispondente alla pinna codale. La dorsale è unica, alta, triangolare e con 16-20 raggi. La pinna anale è opposta e simile ala dorsale; ha 14-18 raggi.  Le pettorali (12-13 raggi) sono corte, a forma di spatola e innestate su un peduncolo che le orienta verso l'alto. Mancano le pinne ventrali.

In inglese viene chiamato sunfish, presumibilmente tanto per la sua forma, quanto per le sue dimensioni e per il fatto che durante le giornate di sole tende a salire alla superficie dell'acqua.

Quando il pesce luna nuota in prossimità della superficie, visto da una barca, può esser confuso con uno squalo, dato che se ne vede soltanto una pinna.



Spesso risale alla superficie del mare, dove fa galleggiare il corpo in posizione orizzontale. Pare che sia, questo, un sistema per liberarsi dei parassiti, che in questo modo possono venire mangiati dagli uccelli.

Una femmina può deporre fino a 1,5 milioni di uova per volta e fino a 300 milioni di uova durante il ciclo vitale. Le larve hanno il diametro di appena due o tre millimetri.

Il pesce luna si nutre di plancton, di piccoli pesci e di meduse.





LA RAZZA



Il più antico esemplare fossile di razza risale al Giurassico (oltre 150 milioni di anni fa). Gran parte delle specie è nota solo attraverso reperti di denti, dentelli dermici e spine, ma sono stati ritrovati anche corpi interi e ben conservati di pesci chitarra che mostrano come questi pesci abbiano subito pochi mutamenti nel tempo. Per molti gruppi le testimonianze fossili sono incomplete, primi fra tutti le razze d’acqua dolce di origine assai recente (4-5 milioni di anni fa). Confrontando la distribuzione delle razze odierne con la storia geologica della Terra si deduce che alcuni gruppi di razze esistevano da tempi più remoti di quelli indicati dai fossili rinvenuti. Le razze fossili del Cretacico inferiore sono relativamente rare, molto più comuni quelle del Terziario (65-25 milioni di anni fa), in particolare dell’Eocene. Si tratta soprattutto di denti, ma nelli scisti della formazione Green River (Wyoming, USA sono stati trovati molti corpi interi di Heliobatis, rimasti intrappolati nei laghi costieri in seguito all’abbassamento del livello di mari e oceani.

I primi fossili di Rajidi sono stati trovati nel Mediterraneo (risalgono a 70 milioni di anni fa) ma questo gruppo di razze colonizzò soprattutto Atlantico e Pacifico, sfruttando l’antico passaggio del Mare della Tetide. Ma è anche possibile che gli antenati dei Rajidi vivessero nel mare che circondava il supercontinente di Gondwana. Questo gruppo, che annovera Raja nasuta, è ancora rappresentato nei mari di Sud America e Oceania. Queste regioni erano un tempo unite (anche con l’Antartide, a formare Gondwana), ma si separarono. Dal momento che i Rajidi non migrano attraverso l'oceano, dovevano essere presenti lì prima della divisione di Gondwana (80 milioni di anni fa). I primi fossili antartici risalgono a 50 milioni di anni fa.

Disponiamo di conoscenze piuttosto complete sull'ecologia e sulla biologia delle razze. Sappiamo, ad esempio, che quasi tutte vivono e si nutrono sul fondo o presso questo, ma in quanto agli aspetti più reconditi della loro vita, le informazioni ottenute dagli scienziati sono scarse. Tramite le caratteristiche anatomiche, si può tracciare un profilo generale delle loro abitudini.

Per la grande varietà che si riscontra nella forma del loro corpo, le razze sono soggetti ideali per gli studi ecomorfologici.



La famiglia dei Raidi è quella delle razze. Si tratta di raiformi ovipari il cui corpo è più o meno quadrato. Hanno coda lunga e sottile, provvista da due pinne dorsali, e la loro pelle rugosa è ornata di macchie colorate. Vivono in tutti i mari, ma in particolari in quelli temperati e nell'emisfero boreale. Alla razza appartengono diverse specie: la razza chiodata, quella bavosa o cappuccina e la razza monaca o dal muso lungo. La razza chiodata misura circa 90 centimetri a metri 1,25 di lunghezza, compresa la coda . Si chiama così perchè presenta delle protuberanze dure, senza una forma geometrica ben definita, presenti sulla pelle. Ha il corpo di colore grigio-bruno macchiato di nero. Vive nell'Atlantico orientale, nel Mediterraneo e nel Baltico. Caccia all'agguato affondandosi nella sabbia, da dove sorveglia i dintorni servendosi dei suoi occhi dorsali e poi quando avvista le prede, piomba all'improvviso su di esse. Si nutre di pesci e di crostacei, che cattura coprendoli col proprio corpo. Le uova sono molto grandi e vengono deposte a gruppi nel fondo. Esse sono costituite da un guscio corneo rettangolare, che può misurare fino a 9 centimetri di lunghezza ed è provvisto, agli angoli, di appendici cave dalle quali penetra l'acqua necessaria alla respirazione dell'embrione; sono presenti anche dei filamenti di attacco che permettono l'adesione dell'uovo alle rocce ed alla vegetazione sottomarina. La razza bavosa o razza cappuccina ha delle dimensioni tali da risultare redditizia per il commercio. In realtà si mangiano solo le pinne pettorali che hanno un'apertura di 2 metri circa. Misura circa 20 centimetri di lunghezza. Ha un muso appuntito e allungato. La coda è costituita da una fila di aculei. La faccia dorsale è bruna, macchiettata di chiaro, mentre la faccia ventrale è bianca e presenta alcuni punti neri corrispondenti a organi sensoriali. Vive nel Mar del Nord e nell'Atlantico, ma anche sulle coste francesi. Si nutre di pesci piatti, di crostacei e di vermi. Questa razza depone uova rettangolari, i cui angoli sono prolungati da delle spirali. La razza monaca o dal muso lungo vive nel Meditterraneo e nell'Atlantico orientale sino a Capo Nord. Misura fino a 1,50 metri di lunghezza. Non si distende completamente sulla sabbia, ma si appoggia sulle pinne pettorali, in modo da lasciare uno spazio libero tra il corpo e il fondo. La parte inferiore del corpo è piena di terminazioni nervose che fungono da organi tattili.

La razza appartiene alla classe dei pesci cartilaginei, così come gli squali, le pastinache, le mante e i pesci sega. Le cosiddette razze elettriche, invece, formano un ordine a parte, quello dei Torpediniformi.

La razza, più nello specifico, appartiene alla famiglia dei Raiformi, la quale comprende circa 600 specie di razze diverse, tra cui le più conosciute sono la razza chiodata, la razza quattrocchi, la razza bavosa o cappuccina e la razza monaca. I caratteri generali delle principali famiglie sono facili da distinguere ma le singole specie sono spesso estremamente simili e difficili da riconoscere. Maschi e femmine, giovani e adulti, anche della stessa specie, differiscono nella forma e nel colore e l'identificazione diventa ancora più difficoltosa se pensiamo che ogni zona ha una sua tipica fauna di razze, perché questi pesci hanno un areale limitato.



I raiformi, le razze, hanno il corpo schiacciato e risultano quasi piatti, la loro forma è squadrata, la pelle rugosa e la coda lunga e sottile. Le pinne pettorali sono molto ampie e, unite al tronco, creano delle strutture peculiari chiamate "dischi" a forma di cuneo, ovale, cerchio o triangolo. Il colore della razza è tendenzialmente bruno-grigiastro sul dorso e bianco sul ventre, entrambi i lati sono costellati di macchie colorate, bianche, nere, blu, rosse etc.. Gli occhi e le narici sono posti sul lato rivolto verso l'alto, mentre la bocca è posta sul lato rivolto verso il basso nel quale si possono notare anche delle fenditure o fessure bronchiali che la razza usa per la respirazione. La parte inferiore del corpo, inoltre, è piena di terminazioni nervose che fungono da organi tattili. Le dimensioni della razza pure sono molto variabili, fermo restando che le razze sono tra i pesci più grandi e raggiungono il metro e mezzo di lunghezza per due metri di larghezza (considerando le ali).

Le razze sono diffuse in tutti i mari, ma in particolare in quelli temperati e nell'emisfero boreale, alcune di esse trascorrono buona parte della vita nella acque salmastre di delta o estuari. Vi è poi un numero limitato di specie che si sono ambientate nelle acque dolci di fiumi situati a migliaia di chilometri dalle coste. Tendenzialmente sono pesci prevalentemente sedentari che vivono parzialmente infossati nella sabbia lasciando sporgere solo occhi e narici, per questo prediligono fondali sabbiosi e fangosi fino a 700 metri di profondità.

Gli esemplari di razza che vivono nel mar Mediterraneo e nei nostri mari sono: la razza chiodata, la razza quattrocchi e la razza monaca.

La razza ha due diverse strategie riproduttive: come oviparo depone le uova, che sono uova molto grandi e di forma rettangolare (fino a 9 cm di lunghezza), o come mammifero sviluppando l'embrione nell'utero materno senza, però, la presenza di una placenta che unisca il piccolo alla madre.

La razza viene pescata con reti a strascico, con reti da posta e con palangari di profondità. A tutt'oggi le razze sono uno dei pesci maggiormente catturati in tutto il mondo, tanto che secondo l'IUCN e il WWF questa specie è prossima alla minaccia di sopravvivenza. In molti Stati, quindi, si è deciso di controllarne severamente le catture.

Nelle varie epoche le razze son state sfruttate dall'uomo per fini diversi: per esempio i samurai giapponesi rivestivano l'elsa delle spade con la pelle ruvida delle razze, dalla coda si ricavavano mazze e collane, dagli aculei le punte di lancia, dalla pelle il cuoio e la carne veniva e viene cucinata come prelibatezza in tutto il mondo. Della razza si consumano le grandi pinne pettorali o ali separandole dal resto del corpo. È consigliabile un periodo di frollatura in congelatore per fare in modo che le carni si ammorbidiscano. Il loro sapore è molto gustoso, simile a quello della sogliola, ma la consistenza è più soda e compatta. Le preparazioni alle quali la razza si presta meglio sono al forno, al cartoccio, o in padella con pomodorini e capperi. Tra le razze nostrane la più pregiata è la razza chiodata.





lunedì 7 settembre 2015

LA TARTARUGA CARRETTA



La tartaruga Caretta caretta  è la tartaruga marina più comune del mar Mediterraneo. La specie è fortemente minacciata in tutto il bacino del Mediterraneo ed è ormai al limite dell'estinzione nelle acque territoriali italiane.

La specie Caretta caretta della famiglia Cheloniidae, è la tartaruga marina comune d'acqua salata, diffusa nei mari e negli oceani temperati e tropicali di tutto il mondo, compreso il Mar Mediterraneo. Si ritrova anche nelle barriere coralline, nelle lagune salmastre ed anche nelle foci dei fiumi.

La tartaruga marina è un rettile che ama il caldo pertanto compie vere e proprie migrazioni spostandosi verso le acque tropicali e subtropicali durante la stagione fredda: temperature al di sotto dei 10°C sono letargiche e provocherebbero una sorta di "catalessi" e la tartaruga galleggerebbe in superficie; al di sotto di questa temperatura potrebbe anche morire.

Un individuo può compiere anche 5000 km (circa) per sfuggire alle acque fredde invernali, sfruttando le correnti oceaniche.

I giovani e gli adulti si trovano spesso lungo le coste preferendo i fondali rocciosi piuttosto che sabbiosi.

Le tartarughe C. caretta sono le più grandi tartarughe viventi sul nostro pianeta. Come  si trovano nelle acque di tutto il mondo e si è osservato che quelle che vivono nei mari hanno delle dimensioni più piccole rispetto a quelle che vivono negli oceani.

Tutto il corpo è protetto da una corazza e lo scudo dorsale, leggermente a forma di cuore, viene chiamato carapace, formato da cinque coppie di placche cornee (dette scudi) di colore rosso marrone e verde, fuse insieme a formare i caratteristici solchi.

Sono provviste di due paia di zampe trasformate in pinne che servono per nuotare e nei maschi ogni zampa anteriore è provvista di un artiglio ricurvo che viene utilizzato durante l'accoppiamento.

La testa è molto grande con potenti mascelle. Le tartarughe C. caretta non possiedono denti ma sporgenze taglienti sul becco che sono usate per triturare il cibo.

In prossimità degli occhi sono presenti delle ghiandole particolari che servono per eliminare il sale dall'acqua marina per poterla bere. Spesso si sente dire dalle persone che, osservando la C. caretta mentre nidifica, la vede "piangere": in realtà sta solo espellendo il sale in eccesso dall'acqua.

Sono in grado di trattenere il respiro per lunghissimi periodi di tempo, anche delle ore anche se in genere, un'immersione tipica, dura 5-20 minuti.

I maschi si distinguono dalle femmina sia perchè la pelle ha una colorazione più marrone e la testa è più gialla rispetto alle femmine sia perchè hanno una lunga coda che si sviluppa quando raggiungono la maturità sessuale.

Alcuni studiosi considerano due sottospecie: la C. caretta gigas del Pacifico e dell'Oceano Indiano e la C. Caretta caretta dell' Atlantico che differiscono tra loro per le diverse caratteristiche del carapace ma molti studiosi non concordano con questa classificazione.



Non si sa molto su come queste tartarughe marine comunichino tra loro. Sembrerebbe che il corteggiamento dipenda soprattutto dalla vista e dal tatto anche se alcuni studiosi suggeriscono che potrebbe dipendere anche da alcune ghiandole che secernano particolari odori.

Per quanto riguarda le abitudini alimentari le tartarughe C. caretta sono prevalentemente carnivore anche se possono mangiare alghe e piante acquatiche, il che le rende praticamente onnivore.

Le loro possenti mascelle le rende in grado di frantumare senza problemi i gusci duri dei granchi, dei ricci di mare, dei bivalvi ma più frequentemente mangiano spugne, meduse, insetti, cefalopodi, gamberetti, pesce e uova di pesce.

In estate, nei mesi di giugno, luglio ed agosto, maschi e femmine si danno convegno nelle zone di riproduzione, al largo delle spiagge dove le seconde sono probabilmente nate. Hanno infatti un'eccezionale capacità di ritrovare la spiaggia di origine, dopo migrazioni in cui percorrono anche migliaia di chilometri. Alcuni studi hanno dimostrato che le piccole appena nate sono capaci di immagazzinare le coordinate geomagnetiche del nido ed altre caratteristiche ambientali che consentono un imprinting della zona di origine.

Gli accoppiamenti avvengono in acqua: le femmine si accoppiano con diversi maschi, collezionandone il seme per le successive nidiate della stagione; il maschio si porta sul dorso della femmina e si aggrappa saldamente alla sua corazza, utilizzando le unghie ad uncino degli arti anteriori, poi ripiega la coda e mette in contatto la sua cloaca con quella della femmina. La copula può durare diversi giorni.

Avvenuto l'accoppiamento, le femmine attendono per qualche giorno in acque calde e poco profonde il momento propizio per deporre le uova; in ciò sono facilmente disturbate dalla presenza di persone, animali, rumori e luci. Giunte, con una certa fatica, sulla spiaggia vi depongono fino a 200 uova, grandi come palline da ping pong, disponendole in buche profonde, scavate con le zampe posteriori. Quindi le ricoprono con cura, per garantire una temperatura d'incubazione costante e per nascondere la loro presenza ai predatori. Completata l'operazione, fanno ritorno al mare. È un rito che si può ripetere più volte nella stessa stagione, ad intervalli di 10-20 giorni.

Le uova hanno un'incubazione tra i 42 e i 65 giorni (si è registrato un periodo lungo di 90 giorni, a causa di una deposizione tardiva che è coincisa con il raffreddamento del suolo), e, grazie a meccanismi non ancora chiariti, si schiudono quasi tutte simultaneamente; con differenze sostanziali tra i vari substrati che costituiscono la spiaggia dove è stata fatta la deposizione: la temperatura e l'umidità del suolo, la granulometria della sabbia sono fattori determinanti per la riuscita della schiusa. I suoli molto umidi determinano spesso la perdita delle uova poiché molte malattie batteriche e fungine possono attaccare le uova; inoltre alcuni coleotteri possono raggiungere il nido e parassitarle. La temperatura del suolo determinerà il sesso dei nascituri: le uova che si trovano in superficie si avvantaggiano di una somma termica superiore a quelle che giacciono in profondità, pertanto le uova di superficie daranno esemplari di sesso femminile e quelle sottostanti di sesso maschile.



I piccoli per uscire dal guscio utilizzano una struttura particolare, il "dente da uovo", che verrà poi riassorbito in un paio di settimane. Usciti dal guscio impiegano dai due ai sette giorni per scavare lo strato di sabbia che sormonta il nido e raggiungere la superficie e quindi, in genere col calare della sera, dirigersi verso il mare. In condizioni naturali corrono prontamente verso il mare. Possiamo considerare il piccolo appena nato come una sorta di "robot" il cui programma biologico attiva la ricerca in automatico della fonte più luminosa in un arco sull'orizzonte di 15 gradi. Questa in condizioni normali è rappresentata dall'orizzonte marino su cui luna e/o stelle si riflettono. Ma ormai la forte antropizzazione determina una concentrazione di luci artificiali che spesso disorientano le piccole appena nate, facendole deviare dal cammino, determinando talora la perdita di tutta la nidiata.

Solo una piccola parte dei neonati riesce nell'impresa, cadendo spesso vittima dei predatori, tra cui l'uomo; di quelli che raggiungono il mare infine, solo una minima parte riesce a sopravvivere sino all'età adulta.

Giunte a mare nuotano ininterrottamente per oltre 24 ore per allontanarsi dalla costa e raggiungere la piattaforma continentale, dove le correnti concentrano una gran quantità di nutrienti.

Dove esattamente trascorrano i primi anni della loro vita è un mistero che i biologi non sono ancora riusciti a spiegare, il cosiddetto "periodo buio"; solo dopo alcuni anni di vita, raggiunte dimensioni che le mettano al riparo dai predatori, fanno ritorno alle zone costiere. Alcune osservazioni, fatte in collaborazione con i pescatori della costa jonica calabrese, hanno consentito di censire diverse centinaia di esemplari quasi coetanei che soggiornano in un punto determinato, di fronte al faro di Capospartivento, dove si incontrano correnti importanti in una zona di calma: al confine delle correnti le tartarughe passerebbero diversi anni prima di iniziare la grande migrazione verso altri mari.

La specie, e le sue sottospecie, risiedono di preferenza in acque profonde e tiepide, prossime alle coste, dell'Oceano Atlantico, del Mar Mediterraneo e del Mar Nero nonché dell'Oceano Indiano e dell'Oceano Pacifico. Le maggiori concentrazioni di questo animale si trovano in Sud-Africa, Florida, Australia, Mozambico e Oman.

Nel Mar Mediterraneo frequenta soprattutto le acque dell'Italia, della Grecia, della Turchia e di Cipro ma anche di Tunisia, Libia, Siria e Israele.

Superficialmente i giovani possono assomigliare alla tartaruga di Kemp (Lepidochelys kempii). Gli adulti hanno qualche somiglianza con la tartaruga franca o tartaruga verde (Chelonia mydas) e con la tartaruga embricata (Eretmochelys imbricata).

Le tartarughe marine adulte in pratica non hanno predatori se si fa eccezione per gli squali che qualche volta le aggrediscono e l'uomo. In realtà chi viene predato sono le piccole larve e le uova che hanno in tasso di mortalità dell'80% negli Stati Uniti mentre in Australia è stato calcolato anche del 90-95% a causa di procioni e volpi ma anche da parte di granchi, uccelli e pesci.

La Caretta caretta è classificata nella Red list dell'IUNC tra gli animali ad altissimo rischio di estinzione ENDANGERED (EN).

Le motivazioni sono diverse: la cattura accidentale di queste tartarughe da parte dell'uomo con le reti da pesca; lo sfruttamente degli adulti e delle uova nell'alimentazione umana; la distruzione dei loro habitat di riproduzione da parte dell'uomo sia con le costruzioni che indirettamente con l'inquinamento acustico (i rumori delle barche le disturbano durante la nidificazione), chimico (pesticidi, prodotti petroliferi, ecc) , luminoso (le luci delle città disorientano i piccoli nella loro corsa verso il mare). Inoltre da non trascurare il riscaldamento globale che alterando le temperature, altera il sesso dei nascituri con gravi squilibri nella popolazione.

Tutto questo ha portato che le C. caretta sono specie protette da vari trattati e accordi internazionali, nonché ogni stato ha le sue leggi nazionali.

Sono tartarughe citate nell'Appendice I del CITES (Convention on International Trade in Endangered Species of Wild Fauna and Flora) come specie in pericolo di estinzione (Cheloniidae spp) e per la quale tutti gli scambi commerciali sono vietati. Sono inoltre elencati negli allegati I e II della Convenzione sulle specie migratorie del CMS (Convention on Migratory Specie).

La tartaruga C. caretta è un animale fondamentale nell'ecosistema tanto che da molti studiosi è chiamata la "chiave di volta" questo perchè si nutre di numerosi invertebrati i cui gusci vengono spezzati dalle sue potenti mascelle che diventano poi nutrimento di numerosi altri animali come ricca fonte di calcio; le sue uova che rappresentano il nutrimento di un gran numero di specie; il suo carapace che rappresenta una tana numerosissime specie di animali.

Anche per l'uomo la C. caretta è importante per stimolare l'ecoturismo.

Le tartarughe marine sono animali molto antichi ed il loro aspetto è rimasto invariato da milioni di anni.



LEGGI ANCHE : http://marzurro.blogspot.it/2015/08/mare-inquinato.html









IL PESCE CHIRURGO



Il pesce chirurgo è la Dory compagna di avventura del piccolo Nemo.

L'uscita del famoso film d'animazione della Disney intitolato Alla ricerca di Nemo ha giovato  alla fama del Paracanthurus hepatus, che ha visto aumentare la sua popolarità a dismisura. Sfortunatamente, però, in seguito al film le vendite dei pesci per "l'acquariofilia d'arredamento" sono aumentate.

Questo pesce è pescato unicamente per la sua alta richiesta nel campo dell'acquariofilia. In cattività è un pesce dal difficile allevamento, è consigliato solo ai più esperti acquariofili capaci di fornire i giusti spazi (minimo 400 litri) e i giusti valori in acqua.
È perfetto per acquari marini o di barriera, poiché è solito ricercare nella roccia viva piccoli anfratti dove potersi nascondere, senza disturbare minimamente invertebrati e coralli.aumentate, provocando così un maggior numero di morti tra gli stessi.

Le specie della famiglia sono diffuse nelle zone tropicali di tutti i mari e gli oceani. Sono particolarmente comuni negli oceani Indiano e Pacifico dove vive la maggioranza delle specie; nell'Oceano Atlantico vivono 5 specie, tra cui Acanthurus monroviae che è stata catturata alcune volte nel mar Mediterraneo.

Sono particolarmente comuni nelle barriere coralline.



Il corpo è molto appiattito e allungato, dotato di una pinna dorsale che si estende per quasi l'intera schiena. La livrea è molto colorata, presenta un colore di base azzurro scuro su cui spicca una macchia nera a forma di chela di granchio. La pinna caudale è gialla, mentre le pinne sono bordate di nero. Come ogni Acanturide presenta sul peduncolo caudale lo scudetto tipico dei pesci chirurgo, anche se in modo poco evidente.
Raggiunge una lunghezza massima di 31 centimetri, anche se comunemente non supera i 18/20 centimetri.

Animale molto socievole, il P. hepatus è un abile ed instancabile nuotatore, famoso per i suoi comportamenti singolari e molto accattivanti.
Gli esemplari di questa famiglia sono più pacifici della media dei pesci chirurgo, ma allo stesso tempo molto più delicati e spaventati. Soffrono molto per la vicinanza di altri pesci chirurgo della stessa livrea (come Acanthurus leucosternon) con cui litigano in continuazione, fino alla morte. Convivono invece con tutti gli altri pesci poco aggressivi, in particolar modo con il genere Zebrasoma (Zebrasoma flavescens).
È molto curioso il comportamento ben osservato in acquari marini o di barriera; si è infatti notato che gli esemplari di questa specie sono soliti dormire su un fianco, litigare sovente con i vetri dell’acquario e fingersi morti, abbandonando i colori della livrea.

Come ogni pesce chirurgo anche il Paracanthurus hepatus è un animale erbivoro, e la sua dieta è principalmente di alghe.



Il pesce chirurgo è chiamato così per la sua singolare caratteristica di avere due piccole lame sui lati alla base della coda. Queste lame, simili a un bisturi, vengono messe fuori e utilizzate solo in caso di pericolo e necessità. Di pesci chirurgo ne esistono molte specie e alcune di queste hanno un muso appuntito e allungato simile a un unicorno.




venerdì 4 settembre 2015

LA SEPPIA



Uno dei molluschi largamente diffuso nei mari italiani è la Seppia: si potrebbe pensare che non rivesta particolare interesse per i subacquei, mentre merita invece di essere conosciuto più da vicino. La Seppia, mollusco Cefalopodo Decapode che appartiene alla famiglia dei Sepidi, ha il corpo dotato di due strane pinne nastriformi, testa grossa, occhi molto sviluppati; possiede dieci tentacoli (e da qui il termine Decapode) muniti di ventose, due dei quali di forma diversa sono più lunghi degli altri. La conchiglia di questo animale, anziché rivestire il corpo come avviene per molti altri animali della stessa specie, si trova all'interno del corpo ed è l'unica struttura rigida con funzione di spina dorsale. Molti ricorderanno l'osso di Seppia, largamente usato nelle gabbiette degli uccellini per dar modo ai simpatici volatili di lisciare il becco sfregandolo, per l'appunto, su questo osso.
La Seppia è dotata di una ghiandola che secerne una sostanza nera che, disciolta nell'acqua, ha funzione di difesa: intorpidendo l'acqua disorienta l'assalitore riuscendo così a proteggere la fuga di questo animale. Tale sostanza venne impiegata nel passato nella fabbricazione di particolari coloranti, e anche qui si ricorderà il classico termine 'Color seppia' per indicare una certa gradazione di tinta.

Questi animali vivono a varie profondità, anche se prediligono infilarsi nella sabbia mimetizzandosi in modo tale da non riuscire più a distinguerle. Il loro alimento base è costituito prevalentemente da piccoli pesci e crostacei che ingoiano dopo aver rotto le parti più dure con il becco.

Nel mare Mediterraneo le specie più diffuse sono principalmente tre: la Sepia Officinalis, detta anche Seppia comune, che può raggiungere i 35 centimetri di grandezza; la Sepia Orbignyana, nota come Seppia Pizzuta, lunga al massimo 12 cm; infine la Sepia Elegans, o Seppia Piccola, che non supera i 9 centimetri di lunghezza.

Ma anche sono il profilo gastronomico le Seppie non sono da sottovalutare, hanno carni squisite e povere di grassi con le quali si possono preparare ottimi piatti, dalla frittura per le piccole Seppie, alla specialità in umido e, per i buongustai, cucinandole nel proprio sugo ottenuto con il liquido nero.

Le uova vengono deposte in mezzo alle alghe, fra le gorgonie o fra i coralli e, dopo un periodo in incubazione nel grembo di madre natura, prenderanno vita i piccoli che si troveranno ad affrontare non pochi pericoli per sopravvivere.

Animali di queste dimensioni hanno vita difficile nel mondo sottomarino e fino a quando non impareranno a mimetizzarsi fra le alghe o sotto la sabbia, saranno un facile bersaglio per soddisfare l'appetito dei pesci più smaliziati.



La seppia (Sepia officinalis)  è un tipico abitatore delle nostre acque, e non solo di queste. Ed è un animale, che pur nella sua “primitività”, si tratta di un Mollusco, è curioso e affascinante. Come si sa, la seppia può raggiungere dimensioni massime di 30-35 centimetri, e ha colorazione molto variabile che differisce tra maschi e femmine, infatti i maschi presentano una linea bianca lungo tutta la pinna. Il suo corpo è ovale, schiacciato e circondato appunto da una pinna. La testa possiede dieci braccia, due delle quali, i tentacoli, sono più lunghe, retrattili e con la parte terminale ricca di ventose.

Vive sui fondali non troppo profondi e in genere sabbiosi o melmosi e sulle praterie di Posidonia. E’ celebre per le sue migrazioni riproduttive, che compie in primavera ed autunno e dalle quali dipendono anche i diversi metodi di pesca utilizzati per pescarle. Infatti, se normalmente vive in acque non troppo vicine alle coste, si avvicina però a queste proprio durante la stagione degli amori. Prima arrivano i maschi, seguiti poi dalle femmine. Le quali poi depongono delle uova molto caratteristiche che non è raro trovare sulle spiagge. Sono dei grappoli neri che sembrano uva (in effetti c’è chi le chiama “uva di mare”). Facile trovare sulla sabbia anche la conchiglia di questi molluschi, che è interna e di colore bianco: il cosiddetto osso di seppia.

In passato molto più che oggi non era raro incappare anche nelle sipe delfinede cioè, le seppie decapitate dai delfini, i quali infatti sono golosi solo della testa, che riescono a staccare dal corpo. La pesca a questa specie deve seguirne i movimenti migratori durante l’anno. Dunque in inverno le seppie si pescano più al largo, normalmente con le reti a strascico, mentre in primavera e autunno sono attese sotto costa, da strumenti di cattura fissi, come le nasse e i cogolli. Vere e proprie trappole che attirano le seppie che vi entrano non in cerca di un’esca ma di un luogo riparato dove deporre le uova. Tanto è vero che spesso le nasse hanno all’interno materiali plastici o foglie di alloro, che appunto simulano un buon substrato dove deporre le uova. Per gli attrezzi da posta la seppia rappresenta una parte decisamente notevole del pescato, e sebbene con un calo negli ultimi anni, esse costituiscono anche un buon 20% delle catture con lo strascico. Studi genetici recenti dimostrano come la popolazione adriatica di questi curiosi animali sia isolata dalle popolazioni mediterranee. Significa che le seppie mediterranee difficilmente vengono a rimpolpare la popolazione di quelle che vivono in Adriatico, dunque queste necessitano di misure di tutela e di una attenta gestione, per evitarne drastiche diminuzioni.

Le seppie sono molluschi di mare che vantano un notevole pregio commerciale e gastronomico.
Non è raro che all'acquisto delle seppie, per questioni gastronomiche, si scelgano esemplari esteri di piccole dimensioni; in tal caso si tratta quasi sempre di specie appartenenti al Genere Sepiella (ad es. S. inermis - oceano Indiano).

Le seppie sono molluschi dei quali vengono utilizzate diverse parti del corpo. Per effettuare una "comoda" pulizia delle seppie fresche è MOLTO utile che vengano riposte in congelatore per qualche ora. Un semi-congelamento determina l'indurimento della carne e dell'inchiostro, che consente di spellare ed eviscerare facilmente l'animale senza che la sacca con il pigmento nero si tagli (o esploda) macchiando qualsiasi cosa. Una procedura consigliabile per la pulizia delle seppie è la seguente:
Pre-congelamento
Eliminazione della pinna lamellare e della pelle
Eliminazione degli occhi, della bocca e dell'osso di seppia
Eventualmente, separare corpo e testa
Sul dorso, dov'era presente l'osso, con la forbice effettuare un'accurata incisione e rimuovere i visceri AVENDO CURA di non rompere la sacca dell'inchiostro



Delle seppie vengono utilizzati a scopo alimentare corpo, testa, pinna lamellare, gonadi femminili, uova premature (trasparenti e piccole come dei chicchi di riso) e inchiostro; l'osso di seppia, invece, costituisce un prodotto utile come integratore di amminoacidi e sali minerali nell'allevamento di alcune specie aviarie in gabbia.
Il corpo e la testa delle piccole seppie sono ideali alla produzione di spiedini per griglia o al forno; il corpo delle seppie grosse risulta maggiormente indicato alla bollitura (cotto intero e successivamente affettato) per la preparazione di insalate tiepide o Catalana (ma è ottimo anche fritto). La testa con i relativi tentacoli e la pinna lamellare dei grossi esemplari sono deliziosi se inseriti tra gli ingredienti dei risotti di mare, mentre l'inchiostro di seppia, opportunamente estratto dal fresco e riposto in piccoli recipienti (anche conservabili in freezer) è un ingrediente eccellente per: la produzione di pasta nera, la composizione di sughi neri di accompagnamento dei primi piatti, e la composizione dei risotti di mare. Le uova e le gonadi femminili delle seppie costituiscono un piatto da gourmet; si tratta di una lavorazione tipicamente veneta e permette di sfruttare anche queste componenti delle frattaglie. La preparazione delle uova di seppia è una semplice e rapida bollitura in acqua calda, al termine della quale vengono servite con un filo d'olio, prezzemolo fresco e (per gli amanti) un cucchiaino di maionese.

Dimensioni a parte, per una buona riuscita delle preparazioni a base di seppie, sono determinanti la giusta scelta di:
Freschezza-conservazione
Luogo di provenienza.
E' dunque utile specificare che il congelamento, oltre a facilitare notevolmente la pulizia delle seppie, determina una frollatura estremamente utile all'intenerimento delle carni degli esemplari adulti. Questo processo è fondamentale se le seppie vengono preparate arrostite, sia in griglia che al forno, e SOPRATTUTTO se la materia prima è di derivazione NOSTRANA. Le seppie del mar Mediterraneo, infatti, vantano caratteristiche organolettiche e gustative di gran lunga superiori rispetto alle analoghe provenienti dall'oceano Atlantico, ma le loro carni FRESCHE risultano notevolmente consistenti. Sinceramente, salvo per i risotti (nei quali andranno tagliate ben sottili), consiglio SEMPRE di congelare le seppie del mar Mediterraneo (se fresche) prima della cottura; al contrario, i grossi esemplari dell'oceano Pacifico (che sono SEMPRE congelati o decongelati) non necessitano alcun trattamento casalingo col freddo (queste seppie sono quindi più pratiche, più economiche, ma di certo meno saporite).

Le seppie fresche o decongelate si presentano visivamente in maniera del tutto differente. Le seppie fresche, generalmente, sono del tutto integre e coperte di inchiostro (al di sotto del quale è possibile osservare una pelle lucida, tendenzialmente marrone sul dorso e bianca sul ventre); il pescato freschissimo conserva addirittura le sfumature perlate del ventre ma è comunque raro acquistare seppie praticamente vive, se non in filiera corta. Le seppie fresche tendono a sbiadire col tempo e col calore, pertanto, il pallore acquisito è direttamente proporzionale al tempo trascorso dal momento dalla loro morte. Per quel che concerne le seppie decongelate il discorso cambia; quelle ancora da pulire sono sempre sbiadite, poiché il trattamento col freddo incide notevolmente sull'integrità della pelle, ma non per questo una seppia rapidamente congelata risulta qualitativamente inferiore ad un'altra fresca. Anzi, come per tutti i pesci, i crostacei e i molluschi cefalopodi, un buon congelato/surgelato è decisamente consigliabile rispetto a un fresco... "non più molto fresco".

Le seppie vanno incontro a deperibilità molto rapidamente; quelle che non vengono mantenute a temperature intorno allo 0°C (meglio se in cassette con ghiaccio tritato) acquisiscono un forte odore di zolfo (anche se ad un esame microbiologico potrebbero risultare commestibili). Le carni della seppia abbondano di aminoacidi solforati e, se mal conservate, subiscono l'azione microbiologica dei batteri e/o l'azione enzimatica propria, sfociando inesorabilmente nella liberazione di acido solfidrico (molecola dal tipico odore di "uova marce").

Le seppie hanno carni magre e povere di colesterolo; costituiscono delle pietanze decisamente ipocaloriche e le relative porzioni di consumo raggiungono facilmente i 300g. Le seppie contengono tracce di zuccheri ma i macronutrienti che apportano la maggior quantità di energia sono le proteine ad alto valore biologico (ricche di amminoacidi solforati).
Dal punto di vista dei sali minerali e delle vitamine, le seppie non si distinguono per alcun contenuto particolare.
Le seppie si prestano notevolmente alle diete ipocaloriche, poiché hanno un buon potere saziante ed una bassissima densità energetica; sono molto utili anche se contestualizzate nei regimi alimentari contro le dislipidemie e il diabete mellito tipo 2, ma non rientrano tra gli alimenti consigliabili nella dieta per la gotta e l'iperuricemia.
Le seppie contengono una discreta porzione di tessuto connettivo; questo elemento proteico (presente anche nella carne degli animali terrestri ma poco nel pesce propriamente detto e nei molluschi bivalvi/lamellibranchi) aumenta con l'età dell'animale e non è digeribile quanto i peptidi muscolari. Per questo motivo, a chi soffre di disturbi digestivi, gastrite o ipocloridria gastrica, si consiglia di: prediligere seppie di medio-piccole dimensioni, congelarle, cucinarle appropriatamente e non raggiungere porzioni di consumo eccessive, soprattutto in concomitanza del pasto serale.


LEGGI ANCHE : http://marzurro.blogspot.it/2015/08/lisola-del-giglio.html



IL POLPO



Il più antico fossile di polpo conosciuto, un esemplare del genere Pohlsepia conservato al Field Museum di Chicago, ha 296 milioni di anni. Visse e nuotò nel periodo Carbonifero e, mentre sulla Terra si diffondevano i primi rettili precedenti ai dinosauri, questa creatura acquatica aveva già sviluppato una forma simile a quella che vediamo ancora oggi.

Il termine polpo ha origine dal latino pōlypus, da una forma greca dorica πώλυπους (pṓlypous) o πωλύπους (pōlýpous), in attico πολύπους (polýpous), probabilmente da πολύς (polýs), "molto", e πούς, (póus), "piede", quindi "dai molti piedi".

Il termine piovra deriva da pieuvre, forma dialettale normanna derivante dal latino pōlypus.

Spesso ci si riferisce al polpo utilizzando la parola polipo, ma il nome zoologicamente corretto è polpo, in quanto i polipi sono invece animali acquatici (o una forma di essi) appartenenti al phylum dei Cnidari.

È un mollusco cefalopode molto diffuso nei bassi fondali, non oltre i 200 metri. Preferisce i substrati aspri, rocciosi, perché ricchi di nascondigli, fessure e piccole caverne in cui nascondersi: l'assenza di endo- ed esoscheletro gli permette di prendere qualsiasi forma, e di passare attraverso cunicoli molto stretti. Presente in tutti i mari e gli oceani, è molto diffuso anche nel Mar Mediterraneo. Nel Mediterraneo viene pescato principalmente in due diversi periodi dell'anno: da settembre a dicembre (in buone quantità, seppur ancora di piccola taglia) e da maggio a luglio (periodo nel quale è di taglia più grossa).

Il polpo possiede 3 cuori e ha la capacità di cambiare colore molto velocemente e con grande precisione nel dettaglio. Sfrutta questa abilità sia per mimetizzarsi che per comunicare con i suoi simili. Caratteristica principale è la presenza di una doppia fila di ventose su ognuno degli otto tentacoli, il che lo distingue dal moscardino che ha una sola fila di ventose. Al centro degli otto tentacoli, sulla parte inferiore dell'animale, si trova la bocca che termina con un becco corneo utilizzato per rompere gusci di conchiglie e il carapace dei crostacei dei quali si nutre. Il manto è lungo 8–25 cm, i tentacoli invece sono lunghi in media 40–100 cm, il peso varia da 500 grammi fino a 7–8 kg degli esemplari più grandi. In genere i maschi sono più grandi delle femmine. L'Octopus vulgaris vive mediamente un anno, massimo un anno e mezzo. Altre specie, come la piovra gigante del Pacifico (Enteroctopus dofleinii) hanno aspettativa di vita maggiore, sopravvivendo anche 5-6 anni.

Il sangue dei polpi contiene enocianina, una proteina in cui è presente il rame, capace di trasportare l'ossigeno in tutto il corpo: a contatto con l'aria, il fluido diviene quindi blu e non rosso (come accade al nostro sangue, ricco di ferro).

Due terzi dei neuroni dei polpi risiedono nei loro tentacoli e non nella testa. Può quindi capitare che un tentacolo risolva un piccolo compito come aprire il guscio di una conchiglia mentre il suo proprietario è impegnato in altre faccende, come per esempio l'esplorazione di un anfratto nel reef. I tentacoli possono continuare a reagire agli stimoli anche quando sono separati dal resto del corpo (il polpo li può anche perdere volontariamente se sono finiti nelle grinfie di un predatore, pur di riuscire a scappare).



A differenza di altri animali marini dotati di abilità mimetica, i polpi non provano ad assumere i colori dell'intero habitat che li circonda (sabbia, alghe, coralli) ma scelgono un oggetto preciso (per esempio una conchiglia) e si mettono in posa per assomigliargli. Anche la consistenza della loro pelle può variare a scopi mimetici: per esempio un polpo che voglia assomigliare a un'alga può usare i muscoli per sollevare tante piccole papille dalla pelle e mimare le sembianze delle increspature di un vegetale marino.

L'inchiostro emesso dai polpi non ha il solo scopo di oscurarlo (permettendone la fuga); è anche in grado di danneggiare fisicamente il nemico. Contiene un enzima chiamato tirosinasi che, spruzzato negli occhi dell'aggressore, provoca irritazione e difficoltà visive. Secondo i biologi marini la sostanza riuscirebbe anche a inibire olfatto e gusto dei predatori, rendendo più difficile l'individuazione del polpo.
Diversi cefalopodi nelle acque indonesiane sono stati filmati mentre trasportavano faticosamente sulla sabbia le due metà dell'involucro della noce di cocco, per poi assemblarle nella forma originale, l'una sopra l'altra, e nascondercisi dentro, sfruttando l'abilità di infilarsi nei pertugi.
Dopo aver fertilizzato le uova della femmina, i maschi vagano qua e là per qualche mese finché non periscono. Le femmine invece, aspettano che le 100-400 mila uova deposte si schiudano, smettendo anche di mangiare pur di fare la guardia al prezioso carico. Dopo la schiusa, le cellule del corpo della madre vanno incontro a un suicidio programmato, che inizia dalle ghiandole ottiche fino a coinvolgere, mano a mano, tessuti e organi interni.
Può spostarsi rapidamente espellendo con forza l'acqua attraverso un sifone, che viene utilizzato anche per l'emissione dell'inchiostro nero usato in funzione difensiva per confondere possibili predatori.

Per attrarre le femmine, i polpi effettuano un rituale di corteggiamento. Liberano sperma in pacchetti seminali, detti spermatofore. Per trasferirli alla cavità palleale della femmina durante la copula, utilizzano un braccio modificato chiamato ectocotilo. Dopo che la femmina del polpo ha deposto le uova (in numero che varia da 50.000 a 400.000) le difende da possibili predatori fino alla schiusa. In questo periodo di 1-2 mesi non si nutre perdendo una gran parte del suo peso e muore dopo la schiusa. Le paralarve che escono dalle uova attraversano prima una fase planctonica, per poi subire metamorfosi, diventare bentonici, ed essere in tutto e per tutto simili ad adulti in miniatura.

È considerato uno degli invertebrati più intelligenti; è stato, per esempio, dimostrato che il polpo comune ha la capacità di apprendere se sottoposto a test di apprendimento per associazione e osservando gli altri della sua specie, capacità che era stata dimostrata solo in alcuni mammiferi. Quest'ultima evidenza è alquanto sorprendente, poiché, essendo il polpo un animale fortemente solitario, sembrerebbe inspiegabile un comportamento simile, tipico di animali con rapporti sociali.

Una volta pescato, è in grado di riguadagnare la libertà uscendo attraverso i boccaporti delle navi. Sottoposto a test durante i quali gli è stata somministrata una preda rinchiusa in un barattolo, il polpo ha dimostrato di essere in grado di aprire il barattolo per raggiungere il cibo.

Talora usa acquattarsi sotto gli anfratti rocciosi del fondo marino, talora invece vive in tane preparate con pietre disposte in circolo.

Nel 2015, due gruppi di ricerca, all'Università di Chicago e all'Università della California a Berkeley, hanno compiuto il sequenziamento del genoma del polpo e di vari trascrittomi, operazione che ne ha rivelato le notevoli peculiarità. Si tratta, infatti, di un genoma più ampio di quello umano e con un numero superiore di geni codificanti (circa 33.000, contro i 25.000 del genoma umano). La vastità del genoma è dovuto, in massima parte, all'espansione di due famiglie di geni, le protocaderine e i fattori di trascrizione C2H2.

I cui geni codificanti per le protocaderine sono presenti in misura doppia rispetto ai mammiferi: trattandosi di proteine implicate nello sviluppo neurale, l'espansione della famiglia dei relativi geni codificanti dà conto dell'ampiezza della loro rete neurale che, oltre a costituire il sistema nervoso più sviluppato tra gli invertebrati, contiene sei volte il numero di neuroni del topo. Due terzi dei neuroni del polpo, peraltro, sono direttamente collegati agli organi di movimento (al punto che i tentacoli possono svolgere funzioni cognitive perfino da recisi: ad esempio, una volta recisi sono ancora in grado di riconoscere come sé il resto del corpo).

Altra particolarità è stata evidenziata con l'individuazione di un gruppo di proteine coinvolte nello spiccato mimetismo del cefalopode, le reflectine, in grado di alterare le modalità di riflessione ottica della luce che incide sul corpo del polpo.

Inoltre, lo studio del genoma ha permesso la scoperta di un meccanismo che consente alle cellule di cambiare in modo rapido le funzioni di proteine già codificate, intervenendo con modifiche sulle stesse. Gli scienziati ipotizzano che questo meccanismo abbia a che vedere con le eccezionali attitudini all'apprendimento esibite da questi cefalopodi.



La maggior parte del polpo che consumiamo viene dall'Africa settentrionale e occidentale. Secondo l'Organizzazione delle Nazioni Unite per l'alimentazione e l'agricoltura ogni anno vengono importante, globalmente, 270 mila tonnellate di polpo. A causa dell'elevata popolarità le riserve di polpo si stanno assottigliando: in Giappone, per esempio, i polpi pescati si sono dimezzati tra il 1960 e il 1980. Un analogo depauperamento delle riserve ittiche sta avvenendo anche nelle acque africane e la pesca di polpo si è progressivamente spostata dal Marocco alla Mauritania, al Senegal.

Il polpo rappresenta una prelibatezza della cucina mediterranea ma non solo. In alcune località del pianeta i piccoli polpi vengono consumati crudi, ancora vivi e semplicemente tagliati a pezzi; tuttavia, la stragrande maggioranza delle culture lo sottopone a trattamenti termici più o meno intensi e di varia natura.

In Italia è frequentemente cucinato intero per bollitura/lessatura, in acqua calda o fredda (a seconda delle correnti di pensiero), salata o meno, con limone o senza; dopo la cottura, in base ai gusti, può essere sottoposto a spellatura. Questo processo è essenziale SOLO nel caso in cui l'animale, per essere intenerito il più possibile, venga lasciato bollire a lungo provocando il disfacimento dell'epitelio e delle ventose; ciò rende la preparazione sgradevole alla vista e al tatto, ragion per cui è poi necessario che i residui vengano rimossi prima del condimento e del servizio. Assieme all'eventuale spellatura, il polpo viene eviscerato, privato della bocca, degli occhi e tagliato a pezzi (grandi o piccoli a seconda della preparazione). Alcuni aggiungono nell'acqua di cottura alcuni tappi di sughero che, "teoricamente", dovrebbero facilitare l'intenerimento della carne (concetto assolutamente opinabile); in realtà la consistenza del polpo è determinata esclusivamente dall'integrità funzionale delle fibre proteiche, pertanto non esiste una motivazione logica per il quale il sughero debba facilitare l'intenerimento della carne.
Per dirla tutta, nonostante rappresenti un alimento altamente gradito e diffuso, gli intenditori del polpo lesso sono piuttosto rari. Anzitutto, NON è consigliabile intenerire il polpo mediante la stra-cottura, è invece determinante applicare un'opportuna frollatura; tale processo può essere svolto FISICAMENTE battendo e stirando il polpo (ad es., frustandolo sugli scogli) oppure congelandolo. Quest'ultimo metodo è senz'altro meno naturale, ma risulta pratico e poco impegnativo. Per chi volesse battere il polpo in casa, invece, si raccomanda di fare attenzione a non utilizzare il batticarne con troppa violenza o la polpa dell'animale si disferà eccessivamente in cottura; per gli esemplari di grosse dimensioni è sempre opportuno eseguire una battitura pur utilizzando il congelamento, mentre quelli più piccoli possono anche venir cucinati freschi. La frollatura consente di accorciare notevolmente i tempi di cottura mantenendo integra la pelle e le ventose che, a dispetto di quanto la maggior parte dei consumatori possa credere, contengono la maggior parte del sapore del polpo; chi non ha mai mangiato un polpo cucinato ad hoc con la pelle, non ha mai assaggiato un buon polpo! Tra l'altro, mangiare un polpo dalla consistenza burrosa non è sempre gradevole, mentre è assolutamente naturale che un animale del genere richieda una buona masticazione. Anche la cottura in pentola a pressione sortisce ottimi risultati e accorcia i tempi di cottura.
Questo mollusco può anche essere lavorato in guazzetto o affogato, con sughi a base di pomodoro, patate o altri ingredienti, ma attenzione! I tempi di cottura di un polpo in guazzetto sono eternali; per abbreviarli sarebbe possibile sbollentarlo ma, in tal caso, si consiglia di aggiungere gli altri ingredienti SOLO dopo aver calcolato il tempo di cottura residua del mollusco.
Il polpo alla griglia è un piatto tipico di molte nazioni che si affacciano sul bacino del Mediterraneo (come l'Italia, il Portogallo ecc.); anche in tal caso c'è chi preferisce pre-trattarlo in acqua bollente ma si rischia di perdere gran parte del fascino e del gusto tipici della preparazione. Il procedimento più interessante è senz'altro quello greco, il quale prevede (dopo la frollatura) una essicazione al sole di qualche ora prima della cottura.

Per il carpaccio si utilizzano polpi di medie o piccole dimensioni, ancor prima della battitura, effettuando un massaggio del polpo sulle rocce (che a dir il vero somiglia molto di più ad lungo sfregamento) si ottiene un risultato strabiliante; la pelle, oltre a cedere completamente il muco che la riveste (visibile sotto forma di in una schiuma bianca durante il processo), si assottiglia e perde tutto il suo vigore. A questo punto è sufficiente una rapida sbattuta sui sassi e il polpo è pronto per essere tagliato a fettine sottilissime. Quest'ultimo è senz'altro un taglio difficile, ma si tenga in considerazione che in tal modo l'animale NON risulta più scivoloso come appena pescato.
Non mancano anche le ricette per i primi piatti a base di polpo, nelle quali ci si può sbizzarrire sull'accostamento con altri prodotti della pesca, frutti ed ortaggi.
Il vino da abbinare al polpo lesso è bianco, mentre per il polpo arrostito o in guazzetto potrebbe essere necessaria una bevanda più intensa (rosé o rosso leggero).

Il polpo fa parte del I° gruppo degli alimenti e, in quanto tale, apporta ottime quantità di proteine ad alto valore biologico. Il polpo non contiene molto colesterolo ed i glucidi (pur scarsissimi) sono addirittura quantitativamente superiori agli acidi grassi; queste caratteristiche conferiscono al polpo la famosa ipo-caloricità. Tra le vitamine non si evidenziano apporti degni di nota, mentre per quel che concerne i sali minerali spiccano ottime quantità di ferro, calcio, fosforo e potassio.
Nonostante il polpo sia un alimento poco energetico e molto magro, non è assolutamente un prodotto facilmente digeribile.

Grazie alla sua composizione nutrizionale, il polpo è un alimento altamente consigliato nei regimi alimentari strutturati per: dimagrimento, dislipidemie, anemia sideropenica, accrescimento e incremento della razione proteica ad alto valore biologico.
D'altro canto, il polpo è considerato un alimento abbastanza ricco di purine, ragion per cui non è consigliabile assumerlo in caso di iper-uricemia e/o gotta conclamata. Ricordiamo anche che il polpo, essendo un mollusco, ha una certa incidenza per allergie, ragion per la quale sarebbe consigliabile introdurlo nella dieta dell'infante ad un'età più avanzata rispetto al divezzamento; alcuni specialisti lo sconsigliano anche in fase di allattamento.



LEGGI ANCHE : marzurro.blogspot.com/2015/08/lisola-del-giglio.html