mercoledì 28 ottobre 2015

LE OASI



La parola oasi, attestata già nell'Antico Regno, in origine era un toponimo che designava una specifica località, sembra nell'attuale oasi di Dakhla, e probabilmente era un termine della lingua locale (libico-berbero).

Nonostante costituisca lo sfruttamento di una risorsa naturale già presente, ossia l'acqua e l'ambiente favorevole da essa creato, in realtà un'oasi non è mai di origine integralmente naturale. Per oasi, infatti, si intende tutto il complesso ecosistema formato da insediamento umano, palmeto, coltivazioni, e, spesso, elaborati sistemi di captazione e gestione idrica. Si tratta, quindi, di un paesaggio colturale in cui le palme da dattero sono piantate e meticolosamente coltivate e dove si arriva, a volte, a controllare anche gli stessi sistemi dunari, creando dune artificiali protettive. Pietro Laureano dà questa definizione di oasi:

« oasi è un insediamento umano che in condizioni geografiche aride usa le risorse disponibili localmente per creare una amplificazione di effetti positivi e determinare una nicchia vitale autosostenibile e un ambiente fertile in contrasto con l'intorno sfavorevole »
Per ottenere una varietà di prodotti vegetali, quali datteri, fichi, olive, pesche e albicocche, l'acqua disponibile deve essere utilizzata in modo accorto. La coltivazione avviene quindi in strati altimetrici, dei quali il primo e più importante è costituito dalle palme da datteri, piante a elevato sviluppo verticale che forniscono l'ombreggiatura per alberi più bassi come quelli da frutta. A loro volta questi possono fornire un ambiente adeguato alla coltivazione di verdure ed eventualmente, se le condizioni lo consentono, di cereali. Questo sistema minimizza la dispersione idrica dovuta all'esposizione al sole diretto, e quindi consente un utilizzo efficiente dell'acqua disponibile.

La posizione di un'oasi è di importanza critica per le rotte commerciali e di trasporto delle aree desertiche. Le carovane devono viaggiare di oasi in oasi per assicurarsi il rifornimento di acqua e cibo. Quindi il controllo militare o politico di un'oasi può in molti casi significare il controllo di un particolare commercio o rotta commerciale. Per esempio, le oasi di Augila, Ghadames e Kufra, nella Libia moderna, sono state, in vari momenti, vitali sia al commercio Nord-Sud, sia a quello Est-Ovest nel Deserto del Sahara.



Huacachina è un'oasi considerata tra le più secche del pianeta e sembra assurdo che questa piccola città abitata da 96 abitanti continui a proliferare. L'oasi è diventata una meta molto ambita ma è meglio andarci preparati perché non c'è acqua.

L'acqua può avere diversa provenienza, o da un fiume (oasi di Merv nel Turkestan), o da sorgenti (oasi di Siwah), o più spesso da falde sotterranee di non grande profondità che vengono raggiunte mediante pozzi; da essi l'acqua è poi sollevata e distribuita con varî mezzi (la maggior parte delle oasi del Sahara italiano; oasi dello Mzab, ecc.). Più raro è il caso di oasi create col trasporto d'acqua da lontano, mediante acquedotti, come nell'antica Palmira. Si comprende agevolmente come, tranne in quest'ultimo caso, le oasi si trovino di preferenza in zone depresse, o lungo il corso di uadi (oasi del Fezzan: U. el-Agiál, U. Abergiúsc) o in depressioni d'altro genere, spesso poste sotto il livello marino. Dal punto di vista morfologico le più interessanti sono le depressioni alberganti le oasi del Deserto Libico, depressioni che oggi i più propendono a ritenere prodotte dall'azione di scavo e di asporto di materiali (deflazione) operata dal vento.
L' estensione delle singole oasi è limitata dalla quantità d'acqua disponibile, la quale perciò viene sapientemente utilizzata e distribuita, spesso con norme rigorose. La distribuzione avviene per lo più mediante una rete di canali abilmente sistemati, sì da recare il prezioso alimento su tutta l'area coltivata. Questa è perciò scrupolosamente custodita e la proprietà è di solito molto frazionata: i singoli appezzamenti sono ricinti da siepi e ogni palmo del terreno è utilizzato. La popolazione è per solito sedentaria e vive disseminata nelle oasi, dove ogni proprietario di terreno ha la sua casa; non mancano peraltro esempi di popolazioni che vivono abitualmente in agglomerazioni urbane fuori dell'oasi e hanno poi case di campagna nelle singole proprietà.

Poiché l'estensione dell'oasi non si può ampliare, mentre la popolazione tende a moltiplicarsi, si arriva facilmente al sovrapopolamento, onde caratteristiche di molte oasi sono le migrazioni di gruppi che a un certo momento lasciano le loro sedi e vanno a cercare altrove lo spazio e i mezzi per vivere.

Accanto all'elemento sedentario, si ha spesso nelle oasi un elemento di popolazione nomade; anzi talune piccole oasi, povere di risorse, sono visitate esclusivamente da nomadi, che le frequentano periodicamente, abbandonandole quando i pascoli per le greggi e le altre magre risorse si esauriscono.

Spesso le oasi rappresentano aree di rifugio o di accantonamento dove gruppi di popolazioni hanno conservato linguaggi, usi, costumanze proprie, ovvero riti religiosi, ecc. (oasi dello Mzab e di Cufra nel Sahara; oasi del Ned in Arabia).

Nel Sahara, dove si hanno le oasi più tipiche, la loro distribuzione spaziale ha grande importanza perché ha determinato le direttrici delle vie carovaniere transahariane; tutto il traffico carovaniero era, e, dove ancora sussiste, è tuttora legato all'utilizzazione delle oasi come luoghi di tappa e di rifornimento. Da ciò anche l'importanza del possesso di taluni gruppi di oasi che rappresentano veri e propri nodi stradali.

Manca un calcolo complessivo dell'area totale delle oasi sahariane. Fuori del Sahara s'incontrano oasi dello stesso tipo in Arabia, nell'Asia centrale, nell'Iran; invece nei deserti australiani, come per esempio nel Kalahari, mancano vere e proprie oasi, almeno del tipo classico (a palme, e a tre piani di vegetazione).




I PESCI SCALARE



Lo scalare è caratterizzato da un corpo alto, molto compresso ai fianchi. Il profilo dorsale è alto ma arrotondato, così come quello ventrale, più pronunciato. La pinna dorsale e quella anale sono molto alte, sorrette da lunghi raggi, che si riducono e diventano più sottili verso la parte terminale della pinna. Le pinne ventrali sono filiformi, formate da pochi raggi duri. La pinna caudale è a delta, molto ampia, con i raggi laterali allungati.
La livrea selvatica presenta un fondo argenteo (con dorso giallastro e ventre tendente al bianco) con quattro strisce verticali bruno-nere (sette nella livrea giovanile).

Pterophyllum scalare, comunemente chiamato scalare o pesce angelo è un pesce tropicale d'acqua dolce appartenente alla famiglia Cichlidae.
Questo ciclide è diffuso nel bacino del Rio delle Amazzoni, nonché nei fiumi Ucayali, Solimões e Amapá (Brasile), Rio Oyapock (Guiana francese) e nell Essequibo (Guyana).
Abita le acque calme (anche paludose) ricche di piante acquatiche (compresa la foresta inondata), sia limpide che torbide e fangose.

Lo Scalare forma coppie monogame che rimangono fedeli tutta la vita: se uno dei due dovesse morire, difficilmente l'esemplare rimasto trova un altro compagno. Qualche giorno prima della deposizione, la coppia inizia a ripulire accuratamente la foglia di una pianta sulla quale verranno fatte aderire le uova. Durante la deposizione la femmina e il maschio passano a turno sulla superficie della foglia: la femmina depone le uova e il maschio la segue nei suoi passaggi rilasciando gli spermatozoi. A deposizione avvenuta, la coppia cura le uova e sorveglia il territorio finché queste non si schiudono. Le cure parentali consistono nella rimozione delle uova non fecondate e nell'ossigenazione, favorita dal ricambio dell'acqua che i genitori assicurano tramite rapidi e ripetuti movimenti a ventaglio delle pinne pettorali. Una volta avvenuta la schiusa, i genitori continuano a curare gli avannotti per alcuni giorni, abbandonandoli poi al loro destino.

Ha dieta onnivora: si nutre di piccoli pesci (specialmente avannotti), vermi, insetti e vegetali.

Gli scalari hanno un portamento e un'eleganza nei movimenti ineguagliabili, comportamenti sociali molto interessanti da osservare e le spettacolari cure parentali in riproduzione dei ciclidi spesso però non solo non riescono a mostrare questi comportamenti, ma vivono anche molto meno della loro normale aspettativa di vita, perchè vengono messi in acquari troppo piccoli per le dimensioni che dovrebbero raggiungere da adulti, il che si traduce in crescita stentata, stress, maggiore propensione alla malattie e appunto morte precoce.
Anche se li troviamo piccoli nei negozi, sono pesci destinati a diventare grandi, maestosi, hanno bisogno di vasche lunghe, per poter nuotare, alte, perchè hanno pinne dorsali e ventrali molto estese, ed essendo territoriali hanno bisogno di spazio.
Non esistono 'scalari nani' come tentano di propinare certi negozianti: tutti gli scalari crescono, e se non lo fanno è perchè non vengono allevati correttamente.




E' molto robusto e poco difficoltoso da allevare, ma occorrono vasche di dimensioni generose e molta attenzione nella scelta degli abbinamenti.

Grazie a decenni di attenta selezione da parte degli allevatori si è arrivati a standardizzare un numero notevole di varianti cromatiche (circa un centinaio), alcune molto diffuse, altre un po' meno. In base allo stesso lavoro selettivo si sono poi ottenute anche varianti standardizzate per forme delle pinne.
Il dimorfismo sessuale non è visibile ad occhio nudo. Solo durante la riproduzione è possibile distinguere i sessi da attenta osservazione, difatti in questa fase è  ben visibile nelle femmine l'organo depositore, ovidotto, estroflesso per alcuni millimetri e di forma cilindrica, mentre nel maschio è visibile l'organo riproduttore, appuntito e di dimensioni nettamente inferiori rispetto all'ovidotto estroflesso della femmina.

In giovane età Pterophyllum scalare vive in piccoli gruppi, ma al raggiungimento della maturità sessuale iniziano a formarsi coppie piuttosto stabili, le quali progressivamente si staccheranno sempre più frequentemente dal branco originario. Per questo motivo in acquario una coppia tollererà ben poco la presenza di altri esemplari dimostrandosi nervosa e pericolosamente aggressiva contro qualsiasi animale venga considerato potenzialmente pericoloso per la sicurezza del proprio territorio riproduttivo.

E' un pesce sostanzialmente pacifico, però occorre tenere conto che in natura si nutre principalmente di avannotti e crostacei, per tale motivo è sconsigliabile l'abbinamento con Caridine, Neocaridine e pesci di piccola taglia. Anche i gasteropodi sono da evitare in quanto saranno frequentemente oggetto di attacchi e morsicate. Pterophyllum scalare resta comunque uno dei Ciclidi più adatti all'acquario di comunità, ma quando entra in fase riproduttiva se la vasca è troppo piccola e/o spoglia son dolori per tutti gli eventuali coinquilini.



IL GUPPY



Il Guppy o Lebistes, è un piccolo pesce d'acqua dolce della famiglia Poeciliidae.
Questo pesce è originario del Sudamerica, nelle aree di Venezuela, Guyana, Brasile settentrionale e isole come Barbados e Trinidad e Tobago, ma è stato ampiamente diffuso in tutto il continente e anche in centro-nord America perché sembrava fosse un ottimo rimedio contro le zanzare, come il pecilide Gambusia. Purtroppo, l'effetto sulle zanzare non si è rivelato significativo, mentre l'introduzione della specie ittica aliena ha comportato danni agli ecosistemi acquatici.
Successivamente si è diffuso in tutte le regioni tropicali e subtropicali del pianeta come Asia meridionale, Africa (fiume Durban e lago Otjikoto in Namibia), Australia e perfino Spagna meridionale. Almeno una popolazione perfettamente naturalizzata è stata riscontrata anche in Italia centrale, a Canino, in provincia di Viterbo.
Il Guppy abita acque diverse, ma sempre tropicali (23-24 °C): è diffuso in stagni, laghetti, laghi, fiumi e canali, dalle sorgenti di montagna alle foci dei fiumi e lagune, poiché sopporta, in molti casi gradendole, diverse concentrazioni di salinità. Elemento importante è un'alta concentrazione di piante acquatiche.

I guppy presentano un chiaro dimorfismo sessuale: il maschio è piccolo, dal corpo tozzo, con testa piccola, dorso incurvato, ventre arrotondato e un lungo e sottile peduncolo caudale, terminante in una coda arrotondata. La pinna dorsale è alta, le ventrali sono appuntite, l'anale è trasformata in organo copulatore (gonopodio). La livrea selvatica presenta un fondo bruno chiaro, semitrasparente, con chiazze arancioni, nere, blu e verdi dai riflessi metallici.
La femmina ha corpo più ampio e lungo, con un dorso più lineare e un grande ventre arrotondato, con pinne tondeggianti. La livrea femminile è semplice: un uniforme colore grigio-bruno, tendente al giallo trasparente.
L'allevamento in acquario ha prodotto centinaia di varietà colorate.

Gli esemplari maschili sono solitamente più piccoli (3,5 cm) e più colorati che gli esemplari femminili (6 cm).

Pesci estremamente prolifici, i guppy si riproducono con facilità.
Una caratteristica delle femmine è che con un solo accoppiamento possono produrre fino a sei covate e ciò risulta vantaggioso per la diffusione della specie, in caso esemplari femminili rimangano isolati. Nell'allevamento in acquario quindi non è inusuale avere figliate che non presentano il patrimonio genetico dei maschi presenti in vasca, almeno nei primi mesi.

Una volta fecondate le uova (internamente, con un fugace accoppiamento durante il quale il maschio incastra il suo gonopodio nell'apertura urogenitale della femmina), la gestazione dura circa 30 giorni. Il momento del parto coincide con la maturazione di altre uova pronte per essere fecondate. Anche questo fatto, oltre all'assoluta mancanza di cura della prole da parte degli adulti, contribuisce a rendere questa specie estremamente prolifica.
La maturità sessuale inizia molto presto, a 2-3 mesi le femmine possono già partorire. Risulta necessario quindi, se allevati in vasca, tenere separati i sessi fino a 6 mesi di età, per evitare danni alle femmine: parti troppo precoci possono portare a deformazioni del dorso.

Gli avannotti nascono già indipendenti, con il sacco vitellino che si consumerà in poche ore. I genitori tendono a mangiare la propria prole, non riconoscendola. In acquario il parto avviene solitamente durante la notte, all'alba. In questo momento tutti i pesci adulti "riposano", e raramente mangiano gli avannotti. È quindi possibile catturare gli avannotti con un retino e metterli nella nursery, una specie di sala di rete molto fine, in modo che possano crescere indisturbati e senza il rischio di essere mangiati. Dovranno essere liberati dopo circa un mese e mezzo dal parto.



Questi pesci si nutrono di detriti, di piccoli insetti e di zooplancton. Già da piccoli gli avannotti si possono nutrire con mangime secco. Non necessitano di particolari attenzioni. Quando si possiede un acquario è più comodo fornire loro un mangime di base completo sbriciolato finemente. Accettano praticamente qualsiasi tipo di cibo, dal liofilizzato alle pastiglie per pesci da fondo. Esistono comunque svariati tipi di mangimi appositi sul mercato, sarebbe meglio fornire loro un'alimentazione bilanciata e variata, senza eccedere con le somministrazioni di cibo. Fornire loro anche delle vitamine in gocce per pesci una volta alla settimana può migliorare di molto i colori, la vivacità e la resistenza alle malattie.

Il guppy ha molti predatori nel suo ambiente naturale, prevalentemente tra uccelli e pesci. I più comuni sono Crenicichla alta, Rivulus hartii e Aequidens pulcher. La brillante colorazione (prevalentemente maschile) dei loro piccoli corpi fa dei Guppy una facile preda: per questo vivono in gruppo per diminuire il pericolo di predazione. La colorazione dei guppy è anche un risultato evolutivo in risposta alla predazione. I Guppy maschi che presentano una livrea più colorata hanno il vantaggio di attirare più femmine ricettive ma anche un rischio maggiore di essere notati dai predatori rispetto ai maschi meno appariscenti: per questo recenti studi hanno dimostrato che sotto in situazioni di intensa predazione l'evoluzione facilita la nascita di maschi con livree meno appariscenti, con screziature e puntini più piccoli (sia in natura che in laboratorio). Questo avviene perché le femmine - in situazioni di alta predazione - preferiscono maschi con livree meno vivaci, rifiutando le "avances" dei maschi più colorati.

I guppy possono essere inseriti negli acquari di comunità a condizione che gli altri pesci non siano troppo grandi e non li considerino come cibo vivo. Si deve anche evitare di farli convivere con i Betta spendens (pesci combattenti) che li attaccano prendendoli per dei concorrenti a causa delle loro pinne colorate. Possono convivere con altri vivipari come i Platy. La chiave è quello di introdurre un solo maschio ogni tre femmine, o, eventualmente, fare un acquario popolato esclusivamente da guppy maschi. Apprezzano un'acqua ben mossa e ossigenata, e si adattano ad un pH compreso tra 6,5 e 8 e ad una durezza tra 4 e 30. I guppy di allevamento vivono bene in acqua di rubinetto, spesso molto dura, ad una temperatura di 22-24 gradi.
Ci dovrebbe essere una folta vegetazione che permetta alle femmine di sfuggire all'ardore dei maschi e delle piante galleggianti dove gli inevitabili avannotti possano facilmente trovare riparo e cibo. Possono essere utilizzate Bacopa, Diplidis diandra, Hemianthus micranthemides, Ludwigia repens e Sagittaria subulata, e Ceratophyllum demersum galleggiante. In un acquario di 35 litri, possono essere inseriti 5 guppy maschi o un maschio e tre femmine, evitando di tenere gli avannotti. In un acquario più grande, da 60 o 100 litri, si possono tenere una ventina di guppy, rispettando la proporzione di 1 maschio per 3-4 femmine.
Per molti anni, i guppy sono stati molto robusti e raccomandati come pesci facili, ideali per i principianti. Questo non è più davvero il caso: un buon numero di Guppy superbi, con code immense e sgargianti, allevati nel Sud-Est asiatico, nella Repubblica Ceca o ancora in Israele, sono imbottiti di antibiotici, allevati in acquari quasi sterili grazie alle lampade UV, pompati con coloranti e talmente selezionati che diventa quasi impossibile farli durare più di un paio di settimane e riprodurli nelle nostre vasche .
L'uso di alcuni coloranti sembra rendere sterili molti di questi maschi, gli avannotti sono spesso malformati e non si sviluppano correttamente. Per trovare ceppi resistenti è meglio andare da un allevatore privato o da un'associazione/club acquariofilo che hanno pesci meno sfruttati e più resistenti.



martedì 27 ottobre 2015

L'AQUASCAPING



L’Aquascaping si può definire come la forma più moderna di acquaristica per piante. Da quando Ludwig Dennerle iniziò a concentrarsi sulle piante come base per un acquario stabile, esistono diverse espressioni dell’acquaristica orientata alle piante.
Da sempre la filosofia Dennerle si basa sull’acquaristica naturale, e con meno tecnologia possibile e una forte presenza di piante cerca di creare un ecosistema stabile, che negli opuscoli Dennerle degli anni ‘70 veniva chiamato “sistema per acquari funzionanti”. Il concetto non deve essere confuso con quello dei cosiddetti acquari biotopo, in cui vengono ricreati habitat per i pesci simili a quelli naturali.

Negli anni ‘80 un acquario orientato alle piante veniva allestito nel cosiddetto “stile olandese”, una specie di “giardino del castello sott’acqua”. Le piante vengono raggruppate in modo definito e preciso. Le piante a stelo, costantemente tagliate e reinserite, giocano in questo caso un ruolo fondamentale.
Nei moderni acquari naturali Aquascaping sono riprodotte scene naturali. Muschi di Giava, felci, pietre e radici sono piante e materiali che si trovano piuttosto di rado in un acquario “in stile olandese”. Lo sviluppo dell’Aquascaping è stato senza dubbio influenzato in particolare dal fotografo naturalista e designer di acquari Takashi Amano.

L’Aquascaping è l’arte di creare o arredare il proprio acquario con ambientazioni suggestive, di grandissimo impatto scenico agli occhi dell’appassionato acquariofilo; la combinazione di piante rigogliose, la disposizione delle rocce fino alla scelta degli animali (in casi eccezionali) fanno parte nel complesso di una filosofia acquaristica.

L’aquascaping, da molti purtroppo ancora considerata una moda passeggera, è in realtà una branca dell’acquariofilia molto concreta e che apre nuovi scenari non solo di mercato ma anche di “creatività” nell’appassionato acquariofilo, stufo ormai delle solite vasche con pesci d’acqua dolce o marina e, in costante ricerca di soluzioni nuove, innovative per certi aspetti.

Creare un ambientazione con le tecniche e gli strumenti dell’aquascaping non è difficilissimo a patto di seguire delle semplici regole che permettono, con il tempo e l’esperienza acquisita con vari allestimenti, di creare scorci naturali magnifici, con grande soddisfazione dell’appassionato.



Per allestire un ambientazione con l’aquascaping, si usano oltre che delle specifiche tecniche anche degli strumenti appositi, composti da forbici, pinze, palettine ed altri accessori particolari, utilizzati per l’allestimento di varie ambientazioni o come supporto per la sistemazione di accessori o elementi (es. rocce, substrati, etc) o per la potatura delle piante acquatiche.

Il “sand flattener “ si usa nelle prime fasi dell’allestimento, nella creazione dell’hardscape , per livellare il substrato donandogli le giuste pendenze e per adeguarlo agli arredi in modo che vada a riempire gli spazi vuoti e che la composizione risulti più naturale. Ma in realtà è sempre utile perché spesso sia dopo i cambi d’acqua che dopo una leve sifonatura del fondo c’è bisogno di ricompattare il substrato e la sabbia decorativa quando presente.

Indispensabili sono le pinzette per la piantumazione, ce ne sono di tutte le misure e di diverse forme da utilizzare a seconda delle piante acquatiche che si vanno a piantumare. Le più piccole ed appuntite sono per le piante da primo piano che hanno un apparato radicale molto esile e vanno piantumate stelo per stelo. Quelle con la punta più grande e arrotondata sono utili per la piantumazione di piante con apparati radicali più grandi come Cryptocoryne ed Echinodorus, ma anche per le piante a stelo dato che hanno una presa più ampia e migliore sulla punta ed è possibile inserire nel substrato più di uno stelo alla volta. Alcune pinzette hanno la punta inclinata per consentire di piantumare anche in prossimità di rocce e radici.

Per la potatura delle piante è importante utilizzare forbici di ottima qualità robuste ed affilate in modo che il taglio sia netto e preciso affinchè la cicatrizzazione avvenga nel modo più rapido possibile. Questa considerazione è valida un po’ per tutte le specie e soprattutto nella fase iniziale quando si effettuano potature un po’ più strutturali guardando di meno all’ estetica ed al layout. Le forbici con le lame più ampie si usano soprattutto per le piante a stelo e per le potature di formazione e di contenimento, ad esempio quando si deve dare una forma a grossi cespugli di Rotala. Quelle a lama corta possono invece essere utilizzate nei casi in cui serve una maggiore forza , ad esempio per tagliare radici di piante epifite o le foglie delle anubias.

Molto comoda è la forbice a forma di onda: indispensabile per la potatura delle piante da prato nel primo piano e per raggiungere spazi altrimenti inaccessibili, utilissima nei piccoli acquari.

Bellissimi gli “spring scissors” con il loro comodissimo sistema di taglio a molla che consente di effettuare interventi veloci e precisi. Si utilizzano per le potature dei muschi che hanno bisogno di frequenti interventi per infoltirsi e mantenere la forma.




domenica 25 ottobre 2015

Le CASCATE



Generalmente le cascate si formano lungo i corsi dei fiumi perché, in un tratto del loro corso, la parte del terreno su cui scorrono è meno resistente all'erosione rispetto alla parte più a monte; con l'andare del tempo si forma un dislivello tra le due parti e viene così generata una cascata che può crescere in altezza lentamente con il passare degli anni.

Alcune cascate si formano nell'ambiente montano dove l'erosione è più rapida e il corso della corrente può essere soggetto a cambiamenti repentini. In questi casi per la formazione della cascata non sono necessari svariati anni di erosione. In altri casi la formazione di una cascata può essere "istantanea" a causa di processi geologici molto violenti come terremoti o eruzioni vulcaniche, come nel caso dell'Islanda che possiede più di diecimila cascate. In altri casi le cascate si formano in ambiente montano quando l'acqua delle precipitazioni piovose o dello scioglimento delle nevi anziché penetrare nel terreno come accade in suoli carsici scorre direttamente in superficie accumulandosi e confluendo in valli che poi bruscamente si interrompono con un dislivello altimetrico dando vita al salto o semplicemente scorrendo in forte quantità nei valloni.

Le cascate possono anche essere artificiali, fatte per abbellire giardini o il paesaggio o dovute a chiuse e a dighe costruite per creare un lago artificiale durante il corso del fiume. Possono essere presenti anche in corsi d'acqua sotterranei all'interno di grotte.

In ogni caso le cascate sono dei fenomeni "temporanei" destinate a lungo andare ad essere distrutte dalla forza di erosione delle acque. Con il passare degli anni gli estremi delle rocce che formano la cascata sono destinati a rompersi ed a spostarsi sempre più a monte verso le sorgenti. Alle volte sotto allo strato di terreno più duro vi è un terreno più soffice che può essere a sua volta eroso formando una caverna sotto la cascata stessa.

Le cascate sono state da sempre un grosso ostacolo per il trasporto fluviale. In molti casi il problema è stato risolto costruendo canali artificiali che aggirano l'ostacolo. In altri casi sono state costruite delle vasche che vengono chiuse tramite sbarramenti e riempite d'acqua ogni volta che un'imbarcazione vi entra, in questo modo è possibile innalzare il natante fino al livello del fiume sopra la cascata; lo stesso principio applicato al contrario permette alle navi di discendere il fiume oltre la cascata.



L'acqua è un elemento molto apprezzato in fotografia: che sia essa il soggetto principale o semplicemente una componente secondaria, la sua presenza può regalare allo scatto quel "qualcosa in più" in grado di valorizzarlo, rendendolo originale e particolarmente interessante.

Laghetti, ruscelli, cascate, ma anche fontane e onde del mare sono solo alcuni esempi di questa categoria che da sempre attraggono l'attenzione dei fotografi.

Normalmente si tende ad immortalare l'acqua come l'occhio umano la percepisce, cioè ferma ad un dato istante, o al più lievemente mossa (effetto peraltro ottenuto involontariamente); riprese di questo tipo possono però risultare eccessivamente classiche e prive di creatività.

Ma data la sua natura di fluido, l'acqua si presta perfettamente anche per scene "dinamiche": essere in grado di riprenderla durante il suo movimento è indubbiamente affascinante.

Non sono certo una novità fotografie di torrenti in cui sembra scorrere della seta o cascate che assomigliano a drappeggi bianchi: dietro a queste particolari immagini, gradevolmente surreali e oniriche, si cela una tecnica ben precisa, la "lunga esposizione".

L’arcobaleno o iride è un fenomeno ottico e meteorologico che produce uno spettro quasi continuo di luce nel cielo quando la luce del Sole attraversa le gocce d'acqua rimaste in sospensione dopo un temporale, o presso una cascata o una fontana.

Visivamente è un arco multicolore, rosso sull'esterno e viola sulla parte interna, senza transizioni nette tra un colore e l'altro. Comunemente, tuttavia, lo spettro continuo viene descritto attraverso una sequenza di bande colorate; la suddivisione tradizionale è: rosso, arancione, giallo, verde, blu, indaco e violetto. Esso è la conseguenza della dispersione e della rifrazione della luce solare contro le pareti delle gocce stesse. In casi più rari è possibile assistere a più arcobaleni, tipicamente due, di cui uno appare bianco e più attenuato.



L'aspetto di un arcobaleno è provocato dalla dispersione ottica della luce solare che attraversa le gocce di pioggia. La luce viene prima rifratta quando entra nella superficie della goccia, riflessa sul retro della goccia e ancora rifratta uscendo dalla goccia. L'effetto complessivo è che la luce in arrivo viene riflessa in una larga gamma di angoli, con la luce più intensa riflessa con un angolo di 40°–42°. L'angolo è indipendente dalla dimensione della goccia, ma dipende dal suo indice di rifrazione. L'acqua del mare ha un indice più alto di quella della pioggia, quindi il raggio di un arcobaleno negli spruzzi di acqua di mare è più piccolo di quello di un arcobaleno di pioggia. Questo è visibile a occhio nudo dal disallineamento di questi due archi.

Un arcobaleno non è qualcosa di concreto che abbia esistenza effettiva in una particolare posizione del cielo. Si tratta solo di un fenomeno ottico la cui posizione apparente dipende dal punto in cui si trova l'osservatore e dalla posizione del sole. La posizione di un arcobaleno nel cielo è sempre dalla parte opposta rispetto al sole, e l'interno è sempre leggermente più luminoso dell'esterno. Tutte le gocce di pioggia rifrangono la luce solare nello stesso modo, ma solo la luce di alcune di esse raggiunge l'occhio dell'osservatore. Questa luce è quella che costituisce l'arcobaleno per quel determinato osservatore.

L'arco è centrato sull'ombra della testa dell'osservatore, apparendo ad un angolo di 40°–42° rispetto alla linea tra la testa dell'osservatore e la sua ombra. Come risultato, se il sole è più alto di 42°, allora l'arcobaleno si trova sotto l'orizzonte e non può essere visto siccome di solito non ci sono abbastanza goccioline di pioggia tra l'orizzonte (che è l'altezza degli occhi) e la terra per contribuirvi. Eccezioni avvengono quando l'osservatore si trova sopra la terra, per esempio su di un aeroplano, su di una montagna o su di una cascata. Un arcobaleno può essere generato utilizzando uno spruzzino da giardino, ma perché vi siano abbastanza gocce, esse devono essere molto fini.



mercoledì 21 ottobre 2015

IL TEMPIO DI QUECHULA



I resti di una chiesa risalente alla metà del XVI secolo sono emersi dalle acque del fiume Grijalva, vicino alla città di Nueva Quechula, in Chiapas, Messico. Noto come il Tempio di Santiago o di Quechula, l'edificio del 1564 fu abbandonato dopo l'epidemia di peste che colpì la zona tra il 1773 e il 1776. Dal 1966, anno di costruzione della diga di Nezahualcoyotl, è solitamente sommerso da 30 metri di acqua. Adesso, la siccità ha drasticamento ridotto di 24 metri il livello idrico, portando alla luce la chiesa dal passato misterioso, costruita da un gruppo di monaci sulla cosiddetta Strada dei Re, progettata dai conquistadores spagnoli e ancora in uso nel 20° secolo. Il Tempio di Santiago ha una struttura portante lunga 61 metri e larga 14 mentre le mura sono alte circa 10 metri. Al suo interno è stato rinvenuto l'ossario con i resti delle vittime della peste. Non è la prima volta che la chiesa emerge dalle acque: era già successo nel 2002. In quell'occasione i visitatori riuscirono persino a entrare e camminare tra le navate.




La chiesa è circondata dalla città sommersa di Quechula. I conquistatori spagnoli che la costruirono, pensavano che la zona potesse diventare un enorme centro abitato, ma il loro sogno non si è mai realizzato e addirittura la chiesa non ha mai nemmeno avuto un prete.

La chiesa fu abbandonata a causa delle grandi piaghe che colpirono questa zona del Messico tra il 1773 e il 1776, come ha spiegato l’architetto Carlos Navarrete, che ha collaborato con le autorità messicane per realizzare una relazione su questa struttura.
I pescatori hanno iniziato ad accompagnare i turisti lungo il fiume Grijalva per vederne da vicino le rovine.




LA CARPA KOI



La parola koi deriva dal giapponese, ove significa semplicemente "carpa" e nella cultura popolare sono simbolo di amore e amicizia. Esse, soprattutto in occidente, hanno diffuso per questo significato la loro figura in molti tatuaggi.

Questo pesce era originariamente presente in Europa Centrale e Asia. La sua abilità di sopravvivere in ambienti ostili e di adattarsi a molti cambiamenti climatici e a diverse temperature dell’acqua permisero alla specie di espandersi a nuovi luoghi, tra cui appunto il Giappone. Mutazioni di colore furono applicate dalle varie diverse popolazioni che vi si trovarono in contatto, prima tra tutte la Cina circa mille anni fa, dove incroci artificiali e mutazioni della Carpa Prussiana portarono allo sviluppo di quello che è oggi il comune pesce rosso.

In Cina la carpa comune veniva, almeno fino al V secolo, allevata come cibo, così come nell’Impero Romano durante il diffondersi del Cristianesimo. Fu dal 1820 che in Giappone si iniziò ad allevare questa specie a scopi decorativi, puntando quindi al colore, nella città di Ojiya, nella Prefettura di Niigata. All’inizio del ‘900 un numero di colori era già stato creato, tra cui il più comune era l’arancione-bianco della Kohaku. Il mondo esterno fu ignaro di questi “variopinti” sviluppi fino a quando le prima koi colorate furono mostrate all’annuale esposizione di Tokyo, nel 1914. A quel punto, l’enorme interesse per le carpe esplose in tutto il Giappone e l’uso di avere carpe colorate nei proprio giardini si estese nel mondo. Oggi le razze più comuni sono vendute in negozi di animali ma, per acquistare quelle di alta qualità, come ad esempio le carpe costosissime menzionate all’inizio, bisogna affidarsi a speciali allevatori giapponesi.

La carpa koi più specificamente nishikigoi (pron. Niscichigoi, Letteralmente "carpa broccata") o carpa giapponese, è la varietà ornamentale addomesticata della carpa comune (Cyprinus carpio).

Le differenti varietà di carpe koi si distinguono per colorazione, decorazione e qualità delle scaglie. I principali colori sono bianco, nero, rosso, giallo, blu e crema. Anche se le varie combinazioni dei colori sono infinite, sono state identificate dagli studiosi delle categorie sommarie di inquadramento dei diversi pesci. La categoria più popolare è la Gosanke, che unisce la varietà Kohaku, Taisho Sanshoku e Showa Sanshoku.

Attualmente si producono anche nuove varietà di pesci. La Ghost koi si è sviluppata a partire dagli anni '80 del Novecento ed è divenuta molto popolare, soprattutto nel Regno Unito. Parallelamente vi sono anche degli ibridi di carpa selvatica e le Ogon koi, che si distinguono per la colorazione metallica delle scaglie. La Butterfly koi (conosciuta anche col nome di Longfin koi, o Dragon Carp) è stata anch'essa sviluppata negli anni '80.




La Kohaku è una Koi dalla pelle bianca, con grandi macchie rosse sul dorso. Il nome significa appunto "rosso e bianco". Essa fu la prima varietà introdotta in giappone alla fine del XIX secolo.
Taisho Sanshoku è molto simile alla Kohaku ma avente la parte del dorso macchiata di nero sumi. Questa varietà venne creata nel 1914 dall'allevatore Gonzo Hiroi, durante il regno dell'Imperatore Taisho. In occidente, il nome viene spesso abbreviato in "Sanke".
Showa Sanshoku (o Showa Sanke) è una carpa nera con macchie rosse e bianche. La prima Showa Sanke venne creata nel 1927, durante il regno dell'Imperatore Showa. In occidente il nome viene solitamente abbreviato in "Showa".
Tancho è una carpa bianca con una sola macchia rossa sulla testa. Essa venne prodotta in giappone perché riprendeva la bandiera nazionale.
Chagoi, letteralmente Color the è una carpa dal colore bronzo chiaro con alcune ombreggiature arancio. Famosa per la propria tranquillità, ha una personalità amichevole e raggiunge una grande stazza.
Asagi è una carpa koi di colore azzurro nella parte superiore, mentre nella parte inferiore i colori possono essere rosso, giallo chiaro oppure crema. La parola giapponese significa letteralmente "verde acqua chiaro".
Utsurimono è una koi nera con macchie bianche, rosse o gialle. Essa è la specie più antica attestata in giappone anticamente chiamata "con macchie bianche e nere" nel XIX secolo, poi rinominata Ki Utsuri da Elizaburo Hoshino, allevatore di koi nel XX secolo. Le versioni rosse e bianche sono chiamate Hi Utsuri e Shiro Utsuri rispettivamente.
Bekko è una koi con la pelle bianca, rossa o gialla con macchie nere sumi. Il nome giapponese significa "guscio di tartaruga". Le varietà bianca, rossa e gialla sono chiamate Shiro Bekko Aka Bekko  e Ki Bekko rispettivamente. Da non confondere con l'Utsuri.
Goshiki è una koi a tonalità scure (solitamente azzurra) con macchie rosse sul dorso.
Shusui, nome giapponese che significa "verde autunnale", venne creata nel 1910 da Yoshigoro Akiyama, incrociando la carpa giapponese Asagi con la carpa a specchio tedesca. Il pesce non ha scaglie ad eccezione di una singola linea dorsale che si estende dalla testa alla coda. Il tipo più comune si presenta con una colorazione base chiara con i fianchi rossi o arancio (molto raramente gialli) e la linea di scaglie blu sul dorso.
Kinginrin  è una koi con scaglie metalliche. Il nome significa appunto "con scaglie oro e argento" ed è solitamente abbreviato in Ginrin.
Kawarimono è una delle specie più comuni di koi e si presenta solitamente di colore rosso o arancio con delle macchie bianche.
Ogon è una koi metallica di un solo colore piuttosto diffusa, le cui varietà solitamente sono oro, platino o arancio. Esistono anche specie color crema ma sono molto rare. La varietà venne creata da Sawata Aoki nel 1946 da una carpa selvatica che aveva catturato nel 1921 incrociata con una koi. Solitamente questa varietà viene incrociata con la Kinginrin per metallizzare le scaglie e rendere quindi il pesce ancora più particolare.
La varietà Kumonryu è nera con macchie bianche che ricordano delle code di drago arricciate. Sono note per cambiare colore a seconda delle stagioni nel tentativo di confondersi con l'ambiente circostante.
Ochiba è una koi solitamente azzurro/grigia con macchie color rame, bronzo o giallo. La parola giapponese significa "foglie cadute" in quanto il pesce ricorda delle foglie autunnali cadute nell'acqua.
Koromo è un pesce bianco con macchie blu o nere. Tale varietà crebbe a metà del Novecento per la prima volta dall'incrocio tra una Kohaku ed una Asagi. Alcune varietà hanno delle macchie simili a grappoli d'uva di colore scuro.
Hikari-moyomono è una koi con macchie di diverso colore su una base metallica, oppure avente due colori metallici in contemporanea.



Butterfly koi, ibrido di koi avente delle pinne molto sviluppate che danno al pesce un effetto fluttuante. Il colore varia a seconda delle specie incrociate.
Doitsu-goi originatasi dall'incrocio con carpe tedesche senza scaglie, i tipi più comuni di questa specie hanno una linea unica di scaglie dall'inizio della fronte all'inizio della coda, mentre altre specie presentano una fila di scaglie per ogni fianco per tutta la lunghezza del pesce. Una terza varietà unisce le prime due, mentre una quarta si presenta completamente coperta di scaglie grandi ed è chiamata anche "Armor koi" ovvero "koi armatura" in quanto riprende la forma di un'armatura.

Le koi hanno dei barbigli prominenti sul labbro inferiori che non sono visibili sul classico pesce rosso.
I pesci rossi sono diffusi in Cina da un allevamento selettivo della carpa prussiana con variazioni di colore. Dalla dinastia Song (960 – 1279) si sono create varietà gialle, arancio, bianche e rosso-bianche, a tal punto che oggi il pesce rosso (Carassius auratus) e la Carpa prussiana (Carassius gibelio) sono considerate specie differenti. I pesci rossi vennero introdotti in Giappone nel XVI secolo ed in Europa giunsero nel XVII secolo. Il pesce rosso si è quindi sviluppato parallelamente alla carpa koi sebbene abbia conservato sostanziali differenze con i pesci rossi.

In generale il pesce rosso tende a essere più piccolo di una koi ed ha una grande varietà di forme corporee e pinne differenti. Le koi hanno invece una forma del corpo precisa ma una grande varietà di colorazioni. Le koi hanno inoltre dei barbigli prominenti sul labbro inferiore. Molti pesci rossi come il pesce rosso comune o la varietà cometa o shubunkin hanno forme corporee e colorazioni simili ai koi a tal punto che sono poco distinguibili dalle koi più giovani.

La carpa comune è un pesce molto resistente e anche le koi conservano questo aspetto di specie. Le koi prediligono temperature tra i 15 e i 25 °C; il loro sistema immunitario si indebolisce molto al di sotto dei 10 °C.

I colori sgargianti delle koi costituiscono uno svantaggio nei confronti dei loro predatori naturali come aironi, gatti e volpi.

Le koi sono pesci onnivori e solitamente la loro dieta include piselli, lattuga e anguria. Dotate di una certa memoria, riescono a riconoscere le persone che le nutrono e il luogo ove solitamente ricevono il cibo a tal punto da poter essere allenate a prendere il cibo direttamente dalle mani. Il sistema digestivo delle koi diminuisce durante il periodo invernale e come tale anche la quantità di cibo ingerita in questa stagione diminuisce.

Le koi sono anche tra i pesci più longevi esistenti. Una famosa koi scarlatta chiamata "Hanako" visse 226 anni (c. 1751 – 7 luglio 1977). L'età delle koi si può derivare da un'analisi di laboratorio di una scaglia del pesce e per Hanako questo studio venne fatto nel 1966. Attualmente essa è il vertebrato più longevo al mondo.

Come la maggior parte dei pesci, le koi si riproducono attraverso la deposizione di una serie di uova da parte di una femmina e col successivo passaggio di un maschio per fertilizzarle.

In primavera le koi producono migliaia di uova per ogni singolo pesce che possono essere facilmente separate dal gruppo da parte degli allevatori di modo da scongiurare il fatto che altri pesci possano cibarsi di queste uova. La selezione viene fatta anche in base alle varietà che si vogliono produrre ed alle differenti richieste.

Il carattere molto socievole di questi animali che si muovono in branchi compatti è tale anche nei confronti dell’uomo: allevate in vasca le carpe koi si avvicinano all’uomo, mangiano dalle nostre mani e, meraviglia per i bambini, si lasciano carezzare come fossero un animale da compagnia.

La carpa è estremamente popolare nel tatuaggio tradizionale giapponese:  simbolo di forza d’animo, coraggio, perseveranza e riuscita nelle imprese della vita. E’ inoltre un simbolo della virilità e audacia e in particolare è l’emblema dei fanciulli. Nel giorno della festa a loro dedicata, in maggio, si appendono carpe (realizzate in carta o in tessuto) in cima a un palo o sui tetti delle case. Secondo una leggenda la carpa è il più coraggioso dei pesci, perché risale a nuoto le cascate e accetta con dignità la morte inevitabile. In Giappone si dice che, a differenza degli altri pesci che tentano di fuggire, quando si trova sul tagliere la carpa non trema e rimane immobile, così come affronta la morte un samurai e così dovrebbe fare ogni vero uomo.




martedì 20 ottobre 2015

LA PERCA NILOTICA



Lates niloticus è una specie diffusa in Africa, nella regione etiope e dell'Uganda in tutti i principali fiumi tra cui Nilo, Ciad, Senegal, Volta, Nilo Bianco e Congo. Si trova anche nei laghi Alberto, Turkana e Tana. È stato introdotto nel lago Vittoria.
Abita prevalentemente acque ferme o poco mosse: i giovani prediligono acque basse. In Egitto è segnalata una popolazione stabile in un lago salmastro.

L'aspetto di questo pesce può ricordare il persico reale ma è molto caratteristico per la bocca molto grande che supera ampiamente l'occhio, la vistosa "gobba" al centro della schiena e le pinne dorsali arretrate. Le pinne dorsali sono due, contigue, di cui la prima armata di raggi spiniformi, l'anale è piuttosto piccola, le pettorali e le ventrali sono abbastanza grandi, la pinna caudale è arrotondata. Una grossa spina sta sul bordo dell'opercolo branchiale.
La livrea è grigio - bluastra sul dorso e bianco argento sul ventre.
Raggiunge dimensioni ragguardevoli, con 2 metri di lunghezza per 200 kg di peso.



Si riproduce tutto l'anno, in acque basse. I giovani sono macchiettati e frequentano acque libere nella prima fase della vita.

Gli adulti si nutrono di pesce, i giovani inseriscono nella dieta anche insetti e crostacei mentre i più piccoli sono planctofagi.

Questa specie è stata introdotta negli anni sessanta nel lago Vittoria dove esisteva una folta comunità di specie endemiche di ciclidi, evolutesi nell'arco di milioni di anni in un ambiente privo di predatori di grandi dimensioni. L'impatto di questo grande pesce piscivoro fu disastroso e comportò l'estinzione di decine di specie e la rarefazione di tutte le altre. Anche il ritorno economico dell'introduzione fu minore del previsto perché, a causa della sovrapesca e dell'esaurirsi delle risorse trofiche, le dimensioni medie degli esemplari sono andate diminuendo vistosamente di anno in anno. Le drammatiche conseguenze sociali di questa introduzione sono descritte nel film L'incubo di Darwin. La specie è stata inserita nell'elenco delle 100 tra le specie invasive più dannose al mondo.

Questa specie è pescata professionalmente con reti e palamiti di vario tipo ed è anche catturata da pescatori sportivi con la tecnica della traina.
Le carni sono buone e prive di lische, di colore roseo e si trovano frequentemente sui mercati italiani ed europei come "filetti di persico", spacciati come filetti dell´europeo persico reale.


IL KRILL



Il krill è un insieme di diverse specie di creature marine invertebrate appartenenti all'ordine Euphausiacea.

Questi piccoli crostacei, che vivono in tutti gli oceani del mondo, con particolare concentrazione nelle acque fredde e polari, sono importanti organismi che compongono lo zooplancton, cibo primario di balene, mante, squali balena, pesce azzurro e uccelli acquatici.

La pesca commerciale del krill è praticata nelle acque meridionali delle coste giapponesi. La produzione globale ammonta a 150-200.000 tonnellate annue.

La maggior parte del krill viene usato come cibo per acquacultura e allevamento in acquario, come esche per la pesca e per l'industria farmaceutica. In Giappone (e nella Russia orientale) viene consumato come cibo umano ed è conosciuto in giapponese come okiami.

La femmina trasporta le sue uova sotto al cefalotorace in sacche membranose. Rilascia in acqua le uova, il quale numero varia da poche decine ad alcune centinaia a seconda della specie.

La larva che esce dalle uova non è segmentata, anche se abbastanza avanzato nello sviluppo (tant'è che viene chiamato pseudometanauplio), e passa attraverso una serie di mute durante la crescita; man mano che si sviluppa, si aggiungono nuovi segmenti fra le mandibole e la regione terminale del corpo, il telson. Dopo due stadi di nauplio, che seguono la schiusa dell'uovo, la larva giunge allo stadio di metanauplio; l'addome infatti continua a segmentarsi, passando in tre fasi di calyptopis e poi in stadi di furcilia, durante i quali si sviluppano gli occhi peduncolati ed i pleiopodi in individui che già somigliano all'adulto. Lo stadio adulto viene raggiunto dopo almeno sei stadi di furcilia, come nel krill antartico (Euphausia superba).

L'ordine Euphausiacea, stabilito da James Dwight Dana nel 1852, è diviso in due famiglie. La famiglia Bentheuphausiidae comprende solo una specie, Bentheuphausia amblyops, un crostaceo batipelagico che vive al di sotto dei 1.000 m di profondità. È considerata la specie vivente più antica dei krill.

L'altra famiglia, quella degli Euphausiidae comprende 10 generi per un totale di 85 specie (solo il genere Euphausia raggruppa 31 specie).

Le specie più conosciute, poiché soggette alla pesca commerciale, sono il krill antartico (Euphausia superba), il krill pacifico (Euphausia pacifica) e il krill del Nord (Meganyctiphanes norvegica).

Il krill è presente in maniera quasi ubiquitaria nelle acque di tutto il globo; la sua densità raggiunge i massimi livelli con temperature basse, pertanto l'habitat ideale di questi piccoli crostacei è rappresentato dai mari del nord. Ciò nonostante, il krill rappresenta prevalentemente una risorsa economica del Giappone, che lo preleva nelle acque meridionali dell'isola attraverso una pesca altamente specifica.

L'olio di krill è un prodotto oleoso (quindi lipidico) di recente introduzione sul mercato degli integratori alimentari; l'olio di krill, peraltro oggi fortemente pubblicizzato, rappresenta un'ottima fonte di acidi grassi polinsaturi essenziali della famiglia omega3 . L'olio di krill, dicono certi esperti, vanta una qualità alimentare e nutrizionale superiore rispetto ad altri comuni integratori alimentari; a giustificare un'affermazione simile potremmo citare che:
il krill rappresenta uno dei primi step della catena alimentare marina, pertanto, l'eventuale contaminazione di mercurio e/o diossina non viene aggravata dalla longevità della specie, che invece riguarda altre creature marine.
L'olio di krill, a dispetto degli altri integratori od oli alimentari derivanti dai vegetali (olio di lino, di soia, vinacciolo, ecc.), contiene soprattutto omega3 Acido Eicosapentaenoico (EPA - 20:5 n-3) ed omega3 Acido Docosaesaenoico (DHA - 20:6 n-3), due molecole che, al contrario del precursore vegetale acido Alfa-Linolenico (ALA - 18:3 n-3), risultano altamente disponibili e biologicamente attive.
Inoltre, l'olio di krill garantisce la presenza di un notevole quantitativo di antiossidanti; tra questi è possibile distinguere buone quantità di retinolo (vitamina A), tocoferoli (vitamina E) ed anstaxanthina (un particolare carotenoide, pertanto un precursore della vit A). Il potenziale antiossidante dell'olio di krill risulta notevolmente più elevato rispetto a quello degli oli vegetali ed anche di quelli estratti dal pesce (fegato di merluzzo e salmone). Questo incredibile potere antiossidante (stimato diverse decine di volte superiore a quello degli atri prodotti in commercio) potrebbe non possedere un'efficacia reale nel caso in cui l'alimentazione ne apporti già quantità sufficienti a coprirne il fabbisogno; tuttavia, anche in questo caso gli antiossidanti contribuiscono ad incrementare il potenziale di conservazione e stabilità del prodotto.


L'olio di Krill contiene anche ottime quantità di fosfatidilcolina, un fosfolipide legato alla colina e fortemente presente sulla superficie delle membrane cellulari; la fosfatidilcolina è il costituente principale della lecitina, una molecola IPOcolesterolemizzante (contenuta anche nel tuorlo d'uovo, nella soia, nei legumi in genere ecc.) che nell'industria alimentare rappresenta un comune additivo emulsionante (E322).

L'utilizzo terapeutico dell'olio di krill è riferito soprattutto alle proprietà benefiche degli acidi grassi essenziali omega3 EPA e DHA, ed al potenziale antiossidante delle vitamine in esso contenute (vit. A, vit. E ed anstaxanthina).
Iniziamo col precisare che, nonostante il rapporto tra omega3 ed omega6 dell'olio di krill sia di 15:1 contro il 3:1 di un olio di pesce comune, e che il relativo potenziale di assorbimento sia migliore del 10%, non si tratta di caratteristiche tali da poter giustificare la differenza a dir poco abissale nel prezzo degli integratori commercializzati. Il quantitativo di antiossidanti è superfluo, almeno per quanto riguarda i fabbisogni nutrizionali, e la loro addizione a fini conservativi (fino a 2 anni) potrebbe essere svolta senza problemi anche nell'olio di salmone o di fegato di merluzzo (tocoferoli, retinolo e carotenoidi non sono molecole eccessivamente costose); lo stesso vale per la fosfatidilcolina.
In definitiva, l'olio di krill rappresenta un integratore alimentare dalle qualità senza dubbio notevoli, ma ancora una volta eccessivamente enfatizzate. Come tutti i prodotti a base di omega3, l'olio di krill PUO' avere un impatto positivo e terapeutico nei soggetti che:
NON introducono quantità di EPA e DHA sufficienti con la dieta
Presentano condizioni cliniche caratterizzate da infiammazione cronica e sistemica (come la sindrome metabolica o le malattie infiammatorie croniche intestinali)
Sono soggetti a dislipidemie del colesterolo (colesterolo ematico totale >200 mg/dl , LDL > 130-189 mg/dl, HDL < 40-50mg/dl)
Sono soggetti a ipertrigliceridemia (trigliceridi ematici >200 o peggio > 500 mg/dl )
Ipertesi o a rischio di ipertensione (pressione arteriosa > 130-139 su 85-89 mmHg)
Diabetici o iperglicemici (glicemia >110-126 mg/dl)
Si consiglia di integrare con olio di krill solo se necessario, ad esempio in caso di alimentazione scorretta o in presenza di malattie dismetaboliche che possono incidere negativamente sullo stato di salute innalzando il rischio di compromissione cardiovascolare (aterosclerosi, trombosi, ictus ecc).

L'olio di Krill è indicato anche in presenza di sovrappeso e caratterizzato da grasso addominale. L’azione anti adipe è dovuta al fatto che, se assunto regolarmente, questo integratore mantiene sotto controllo gli zuccheri nel sangue, evitando quei picchi glicemici che portano il metabolismo a rallentare e il grasso ad accumularsi soprattutto sull'addome.

L'olio di Krill contiene uno degli antiossidanti naturali più potenti, l'astaxanthin, un carotenoide che dà al crostaceo il caratteristico colore rossastro che lo protegge dalla radiazione solare. Questa sostanza rafforza le difese, è anti infiammatorio e protegge la pelle dall'azione dei raggi solari.

Gli omega 3 estratti dal krill sono legati in un complesso fosfolipidico: una sola compressa al giorno permette di aumentare l'elasticità delle cellule e di ridurre il grasso addominale e il colesterolo.




lunedì 19 ottobre 2015

LE NAVI ROMPIGHIACCIO



Laser per rompere i ghiacci: e’ la nuova frontiera tecnologica a cui sta lavorando TsNII Kurs, una societa’ russa che progetta equipaggiamenti marittimi che spaziano dalle armi per la guerra elettronica a kit corazzati anfibi, dai radar agli strumenti di navigazione satellitare. ”Siamo stati i primi a dimostrare che questa e’ una soluzione sia tecnicamente fattibile sia economicamente sensata”, ha spiegato a Ria Novosti il responsabile della compagnia, Lev Kliachko. ”L’idea che sta dietro al progetto e’ di avere un potente laser che taglia il ghiaccio davanti alla nave, consentendo di romperlo facilmente”, ha aggiunto. La Russia ha la piu’ grande flotta al mondi di rompighiaccio ed e’ l’unico Paese ad usare i rompighiaccio a propulsione nucleare. Con i cambiamenti climatici che renderanno la regione artica piu’ accessibile, Mosca sta cercando di imporre il suo predominio per lo sfruttamento delle risorse naturali nascoste sotto i ghiacci e per sfruttare le nuove vie marittime dall”Europa all’Asia.

Fin dagli inizi dell'esplorazione polare furono usate navi adattate al ghiaccio. Originariamente si trattava di navi in legno come il koc, basate su modelli già in uso, rinforzate particolarmente lungo la linea di galleggiamento con un doppio strato di tavole e travature incrociate all'interno. Bande di ferro venivano applicate all'esterno, sulla prua, sulla poppa e lungo la chiglia sia per aiutare a spingere il ghiaccio sia per proteggere l'imbarcazione qualora fosse rimasta incastrata nel ghiaccio. Il ghiaccio spinto lateralmente tende infatti a richiudersi (a causa per esempio della forza del vento) premendo sui fianchi della nave intrappolata, sottoponendo lo scafo al rischio di grave danneggiamento.

All'inizio del XX secolo diverse nazioni svilupparono navi rompighiaccio specializzate. Prevalentemente si trattava di imbarcazioni per navigazione costiera, ma la Russia e successivamente l'Unione Sovietica costruirono diverse rompighiaccio con stazza di 10000 tonnellate adatte per la navigazione oceanica. Negli anni furono introdotte diverse innovazioni, ma fu solo con l'uso dell'energia nucleare per la propulsione (rompighiaccio Lenin, 1959) che le rompighiaccio poterono dimostrare tutta la loro potenzialità.



Una rompighiaccio o nave rompighiaccio è una nave appositamente studiata per navigare in mari, laghi o fiumi la cui superficie sia coperta di ghiaccio, come nel caso della banchisa.

Perché una nave sia in grado di fare questo, deve avere tre caratteristiche:

uno scafo in grado di resistere al ghiaccio;
una forma dello scafo in grado di aprire lo strato di ghiaccio;
una potenza di propulsione sufficiente per spingere la nave vincendo la resistenza del ghiaccio all'avanzamento.
In realtà un rompighiaccio non frantuma le lastre di ghiaccio direttamente con la prua, bensì più vantaggiosamente sfrutta la sua inerzia e la spinta propulsiva per sollevare la prua al di sopra del ghiaccio con il peso della nave che provoca la rottura del ghiaccio sottostante il quale aprendosi lascia tornare la prua in mare. I frammenti di ghiaccio vengono spinti lateralmente oppure fatti passare al di sotto dello scafo. In generale una nave rompighiaccio avanza più velocemente su una superficie interamente ghiacciata rispetto ad un mare coperto da frammenti di ghiaccio. La parte più esposta a danni in una nave di questo tipo rimane il sistema di propulsione.

I moderni rompighiaccio hanno eliche protette sia a prua che a poppa, ed anche propulsori laterali per manovrare meglio. Dell'acqua con funzione di zavorra è pompata tra contenitori posti ai due lati della nave per stabilizzare e ridurre il rollio. Da fori sotto la linea di galleggiamento viene espulsa aria per favorire il distacco del ghiaccio.

I rompighiaccio sono utilizzati prevalentemente per tenere aperte le rotte commerciali laddove queste siano interessate stagionalmente o permanentemente dalla formazione di ghiaccio. I rompighiaccio sono navi costose da costruire e operare, sia quando alimentate con turbine a gas o con un reattore nucleare. Inoltre sono decisamente poco confortevoli perché lo scafo arrotondato necessario per rompere il ghiaccio non ha elementi che ne stabilizzino il rollio; inoltre il continuo urtare contro il ghiaccio produce rumori e vibrazioni costanti. Spesso le rompighiaccio trasportano idrovolanti o elicotteri come ausilio per la ricognizione e il collegamento.

L'unica rompighiaccio tradizionale al mondo utilizzata per scopi turistici è la Sampo, attraccata nel porto di Kemi in Finlandia, che, con crociere giornaliere di circa quattro ore, opera durante il periodo di congelamento del Golfo di Botnia (dicembre-aprile). Altre rompighiaccio che hanno servizio passeggeri si trovano nel nord della Russia; queste, oltre ad essere mezzi a propulsione nucleare, offrono crociere di diverse settimane, per prezzi notevolmente elevati.



I rompighiaccio a propulsione nucleare sono un tipo di rompighiaccio con un'autonomia molto superiore rispetto a quelli convenzionali, poiché alimentati dall'energia nucleare. Sono stati costruiti solamente dalla Russia, a causa della necessità di navigare attraverso i mari ghiacciati della Siberia settentrionale (mar Glaciale Artico) , in modo da permettere il collegamento anche in inverno dei porti che si affacciano su queste acque.

Come si è già detto l'autonomia della propulsione nucleare è decisamente superiore a quella convenzionale anche se presenta costi di costruzione molto più alti, e maggiori problemi anche dal punto di vista della sicurezza. I motivi che hanno spinto l'Unione Sovietica ad immettere e tenere in servizio unità simili, sono principalmente due:

Il primo è di ordine pratico. In Russia, infatti, vi sono alcune città (anche di grandi dimensioni) situate in zone caratterizzate da climi estremi: si tratta di un'eredità della pianificazione centrale sovietica, che ha portato alla costruzione (o all'espansione) di centri abitati in zone con temperature invernali assolutamente proibitive. Questo è avvenuto per motivi sia economici sia militari. Questa situazione, per certi versi unica, ha portato alla necessità di costruire navi rompighiaccio in grado di tenere aperti i collegamenti con queste città in ogni stagione, e quindi in grado di affrontare strati di ghiaccio il cui spessore può variare tra gli 1,2 metri ed i 2 metri (al centro del Polo Nord supera i due metri e mezzo). Inoltre, vi è anche la necessità di tenere aperte le rotte commerciali passanti per l'Artico.

Il secondo motivo è probabilmente riconducibile al prestigio nazionale: il Lenin, quando fu varato, era la prima nave di superficie a propulsione nucleare al mondo, oltre ad essere anche la prima unità civile con questo tipo di propulsione. Si trattò innegabilmente di un grosso successo di immagine per la tecnologia sovietica dell'epoca.

I rompighiaccio oggi operativi appartengono a due classi distinte: Arktika e Taymir. I rompighiaccio atomici appartenenti alla Arktika sono utilizzati per mantenere aperti, in ogni stagione, i collegamenti con le principali città della Russia Artica. In particolare, grazie a queste navi, è possibile navigare dai grandi porti della Russia europea (ad esempio, Murmansk e Arcangelo) fino allo stretto di Bering, passando per altri importanti porti della Siberia Settentrionale (ad esempio, Dikson e Pevek).

I rompighiaccio atomici della classe Taymir, invece, sono stati costruiti per operare in acque basse, e sono solitamente usati sul fiume Enisej nella tratta che va da Dikson ad Igarka. Queste navi svolgono un ruolo molto importante, perché permettono, in tutte le stagioni, il passaggio delle navi cargo cariche di merci varie per l'approvvigionamento delle città sul fiume. Inoltre, consentono il passaggio anche delle imbarcazioni contenenti i metalli provenienti da Norilsk (che vengono imbarcati a Dudinka, a cui Norilsk, che non ha un porto, è collegata tramite ferrovia). Queste navi sono attrezzate anche per compiti antincendio.

I rompighiaccio atomici russi sono stati inoltre utilizzati anche per parecchie spedizioni scientifiche nell'Artico. Il 17 agosto 1977 il rompighiaccio NS Arktika fu la prima unità di superficie al mondo a raggiungere il Polo Nord. Dal 1989 alcuni rompighiaccio sono utilizzate anche per il turismo artico.

Complessivamente, in Russia sono state costruite dieci navi a propulsione nucleare con compiti non militari. Nove di queste sono rompighiaccio, la decima è una nave cargo con scafo rompighiaccio: la Sevmorput.

La principale base della flotta atomica civile è Atomflot, situata a pochi chilometri dalla città di Murmansk. Qui sono presenti le strutture per la manutenzione e le riparazioni delle navi. Inoltre, molto importanti per l'operatività della flotta sono anche le unità di supporto.
Dal 1989 i rompighiaccio atomici sono utilizzati per crociere turistiche al Polo Nord. La crociera dura tre settimane e costa circa 25.000 $. I più attrezzati a scopo turistico sono gli ultimi due esemplari varati, la NS Yamal e la NS 50 Let Pobedy.





IL MARE DI ROSS



Il mare di Ross è una profonda baia situata in Antartide tra Terra della regina Victoria e Terra Marie Byrd. Oltre la metà del mare di Ross è costantemente coperta da una spessa coltre di ghiaccio detta barriera di Ross  che ha una superficie di circa 500.000 km2.
La barriera di Ross, o grande barriera di ghiaccio, è una zona che non poggia però sul continente, centrata intorno al punto di coordinate geografiche 81° 30' S, 175° W. La barriera prende il nome dal cap. James Clark Ross, che la scoprì il 28 gennaio 1841.

Il ghiaccio è spesso diverse centinaia di metri, anche se la parte sopra il livello dell'acqua è alta da 15 a 50 metri; l'intera barriera copre una superficie di circa 487.000 km2, ed ha un fronte sul mare aperto di circa 600 chilometri. Dal punto di vista amministrativo, è compresa nel territorio della dipendenza di Ross, rivendicata dalla Nuova Zelanda.

Il mare di Ross è così chiamato in onore di James Clark Ross, che lo scoprì nel 1841. A ovest del mare di Ross si trova l'isola di Ross sulla quale si trova il Mount Erebus, un vulcano attivo. A est si trova l'isola Roosevelt, e sempre dallo stesso versante est, in un'insenatura si trova la baia di McMurdo che forma un porto naturale libero dai ghiacci nell'estate antartica.



Ai confini della barriera vive un terzo dell'intera popolazione di pinguini di Adelia. Forti tempeste scostano il ghiaccio e si formano vaste superfici di acque libere dette polynyas, queste costituiscono la fonte di sostentamento dei pinguini in quanto il sole provoca la fioritura di microscopiche alghe che costituiscono a loro volta l'alimento principale del krill di cui poi si nutrono i pinguini. Il mare di Ross è il primo e finora unico luogo nel quale sono stati isolati esemplari di Cryothenia amphitreta.

Con oltre 40 specie endemiche, fornisce nutrimento all'intera catena alimentare: balenottere minori e orche, foche di Weddell, petrelli antartici, pinguini di Adelia, pinguini imperatore e krill. Fino a oggi l'impatto umano sulla regione è stato minimo, ma le cose potrebbero cambiare.

La pesca eccessiva globale e la domanda crescente di pesce hanno portato i pescatori a spingersi in aree sempre più lontane, e il Mare di Ross è come un ricco buffet.





giovedì 15 ottobre 2015

L' ACQUARIO



Allevare pesci voleva dire avere una nuova e costante fonte di cibo a disposizione, ma significava anche saper costruire e mantenere vasche adatte alla vita di questi animali.
per questo motivo i primi allevamenti di pesci sono attestati in zone costiere o nei pressi di fiumi e laghi, dove fosse facile collegare le vasche ad una perenne fonte d'acqua.
Nell'antico Egitto e nell'antica Roma l'allevamento dei pesci era già pratica comune. In Egitto era famoso l'allevamento della perca nilotica. Nell'impero romano, poi, l'allevamento dei pesci era considerato indispensabile per rifornire la tavola di prelibatezze, tanto che non c'era villa che non fosse fornita di vasche con dighe e chiuse che permettevano un ottimale ricambio d'acqua al fine di avere sempre a disposizione i pesci migliori. Le murene, in particolare, erano considerate una leccornia e venivano allevate con amore dai ricchi patrizi.
Durante il medioevo, l'allevamento dei pesci continuò in Europa e nel vicino oriente sempre per scopi alimentari.
In Cina, invece, tra il X e il XII secolo, durante la dinastia Sung, per la prima volta si iniziò ad allevare pesci per scopi ornamentali. Apparvero vasche e laghetti nei giardini e i primi acquari casalinghi nei quali iniziavano a nuotare gli antenati dei nostri pesci rossi. Selezionati e allevati per la loro bellezza, i pesci rossi cinesi derivano da alcune specie di carpe, animali resistenti e abituati a vivere in acqua stagnante, che dunque ben si adattavano alla cattività.
E' solo nel corso del XIX secolo che sorgono in Europa i primi acquari pubblici. Il più antico è quello di Londra, del 1837, mentre l'acquario di Milano, inaugurato nel 1906 per festeggiare l'apertura del traforo del Sempione, è il terzo ad essere stato aperto.
In quel periodo, però, gli acquari, sopratutto quelli che ospitavano pesci tropicali, non erano affatto dei congegni sicuri: per illuminare e scaldare l'acqua si usavano delle lampade a gas o a petrolio. E' solo dagli anni quaranta che la tecnologia dell'acquario si è affinata, permettendo di costruire vasche sempre più grandi e spettacolari, dove i pesci possano vivere in un ambiente quanto più simile possibile a quello naturale.



In Italia l’evoluzione dell’acquario avviene solo in un secondo tempo rispetto a ciò che invece accade nel resto d’Europa, in particolar modo Germania e Olanda. Negli anni Cinquanta e Sessanta il panorama dell’acquariofilia in Italia è abbastanza desolante, con pochissimi negozi e aziende specializzate e un mercato decisamente poco sviluppato.
Negli anni Settanta il numero degli appassionati comincia a crescere anche se le tecniche disponibili sono ancora abbastanza primitive: gli acquari sono molto rustici, incollati a mastice, con sistemi di filtraggio molto rudimentali, per lo più ad aria e pochissimi pesci importati, quasi tutti di acqua salmastra.

È a partire dalla fine anni Settanta - inizi anni Ottanta che scoppia il vero boom dell’acquariologia: sempre più aziende credono nel settore e cominciano ad investire nella ricerca e nella tecnologia, nuovi prodotti vengono creati per facilitare la vita di coloro che scelgono di ospitare in casa i primi acquari prodotti in serie a livello industriale.
Le importazioni di pesci crescono notevolmente, si affacciano sul mercato nuovi esportatori soprattutto dall’Asia che arricchiscono il numero di specie commercializzate.

Quando si tratta di acquistare i pesci molte volte gli acquariofili ricercano solo il negoziante che fa il prezzo più basso anche se questo il più delle volte è sinonimo di poca cura nel mantenimento degli animali, poco tempo di quarantena e quindi di poche garanzie sul loro stato di salute.

Dagli anni Ottanta ad oggi il mercato si è sviluppato in maniera esponenziale, l’acquario si è trasformato da oggetto di culto riservato a pochi facoltosi, nell’acquario facile, con costi alla portata di tutti ed accessibile anche alle persone meno abbienti. Di anno in anno le mode si sono alternate, si è passati dagli acquari salmastri e dai biotopi degli anni Settanta, all’acquario olandese degli anni Ottanta, fino all’acquario naturale degli anni Novanta (con le concezioni zen di professionisti asiatici) per arrivare ai giorni nostri dove spopolano le tecniche di aquascaping con la creazione di panorami subacquei mozzafiato.
Se da una parte la tecnica ha continuato ad evolversi, con l’invenzione costante di nuovi sistemi di filtraggio, di illuminazione e sistemi di manutenzione degli acquari di nuova concezione, dall’altra lo sviluppo di una cultura dell’acquario fra le persone comuni non è cresciuto di pari passo.

Purtroppo ad oggi i veri appassionati dell’acquario e dei pesci sono ancora relativamente pochi e per appassionati intendiamo non chi acquista l’acquario d’impulso, magari al supermercato, ma piuttosto colui che cerca di ricreare in cinque vetri un piccolo mondo acquatico, che non sceglie i pesci in base al colore ma che si interessa, si informa e cerca di ospitare in pochi litri d’acqua animali che possano convivere tranquillamente, originari delle stesse zone tropicali quindi con necessità ed esigenze similari di allevamento.

Purtroppo molte persone sono disposte a spendere centinaia di euro per la vasca e per gli accessori da utilizzare come lampade ultra-tecnologiche, sistemi di filtraggio all’ultimo grido, ma lesinano quando si tratta di spendere qualche euro in più per l’acquisto degli animali.
Se un pesce costa al di sopra di una certa cifra è da scartare a priori, l’elemento di discriminazione nell’acquisto di pesce è il più delle volte solo il prezzo e non il suo stato di salute che spesso viene messo in secondo piano.



L'acquario di acqua dolce è di gran lunga il tipo più diffuso e anche i piccoli negozi di animali spesso vendono alcune specie d'acqua dolce come pesci rossi, Guppy o Scalari. Anche se la maggior parte degli acquari d'acqua dolce sono allestiti come acquari di comunità dove vengono allevati pesci di varie specie che possono convivere pacificamente, molti acquariofili scelgono di allevare una sola specie, spesso con il proposito di ottenerne la riproduzione. Tra i pesci più semplici da riprodurre in cattività ci sono i Guppy ed altri Poecelidi che non depongono uova ma partoriscono direttamente gli avannotti, ma gli acquariofili riescono a far riprodurre numerose altre specie, tra cui varie specie di Ciclidi, Siluriformi, Caracidi e Killifish.
L'acquario marino è generalmente più difficile da gestire e mantenere e i pesci e gli invertebrati da introdurre sono significativamente più costosi rispetto a quelli d'acqua dolce; di conseguenza questo tipo d'acquario tende ad attrarre soprattutto gli acquariofili più esperti. Tuttavia gli acquari marini possono risultare straordinariamente belli da vedere, grazie alle vivaci forme e colori dei coralli e dei pesci originari delle barriere coralline che solitamente vi si allevano. Acquari marini di zone temperate come gli acquari mediterranei non sono molto diffusi nell'acquariofilia casalinga principalmente perché non si sviluppano bene alla temperatura ambiente delle abitazioni. Un acquario che contenga specie marine di acque fredde necessita quindi o di essere collocato in stanze molto fresche come cantine non riscaldate o raffreddati artificialmente con un refrigeratore.
L'acquario di acqua salmastra combina insieme elementi dei due acquari precedentemente descritti, in quanto contiene acqua con un grado di salinità medio tra quello dell'acqua marina e quello di acqua dolce. I pesci che vengono allevati negli acquari di acqua salmastra provengono da habitat diversi che hanno un grado di salinità variabile, come le foreste di mangrovie e gli estuari dei fiumi e quindi non possono essere allevati costantemente in acqua dolce. Anche se gli acquari di acqua salmastra non sono molto conosciuti, in realtà un numero sorprendente di pesci abitualmente posti in commercio come pesci d'acqua dolce o marina in realtà preferirebbero un ambiente di questo tipo, tra i quali alcuni Pecilidi, diversi Gobidi, pesci palla e Scatofagidi e praticamente tutte le specie di Soleidi d'acqua dolce.
Le persone che allevano pesci sono noti con il nome di acquariofili perché il loro interesse non è rivolto soltanto ai pesci. Molti di loro allestiscono vasche in cui l'attenzione è concentrata sulle piante acquatiche piuttosto che sui pesci. Un acquario di questo tipo è conosciuto come acquario olandese, riferendosi al fatto che gli acquariofili nordeuropei furono tra i primi a progettare tali vasche. Uno dei più popolari acquariofili a dedicarsi a vasche incentrate sulle piante è il giapponese Takashi Amano. Gli acquariofili marini spesso cercano di riprodurre l'ambiente della barriera corallina servendosi di grosse quantità di rocce vive, ovvero pietre calcaree e porose ricoperte ed incrostate da alghe, spugne, vermi ed altri piccoli organismi marini. Più tardi, quando l'acquario è maturato, aggiungono altri invertebrati di dimensioni maggiori, gamberi, granchi, ricci e molluschi, oltre ad una certa varietà di piccoli pesci. Questo è il cosiddetto acquario di barriera.

I laghetti da giardino sono sotto certi aspetti simili agli acquari d'acqua dolce, ma di solito sono molto più grandi ed esposti alle stesse condizioni climatiche dell'ambiente in cui si trovano. Ai tropici è possibile allevare nei laghetti anche pesci tipici di quelle zone, ma nelle aree temperate in genere si allevano specie come il pesce rosso, la Carpa koi e altri Ciprinidi.



lunedì 12 ottobre 2015

IL FARO



Il nome deriva dall'isola di Pharos, di fronte ad Alessandria d'Egitto, dove nel III secolo a.C. era stata costruita una torre sulla quale ardeva costantemente un gran fuoco, in modo che i naviganti su quei fondali potessero districarsi dalla retrostante palude Mareotide.

La storia dei fari è antica e s'intreccia strettamente con la storia della navigazione. Nell'antichità, questa era inizialmente prevalentemente costiera e diurna, ma l'evolversi della navigazione commerciale portava spesso l'uomo a navigare anche di notte. Nacquero così i primi fari, costituiti da falò di legna accatastata in punti prominenti della costa per riferimento nella rotta dei naviganti, indicando zone di pericolo o di approdo. Lungo le rotte più importanti nacquero successivamente i primi veri porti e con loro i primi veri fari, probabilmente strutture rudimentali in legno o ferro su cui veniva innalzato mediante un sistema di carrucole un braciere metallico contenente il combustibile.

È solo attorno all'anno 300 a.C. che sorsero le due grandi strutture che rimarranno per secoli esempi unici di fari monumentali. Il Colosso di Rodi, considerato una delle sette meraviglie del mondo, era una statua enorme, alta circa 32 metri secondo Plinio il Vecchio, che rappresentava Elios, il dio del sole, con un braciere acceso in una mano, collocata sopra l'entrata del porto. Fatta costruire da Cario di Lindo attorno al 290 a.C., la statua ebbe vita breve, distrutta successivamente da vari terremoti.

L'esempio più illustre dei fari dell'antichità, un'altra delle sette meraviglie del mondo, fu il Faro di Alessandria, la città fondata in Egitto da Alessandro Magno. Opera di Sostrato di Cnido, fu costruito sotto la dinastia dei Tolomei attorno al 280 a.C. sull'isolotto di fronte alla città, dal cui nome Pharos  (Faro) deriva la parola faro nelle lingue di origine greca e latina. Con una torre di altezza stimata tra 115 e 135 metri, rimase per molti secoli tra le strutture più alte realizzate dall'uomo. Un fuoco acceso in sommità (di legna resinosa e oli minerali) emetteva un segnale luminoso che, grazie ad un sistema di specchi che si diceva ideato da Archimede, aveva una portata di oltre 30 miglia. Il faro fu successivamente danneggiato gravemente nel 641 nella conquista araba della città, terminando la sua funzione di lanterna. La torre crollò nei secoli successivi distrutta da diversi eventi tellurici.

Dopo questi esempi illustri, la storia dei fari riprese secoli dopo solo con i Romani che edificano numerose torri adibite a fari lungo le coste dei loro domini, dal Mediterraneo fino al Canale della Manica. Prima della caduta dell'Impero Romano almeno 30 torri di segnalazione illuminavano il mare. Di questi esempi sopravvive tuttora alla furia degli eventi il faro di La Coruña, l'antica Brigantium, in Galizia.



Con la caduta dell'Impero romano d'Occidente, la storia della navigazione e dei fari ebbe una fase di stasi; sotto il pericolo delle invasioni barbariche, la navigazione ritornò ad essere costiera e diurna e l'uso dei fari fu scoraggiato, potendo essere di aiuto alle rotte degli invasori piuttosto che dei naviganti in difficoltà. Molte delle torri costiere romane andarono in rovina e si ritornò ai falò di legna per segnalare i punti pericolosi per la navigazione o ai bracieri all'ingresso dei porti.

Nel Medioevo furono soprattutto le torri dei monasteri eremitici sulle coste atlantiche di Inghilterra e Francia a svolgere la funzione di fari, con fuochi alimentati da fascine di legna accesi sulla sommità. Un esempio è il faro di Hook Head, sulle coste orientali dell'Irlanda, fatto erigere nel 1172 da un nobile normanno sia come fortezza che come torre di segnalazione, affidando ai monaci il compito di tenere accesa la luce in sommità. Esempi di fari possono però essere rintracciati lontano dall'Europa. Fonti riportano di minareti e pagode medievali adibiti a fari lungo le coste del golfo Persico ed in Cina.

Con la ripresa dei commerci e l'affermazione delle repubbliche marinare, a partire dal XII secolo, si ritornò a costruire sulle coste dell'Italia torri di segnalazione dotati in sommità di fuochi. Esempi furono la torre di Genova (ricostruita poi nel 1543 e ancora operativo), il fanale (1303) di Porto Pisano nell'odierna Livorno, la torre della secche della Meloria (primo faro costruito in mare aperto nel 1147, distrutto poi nel 1284, ricostruito nel 1712 e tuttora esistente), la torre di Capo Peloro, di riferimento per la navigazione dei Crociati verso la Terrasanta. Al mantenimento dei fari nei porti contribuivano le navi in entrata mediante una tassa. La navigazione subiva intanto una evoluzione, con l'introduzione delle prime rudimentali bussole e la redazione dei primi portolani riportanti la posizione dei fari.

Nel Rinascimento e nell'età barocca, soprattutto in Francia ed Inghilterra, il faro venne rivisto nella sua valenza architettonica : oltre a svolgere la sua funzione doveva anche essere un monumento degno di ammirazione per affermare la potenza ed il prestigio dei suoi committenti. Nella realtà, spesso nella costruzione di tali monumenti si privilegiarono più i lati estetici che quelli funzionali, dimostrandosi le realizzazioni poco adatte a sopportare le condizioni climatiche estreme dell'Oceano Atlantico e finendo per essere distrutti e ricostruiti diverse volte. L'esempio più famoso è il faro di Cordouan in Francia, in pieno mare al largo della Gironda, costruito all'inizio del Seicento. Voluto dal re di Francia è ornato come un vero palazzo (comprende uno scalone monumentale e una cappella con sculture, lastre di marmo e vetrate) ma costituisce anche una prodezza tecnica: costruito su un banco di sabbia che sparisce sott'acqua ad alta marea si innalza a ben sessantanove metri sopra al livello del mare (in origine era alto trentasette metri fu poi sopraelevato durante il Settecento). Quattrocento anni dopo la sua costruzione questo faro è ancora in servizio. Ma un faro come Cordouan costituisce un'eccezione e fino all'inizio dell'Ottocento le coste europee sono quasi interamente sprovviste di fari.

Con l'affermarsi del dominio navale dell'Inghilterra, il XIX secolo fu il secolo della farologia, dove si assistette alla nascita di meraviglie dell'ingegneria soprattutto lungo le coste di Inghilterra, Scozia e Irlanda, spesso su scogli appena affioranti. Esempi degni di nota furono il faro di Skerryvore in Scozia (altezza 48 metri, portata 26 miglia), il Faro di Longships in Cornovaglia (altezza 35 metri, portata 18 miglia), il faro di Bishop Rock, sempre in Cornovaglia (altezza 44 metri, portata 24 miglia), e quello di Fastnet in Irlanda (altezza 54 metri, portata 27 miglia). Celebri costruttori di fari furono vari membri della famiglia di Robert Stevenson, nonno del celebre scrittore Robert Louis Stevenson.

Nello stesso periodo la Francia per prima realizzò un sistema completo di fari lungo le sue coste ed equipaggiati di lenti di Fresnel, in modo tale che una nave in navigazione potesse essere sempre in vista di almeno un faro. Una caratteristica è l'altezza importante (spesso aldilà dei quaranta metri) dei maggiori fari francesi. Altra particolarità dei fari francesi dell'Ottocento (almeno per i più importanti) è il loro stile architettonico spesso elaborato, con torri rifinite internamente in modo sontuoso, lontano dallo stile più semplice dei fari inglesi. Nella penisola del Finistère, in Bretagna si contano tuttora 120 fari e sono centinaia lungo tutte le coste francesi. Uno dei più eleganti fari francesi dell'Ottocento è quello di Kéréon, in Bretagna (altezza 41 metri, portata 19 miglia), con interni riccamente decorati con legno prezioso malgrado sia isolato in pieno mare a vari kilometri dalla costa bretone. I fari più famosi sono il Faro dell'Île Vierge, sempre nel Finistère, che con un'altezza di 82,5 metri (portata 27 miglia) è il più alto d'Europa, il faro di Cordouan costruito nel Rinascimento e ampliato nel Settecento dove venne utilizzata per la prima volta la lente di Fresnel (altezza 65 metri, portata 22 miglia) e il faro di Ar-Men al largo dell'Île de Sein, soprannominato "L'Inferno degli Inferni", che è probabilmente il più famoso dei fari francesi (altezza 33,50 metri, portata 23 miglia) per la sua posizione pericolosa: è costruito su una roccia totalmente immersa sott'acqua a più di venti kilometri dalla punta occidentale della Bretagna. Altri esempi importanti sono il faro dei Roches Douvres, che a 40 kilometri dalla costa settentrionale della Bretagna è il faro europeo di alto mare più lontano dalla terraferma (altezza 60 metri, portata 24 miglia), il phare des Baleines, sull'Isola di Ré nel Golfo di Biscaglia (altezza 57 metri, portata luminosa di 21 miglia) e quello di Créac'h, situato sull'Isola d'Ouessant, all'estremità Nord Occidentale della Bretagna (altezza 55 metri) che con una portata di 34 miglia è invece il più potente dei fari europei.

Anche l'Italia è ricca di fari, molti di origine antica (il Regno delle Due Sicilie fu il primo Stato italiano ad organizzare una moderna rete di fari). Dopo il 1860, con l'Unità d'Italia, il nuovo Stato dovette affrontare in modo sistematico l'illuminazione dei suoi 8000 chilometri di coste e nacquero così molti nuovi fari: i fari e i segnalamenti marittimi italiani che nel 1861 non superavano i 50, nel 1916 erano già 512. Un esempio è il faro di Capo Sandalo, sull'isola di San Pietro, in Sardegna, costruito nel 1864 su un alto scoglio a picco sul mare con una torre di 30 metri (138 metri l'altezza sul livello del mare) e portata 28 miglia. Dopo la seconda guerra mondiale un programma di ristrutturazione e ammodernamento del sistema di segnalamenti ne portò il numero ai circa 1000 attuali, di cui 167 fari e 506 fanali.

Il primo faro in America fu il faro di Boston nel New England del 1716. Il più antico faro ancora operativo è il faro di Sandy Hook nel New Jersey, del 1764. Alla fine del XIX secolo tuttavia gli Stati Uniti si erano dotati del sistema di fari più imponente al mondo.

Con la diffusione della navigazione a vapori sulle rotte di tutto il mondo, si diffusero anche i fari ovunque ci fosse una colonia europea e arrivassero le navi occidentali, dall'India al Giappone fino alla Cina.


L'illuminazione dei fari ha costituito il principale problema tecnico nei fari, e l'evoluzione in tale campo è stata lenta. Il fuoco di legna rappresentò la prima sorgente luminosa, essendo la legna facile da reperire; tale tipo di combustibile necessitava però di continua alimentazione essendo la legna anche veloce a bruciare. Successivamente fu usato il carbone, ma con i limiti connessi alla difficoltà di reperimento e alla luce poco intensa prodotta. Altri problemi erano legati al vento, che spegneva la fiamma, e alla fuliggine, che ne limitava la visibilità. Solo con l'installazione del vetro sulle lanterne, attorno al 1200, i fari furono dotati di protezione verso gli agenti atmosferici, permettendo l'uso anche di nuovi combustibili come candele di cera e di spermaceti, combustibile che non fa fumo estratto dalle balene, oppure olio di oliva o di balena, a seconda delle latitudini. Il vetro però era ancora opaco ed era difficile tenerlo pulito, mentre solo nel 1700 diventerà il materiale trasparente che oggigiorno conosciamo.

La sfida tecnologica era aumentare la luminosità dei fari. A tal fine un passo importante fu costituito dal bruciatore circolare inventato nel 1782 dal fisico svizzero Aimé Argand, con 10 stoppini alimentati ad olio con un'autonomia di 10 giorni e con un sistema di evacuazione dei fumi per rendere la luce più visibile. Tale sistema luminoso fu subito introdotto anche in America. Altre ricerche furono indirizzate a potenziare la luce, come quello proposto alla fine del Settecento dallo svedese Jonas Norberg con un sistema di specchi parabolici rotanti ad azionamento manuale. Altro importante passo fu una modifica alla lampada di Argand proposta dal francese Bertrand Carcel (1750-1812), che rimase in uso fino alla introduzione delle lenti di Fresnel.

Nel 1822 Augustin Jean Fresnel progettò una lente a rifrazione innovativa, capace di aumentare notevolmente la luminosità dei fasci luminosi proiettati. La pesantezza di tali lenti ne rendeva però problematica la rotazione. Fresnel ovviò a tale problema progettando un meccanismo basato su galleggianti in un bagno di mercurio. La pericolosità di tale sistema portò poi a sostituirlo con meccanismi con ingranaggi e cuscinetti a sfere. La lenti di Fresnel, modificate e alleggerite, attrezzano ancora oggi la quasi totalità dei fari del mondo.

Restava solo il problema del combustibile, continuando i fari ad essere alimentati soprattutto ad olio, costoso e che necessita di un continuo controllo. Nella prima metà dell'Ottocento era stato introdotto nei fari il gas ricavato dal carbone, sistema inventato dallo scozzese William Murdoch e utilizzato già nella illuminazione cittadina. Ma fu soprattutto l'uso di oli estratti dal petrolio che, abbinati alla lampada Argan, migliorò sensibilmente la luce dei fari.

Nel 1885 fu inventata dall'austriaco Carl Auer Welsbach la prima lampadina ad incandescenza alimentata da una miscela di gas ed aria, che emetteva una luce molto intensa.

Ma fu nel 1892 con la scoperta dell'acetilene avente un luminosità superiore ad ogni altro combustibile con costi nettamente inferiori, che l'illuminazione dei fari compì progressi significativi, permettendo di illuminare anche quelli isolati.

Ma la tecnologia continuava ad evolversi. Tra la fine dell'Ottocento ed i primi anni del Novecento cominciò l'elettrificazione dei fari, operazione completata gradualmente solo molti anni dopo. I fari in alto mare furono elettrificati solo successivamente, con l'uso di generatori elettrici o per mezzo di energia eolica o solare. Parallelamente le lampadine usate passarono da quelle a bulbo allo xeno, luminose ma potenzialmente esplosive, alle attuali a bulbo alogeno di 1000 Watt.

La più recente evoluzione della tecnologia ha portato in alcuni fari di recente installazione alla sostituzione dell'ottica rotante con una luce fissa ad impulsi e all'introduzione dei pannelli luminosi a LED.

Una figura importante nel faro è sempre stata quella dell'uomo, il "guardiano del faro". I primi, nell'antichità, furono probabilmente schiavi col compito di raccogliere e accatastare la legna ed alimentare per tutta la notte i falò. Nel Medioevo questa funzione venne svolta in modo volontario dai monaci dei monasteri, che dovevano considerare loro dovere prestare aiuto ed assistenza alle navi di passaggio. Tale compito diventò un vero e proprio mestiere nell'Ottocento, con l'aumento del numero di fari.

La funzione dei guardiani era di rifornire il combustibile della lampada, accendere e spegnere la lampada, tenere puliti i vetri delle lenti e delle finestre, mantenere in efficienza il meccanismo di rotazione delle lenti. Nel 1907 fu inventata la valvola solare che, introdotta nei fari, ne permetteva l'accensione e lo spegnimento automatico con la luce del sole (per tale invenzione Nils Gustaf Dalén fu insignito del premio Nobel). Ma la valvola solare, l'elettrificazione e l'automazione dei fari resero sempre più obsoleta la figura del guardiano. Tuttavia la funzione del guardiano rimase ancora per diversi anni, in parte anche per compiti di personale di salvataggio in caso di necessità. Ma con l'evolversi anche dei sistemi di assistenza e soccorso alla navigazione, anche tale funzione è venuta meno. In America l'ultimo guardiano del faro ha cessato il servizio nel 1990.

Attualmente i fari sono dotati di sistemi di automazione totale, per i quali un faro o un gruppo di fari possono essere comandati a distanza via computer, restringendo la manutenzione ad una visita periodica.



In Italia, dal 1961 è San Venerio il santo protettore dei faristi, ovvero coloro i quali si occupano del funzionamento dei fari marittimi.

La caratteristica più importante di un faro è la luce da esso irradiata, la cui qualità ed intensità è aumentata di pari passo con i progressi tecnologici. L’elettricità ha reso possibile inoltre la costruzione di fari completamente automatici, le cui lampade vengono accese da cellule fotoelettriche che chiudono il circuito di alimentazione non appena la luminosità scende al di sotto di valori prefissati. Per poter garantire, anche in caso di interruzione dell’alimentazione di corrente elettrica, il funzionamento continuo del faro sono generalmente previste lampade di emergenza ad acetilene.

Per evitare che la luce prodotta dalla sorgente luminosa sia fortemente dispersa i fari necessitano di efficienti sistemi ottici, atti a concentrarla in stretti fasci: i sistemi ottici impiegati possono essere catottrici (riflettenti), diottrici (rifrangenti) o catadiottrici (riflettenti e rifrangenti). Gli specchi riflettenti parabolici, la cui invenzione è attribuita ad Archimede (287-212 a.C.), furono adottati anche per il faro di Alessandria d’Egitto; riproposti in tempi più recenti dall’ufficiale di marina e scienziato francese Jean-Charles de Borda (1733-1799), attualmente sono stati abbandonati perché richiedono l’installazione di una sorgente luminosa per ogni specchio e causano un forte assorbimento. La totalità dei fari esistenti adotta un sistema messo a punto nel 1822 dall’ingegnere francese Augustin-Jean Fresnel (1788-1827), costituito da una lente di Fresnel, racchiusa fra anelli di prismi catadiottrici ed eventualmente corredata di specchi sferici diottrici, posti posteriormente alla sorgente luminosa concentrata nel fuoco della lente. Un sistema di pannelli verticali, ciascuno portante un apparato ottico del tipo descritto, è posto attorno alla sorgente luminosa e ne concentra la luce in altrettanti raggi, all’incirca orizzontali.
Attributi importanti di un faro sono la sua portata e la sua caratteristica luminosa: la prima è distinguibile in portata geografica, che coincide con la massima distanza (per i grandi fari varia da 25 a 40 miglia), dalla quale a causa della curvatura terrestre un osservatore a livello del mare ne può ancora vedere la luce ed è funzione dell’altezza sul mare della sorgente luminosa, e in portata ottica, che è la massima distanza cui può giungere la luce emessa e dipende dall’intensità della lampada e dalla trasparenza dell’atmosfera; la seconda rappresenta il segno distintivo del faro per renderlo facilmente riconoscibile ed è costituita da una particolare sequenza di impulsi luminosi (luci, splendori e lampi) e di intervalli bui (eclissi) oppure da una speciale colorazione della luce (rossa, verde o gialla). La caratteristica luminosa si ottiene facendo ruotare attorno alla lampada il sistema ottico, montato su cuscinetti a sfere o galleggiante in una vasca di mercurio, oppure uno schermo opaco; a volte, soprattutto nel caso delle lampade ad acetilene, si preferisce variare l’intensità luminosa della sorgente accendendola e spegnendola con le cadenze previste. I fari sono normalmente dotati di sirene o di altri avvisatori acustici, che vengono azionati se vi è nebbia o tempo piovoso e possono essere controllati da un rivelatore automatico elettronico di foschia. Recentemente molti fari (radiofari) sono stati dotati della possibilità di emettere onde hertziane, che possono essere captate dalle navi anche in condizioni proibitive di visibilità e a distanze irraggiungibili con le sorgenti luminose.

Lungo le coste basse sul mare, sulle coste affioranti e sui fondali solidi sommersi si costruiscono generalmente fari a torre, la cui altezza dipende dalla portata geografica che si vuole conseguire. L’azione del vento e delle onde determina in molti casi seri problemi di stabilità e impone di ricorrere a particolari tecniche costruttive (blocchi di pietra incastonati a coda di rondine, calcestruzzo armato, ecc.) e di eseguire continui controlli sullo stato della struttura. Dove non è disponibile un fondo roccioso il faro è generalmente innalzato su massicce fondazioni, costituite da cassoni riempiti di calcestruzzo, e in tal caso si preferisce adottare strutture a traliccio d’acciaio, più leggere di quelle in muratura ed ugualmente resistenti; in mare aperto si costruiscono sovente muri perimetrali frangiflutti. Il più famoso faro italiano è la ‘lanterna’ di Genova, costruita nel 1139 e rifatta, nella sua veste attuale, nel 1543: posta all’imboccatura del porto, è costituita da una torre quadrangolare in muratura alta 120 m in grado di emettere luce bianca a gruppi di due lampi con periodo di 20 secondi e portata di 27 miglia e dotata di un radiofaro marittimo funzionante alla frequenza di 301,1 kHz con portata di 70 miglia.

Le navi-faro sono le discendenti dalla nave-faro ormeggiata sull’estuario del Tamigi nel 1731, vengono attualmente impiegate per servizio in mare aperto (si ricorre anche a pontoni-faro ancorati in punti particolarmente pericolosi, ad esempio per fondali bassi e mobili). Il sistema di illuminazione più impiegato è quello multicatottrico, composto da otto riflettori parabolici, che alloggiano nel fuoco una lampada elettrica a filamento e sono montati su un telaio messo in rotazione da un piccolo motore elettrico: variando la posizione angolare dei riflettori e la velocità di rotazione del telaio è possibile ottenere segnali luminosi lampeggianti. La direzione dei fasci di luce è mantenuta costante anche con mare molto mosso ricorrendo a sospensioni cardaniche bilanciate.