martedì 16 agosto 2016

IL MARINAIO



Il marinaio è chi fa la vita del mare, e quindi chi è imbarcato su qualunque bastimento; più precisamente, chi è capace di dirigere la navigazione di un galleggiante o di coadiuvare efficacemente chi la dirige. Nella marina mercantile italiana, è qualifica professionale del personale di coperta con più di 18 anni d’età e almeno 24 mesi di navigazione; marinaio autorizzato è il titolo professionale di chi, dopo quattro anni di navigazione e dopo aver superato un apposito esame, può legalmente comandare nel Mediterraneo centrale un bastimento fino a 50 t di stazza (piccolo traffico), ovvero una nave da pesca di limitata grandezza e potenza (pesca mediterranea). Nella marina militare italiana, la categoria dei marinai è formata esclusivamente da militari di leva destinati ai servizi non strettamente marinareschi, con varie abilitazioni: autisti, telefonisti, servizio antincendio, servizi logistici.

A Te, o grande  eterno Iddio,
Signore del cielo e dell'abisso,
cui obbediscono i venti e le onde, noi,
uomini di mare e di guerra,Ufficiali e Marinai d'Italia,
da  questa sacra nave armata della Patria leviamo i cuori.
Salva ed esalta, nella Tua fede, o gran Dio, la nostra Nazione.
Dà giusta gloria e potenza alla  nostra bandiera,
comanda che la tempesta ed i flutti servano a lei;
poni sul nemico il terrore di lei;
fa che per sempre la cingano in difesa petti di ferro,
più forti del ferro che cinge questa nave,
a lei per sempre dona vittoria.
Benedici , o Signore, le nostre case lontane, le care genti.
Benedici nella cadente notte il riposo del popolo,
benedici noi che, per esso, vegliamo in armi sul mare.
Benedici!

Autore della "Preghiera del marinaio" fu lo scrittore Antonio Fogazzaro, nato a Vicenza il 25 Marzo 1842. Fogazzaro la scrisse nel 1901, sollecitato dal vescovo di Cremona, Bonomelli, cui stava a cuore lo spirito religioso dei marinai.

Il comandante del “Giuseppe Garibaldi” Capitano di Vascello Cesari Agnelli, colpito dalle parole della preghiera del Fogazzaro, chiese e ottenne nel Marzo di quell’anno, dall'allora ministro della Marina, Ammiraglio Costantino Morin, l’autorizzazione a recitarla in navigazione prima dell’ammaina bandiera, quando l’equipaggio è schierato a poppa. Da allora tale consuetudine si diffuse rapidamente su tutte le navi della flotta, tanto che nel 1909 la “Preghiera Vespertina” era già comunemente conosciuta come “Preghiera del marinaio italiano” e ne era stata resa obbligatoria la lettura a bordo.

La “Preghiera del marinaio” viene attualmente letta, oltre che prima dell’ammaina bandiera in navigazione, anche al termine delle messe a bordo, nelle caserme e negli stabilimenti della marina e alla conclusione delle funzioni religiose celebrate in suffragio di marinai deceduti.



Sulle prime navi il numero di marinai era molto ridotto, ma con lo sviluppo dei transatlantici e in seguito delle navi da crociera il numero dei membri dell'equipaggio è notevolmente cresciuto, ma in realtà la maggior parte è costituita da personale di cabina, alberghiero e di ristorante rispetto al personale di navigazione e di manovra addetto ai servizi di coperta, di macchina e in genere ai servizi tecnici di bordo.

In Italia nella Marina Militare i marinai semplici, detti comuni di seconda classe, compresi i fanti di Marina, sono detti marò (dall'abbreviazione burocratica scritta mar.o per marinaio). Il termine è spesso usato impropriamente dai media per indicare indistintamente anche i graduati di Marina, specie della Brigata marina "San Marco".

Nei secoli più remoti la propulsione delle navi da guerra e da trasporto era spesso fornita dalle vigorose braccia di prigionieri trasformati in schiavi che vivevano tra grandi privazioni al limite della sopravvivenza. La situazione a bordo dei grandi velieri dell’epoca d’oro non era molto migliore: i marinai che sceglievano l’imbarco per vocazione erano davvero pochi e molto spesso le marine ricorrevano all’uso della leva forzata o almeno incentivata con premi di arruolamento. In pratica, soprattutto in tempi di guerra, la ronda reclutava senza troppi complimenti chi trovava al posto sbagliato nel momento sbagliato: taverne, vicoli, prigioni, anche negozi. In pochi minuti la vita di un uomo poteva cambiare radicalmente, poteva esser strappato da famiglia e lavoro. Ed è facile immaginare quali sforzi costasse mantenere la disciplina a bordo, andare per mare era insomma come stare in prigione con in più il rischio di annegare o comunque di ritrovarsi con una gamba o un braccio di meno. Le infrazioni ai durissimi regolamenti erano punite con la frusta, tipicamente il gatto a nove code, oppure con le bacchette, sistema con il quale ogni membro dell’equipaggio assestava un colpo al punito, infine non mancava il giro di chiglia, cioè il passaggio sotto lo scafo da prua a poppa trascinati da una cima. In effetti la punizione, soprattutto quest’ultima, portava spesso alla morte del punito e quindi prima di arrivare a queste conseguenze “dimostrative”, che comunque avrebbero privato l’equipaggio di un effettivo, ci si pensava due volte. L’equipaggio di una nave da battaglia dell’ottocento era di circa ottocentocinquanta persone, compreso gli ufficiali. In tutta la nave la ventilazione era scarsa e mancavano gli impianti idraulici. Il problema igienico era uno dei più gravi anche per l’efficienza della nave, oltre alle condizioni sanitarie, perfino l’Ammiraglio aveva diritto ad un solo bagno alla settimana, c’erano i gravi problemi di alimentazione che solo dopo la metà del settecento si iniziò a risolvere con successo. Ma i comandanti impararono anche che con un buon equipaggio che sentisse suo il risultato in battaglia si navigava meglio. Questa sorta di motivazione si ritrova ad esempio sui clipper inglesi dell’ottocento, sui quali l’equipaggio partecipava alla corsa al record e teneva in modo particolare alla propria nave.

Tanto per fare qualche numero dei 176000 uomini che presero il mare tra il 1774 e il 1780 solo 1243 furono uccisi in azione di guerra: 18451 finirono per malattia, gran parte per scorbuto, e 42000 disertarono. Per fortuna in questo quadro di privazioni qualche piacere era anche concesso. Le donne innanzi tutto, che i marinai incontravano a terra, soprattutto nei grandi porti, e anche a bordo. Durante le soste ogni uomo poteva portare a bordo una donna che era ammessa nelle brande che affollavano lo spazio tra i cannoni. Da qui la definizione “son of a gun”, figlio di un cannone, per definire un padre incerto. Alcune restavano e talvolta oltre a fare il bucato nella stiva andavano persino all’attacco. Poi c’era la razione di grog, rhum allungato, e il tabacco da masticare. Per evitare che troppi si fingessero malati per saltare il turno la razione di rhum era negata agli occupanti dell’infermeria. Gli hobbies erano la costruzione di modellini di navi in osso o legno e non mancava chi suonava il violino. Quello che possedeva un marinaio era davvero poco, e spesso stava tutto raccolto in un fazzoletto. Gli ufficiali avevano la cassa con anche gli strumenti di navigazione. Gli oggetti che vi entravano erano anche coltelli, pipe, scacchi e dama, rasoio. Gli indumenti erano venduti dallo spaccio di bordo e il loro costo trattenuto dalla busta paga.
La bravura del chirurgo variava da una nave all’altra, ma in ogni caso aveva la missione di amputare gli arti “irreparabili”. Una frattura, una scheggia nemica, una ferita troppo difficile mettevano in azione la sega, e un intervento rapido riduceva il pericolo di infezione. Il rhum era l’unico rimedio contro il dolore concesso allo sfortunato, assieme ad un morso di tela che gli impediva di mordersi la lingua gridando. Per il resto gli attrezzi erano affilati coltelli, la sega, molto simile a quella dei falegnami, e la pece bollente che serviva per “cauterizzare” la ferita. La sala operatoria era appena sotto la linea del galleggiamento, poco illuminata da lampade a petrolio ma relativamente più sicura da colpi di cannone in battaglia. I feriti venivano portati a braccia e depositati sul pavimento prima di essere trattati.

Nell'età medievale il marittimo è un libero e rispettabile lavoratore, che non di rado ha capitali propri da impiegare nell'armamento della nave e nel finanziamento di imprese commerciali. Perfino i vogatori, la categoria più umile, è formata da uomini liberi, mentre i galeotti vengono impiegati solo per colmare eventuali vuoti di personale che non si riesce a coprire con l'ingaggio regolare. Il marinaio di professione attende a terra, nelle osterie vicino al porto, l'occasione per un imbarco. In procinto di salpare per una certa impresa commerciale, l'armatore mette in giro la notizia della prossima partenza della sua imbarcazione, la rotta prevista e la durata presunta del viaggio, oltre che naturalmente il numero e la qualifica del personale di cui ha bisogno, nonché l'ammontare dell'ingaggio. Anche i vari mercanti che trasportano le loro merci sulla nave si mettono in cerca di buoni marinai da assoldare, per cui l'equipaggio risulta composto da personale alle dipendenze di diversi individui. La difficoltà di trovare marinai in numero adeguato, a causa dei pericoli e delle incognite del viaggio, fa nascere una particolare figura professionale, quella del "procacciatore di marittimi", che, in cambio di un certo compenso, batte le osterie e i luoghi di ritrovo nella zona del porto, magnificando le prospettive dell'impresa. Il salario fissato è detto marinaricia o marinarezza.

In ogni caso le parti si ritrovano di fronte allo scriba navis, scrivano con il compito di conservare memoria, in appositi registri, di tutto quello che riguarda una certa imbarcazione, fissando sulla carta quanto stabilito a voce. Anche se non si tratta proprio di un notaio, le carte dello scriba navis sono considerate attendibili anche in tribunale, in caso di contestazioni. Lo scrivano annova in due registri uguali, uno da conservare a terra, l'altro da portare in viaggio, i termini del contratto di ingaggio: vengono specificati la data di partenza della nave, lo scopo e la durata del viaggio, le mansioni da espletare, l'ingaggio e l'anticipo in contanti rilasciato. Quest'ultimo è necessario in primo luogo per la sopravvivenza della famiglia del marittimo durante il periodo della sua assenza, ma viene anche impiegato per acquistare piccole quantità di merce che il marinaio rivende poi nel porto di arrivo per arrotondare la paga. Altre volte, se il servizio viene effettuato su una nave da guerra o si pensa di poter avere a che fare con dei pirati, l'ingaggio serve anche per l'acquisto di corazza e armamento difensivo leggero. A bordo le mansioni sono diversificate.
Al gradino più basso stanno i rematori, che svolgono un lavoro veramente duro: il ritmo della voga spesso procura vesciche e abrasioni alle mani, curate dal barbiere-chirurgo sempre presente tra i membri dell'equipaggio.
Tra i marinai non addetti ai remi gli allieri sono addetti alla manovra di cime e gomene per azionare le vele.
I marinai sono aiutati da uomini di fatica chiamati serviatales o famuli.
Ci sono anche dei mozzi a bordo, detti pueri cioè ragazzi, in rapporto di uno ogni sei otto marinai.
Tra il personale più qualificato c'è il timoniere a cui spetta anche la responsabilità della buona preparazione della nave, in particolare lo stivaggio delle merci da cui dipende la stabilità della nave, e il pilotus, l'ufficiale di rotta dalla cui bravura ed esperienza spesso dipende la buona riuscita di un viaggio. L'equipaggio comprende anche artigiani specializzati nelle riparazioni di emergenza allo scafo, come il maestro d'ascia o il carpentiere e il calafato, spesso aiutati da garzoni e apprendisti.
Nelle galere dove si impiegano numerosi rematori esiste la figura del remolar, specializzato nella riparazione e costruzione dei remi.



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