Le origini del nome dell'isola si perdono tra realtà e leggenda. Tra le ipotesi più suggestive c'è quella che fa derivare il nome Procida dal greco "prochetai" cioè giace; infatti se si guarda attentamente la morfologia dell'isola ci si accorge che essa sembra giacere coricata e sdraiata nel mare. Altri ancora fanno derivare il nome da quello di una nutrice di Enea di nome Procida, che quivi fu da lui sepolta.
Recenti ritrovamenti archeologici sulla vicina isola di Vivara (un tempo collegata a Procida) fanno ritenere che l'isola fosse già abitata intorno al XVI - XV secolo a.C., probabilmente da coloni Micenei.
Sicuramente, intorno al secolo VIII a.C. Procida fu abitata da coloni Calcidesi dell'isola di Eubea; a questi subentrarono in seguito i Greci di Cuma, la cui presenza è confermata sia da rilevamenti archeologici che dalla toponomastica di diversi luoghi dell'isola.
Durante la dominazione romana, Procida divenne sede di ville e di insediamenti sparsi sul territorio; sembra comunque che in questa epoca non esistesse un vero e proprio centro abitato: l'isola fu più probabilmente luogo di villeggiatura dei patrizi romani e di coltura della vite. Giovenale, nella terza delle sue Satire, ne parla come di un luogo atto ad un soggiorno solitario e tranquillo.
Dopo la caduta dell'Impero romano d'Occidente, l'isola subì le devastazioni dei Vandali e dei Goti; non cadde invece mai in mano longobarda, rimanendo sempre sotto la giurisdizione del duca bizantino (poi autonomo) di Napoli, nel territorio della Contea di Miseno.
In quest'epoca l'isola cominciava intanto a mutare radicalmente la sua composizione demografica, divenendo luogo di rifugio per le popolazioni in fuga dalle devastazioni dovute all'invasione longobarda prima e, in seguito, alle scorrerie dei pirati saraceni. In particolare, sembra che l'isola abbia accolto le ultime popolazioni in fuga dal porto di Miseno, distrutto dai Saraceni nell'850. Tuttavia, un documento databile tra il 592 e il 602 riguardante un tributo in vino lascia intuire come già in questa epoca esistesse sull'isola un insediamento stabile.
Mutava radicalmente anche l'aspetto dell'isola: al tipico insediamento "diffuso" di epoca romana faceva posto un borgo fortificato tipico dell'età medievale. La popolazione si rifugiò infatti sul promontorio della Terra, naturalmente difeso da pareti a picco sul mare e in seguito più volte fortificato, mutando così il nome prima in Terra Casata e poi in quello odierno di Terra Murata.
Con la conquista normanna del meridione d'Italia, Procida sperimentò anche il dominio feudale; l'isola, con annessa una parte di terraferma (il Monte di Miseno, poi detto Monte di Procida), venne assoggettata alla famiglia di origine salernitana dei Da Procida (che dall'isola presero il nome), che controllarono l'isola per oltre due secoli. Di questa famiglia l'esponente di maggior spicco fu sicuramente Giovanni Da Procida, terzo (III) con questo nome, consigliere di Federico II di Svevia e animatore della rivolta dei Vespri Siciliani.
Durante la guerra del Vespro l'isola fu infatti controllata dalla flotta del re aragonese di Sicilia ben 14 anni, dal 1286 al 1299, pur subendo diversi assedi da parte degli angioini di Napoli, che riuscirono a rientrare a Procida solo quando, dopo la morte di Giovanni da Procida, il suo figlio secondogenito, Tommaso da Procida, passò nel campo angioino.
Nel 1339, comunque, l'ultimo discendente dei Da Procida vendette il feudo (con l'isola d'Ischia) alla famiglia di origine francese dei Cossa, famiglia di ammiragli fedele alla dinastia D'Angiò, allora regnante su Napoli. Dei Cossa, esponente di maggior rilievo fu Baldassarre Cossa, eletto antipapa nel 1410 con il nome (poi ignorato nella storiografia vaticana) di Giovanni XXIII.
In quest'epoca l'economia dell'isola rimaneva sempre prevalentemente legata all'agricoltura, con una lenta crescita delle attività legate alla pesca.
Durante la dominazione di Carlo V a Napoli l'isola fu confiscata all'ultimo Cossa e concessa in feudo alla famiglia dei d'Avalos d'Aquino d'Aragona (1529), fedele alla casa d'Asburgo. Il primo feudatario fu appunto Alfonso d'Avalos, marchese del Vasto e generale di Carlo V, cugino di Fernando Francesco d'Avalos.
Continuavano intanto anche in quest'epoca le scorrerie dei pirati saraceni, accentuate ulteriormente dalla lotta tra gli Ottomani e l'impero spagnolo. Molto documentata e cruenta in particolare fu l'incursione del 1534, ad opera del pirata Khayr al-Din, detto il Barbarossa, conclusasi con devastazioni e con un gran numero di Procidani deportati come schiavi, e che volle poi ripetere l'impresa nel 1544.
Il suo successore, Dragut, fece sì che l'isola fosse nuovamente devastata nel 1548, nel 1552, nel 1558 e nel 1562. Una ulteriore incursione barbaresca è documentata nel 1585.
Testimonianze di questo periodo sono le torri di avvistamento sul mare, diventate in seguito il simbolo dell'isola, una seconda cinta muraria attorno al borgo della Terra Murata e l'inizio della costruzione del Castello D'Avalos (1563), ad opera degli architetti Giovan Battista Cavagna e Benvenuto Tortelli. Un miglioramento delle condizioni di vita nell'isola si ebbe tuttavia solo dopo la battaglia di Lepanto che ridusse di molto le attività della marina ottomana nel Mediterraneo occidentale, permettendo, finalmente, la nascita nell'isola di un'economia legata alla marineria.
Nel XVII secolo l'isola venne occupata dalla flotta francese comandata da Tommaso Francesco di Savoia, sullo sfondo delle vicende legate alla rivolta di Masaniello e della nascita della seguente Repubblica.
Con l'avvento dei Borbone nel Regno di Napoli, nel 1734, si aveva intanto un ulteriore miglioramento delle condizioni socio-economiche dell'isola, dovuto anche all'estinzione della feudalità nel 1744 per opera di Carlo III, che inserì Procida tra i beni allodiali della corona, facendone una sua riserva di caccia.
In questo periodo la marineria procidana si avvia verso il suo periodo di massimo splendore, accostando a questa anche una fiorente attività cantieristica: fino a tutto il secolo successivo, vengono varati nell'isola bastimenti e brigantini che affrontano la navigazione oceanica; verso la metà del XIX secolo circa un terzo di tutti i "legni" di grande cabotaggio del meridione d'Italia proviene da cantieri procidani.
La popolazione ascende fino ad un massimo di circa 16000 persone sul finire del XVIII secolo, ovvero circa una volta e mezza la popolazione attuale.
Nel 1799 Procida prende parte alle sommosse che portano alla proclamazione della Repubblica Napoletana; con il ritorno dei Borbone, pochi mesi dopo, dodici Procidani, tra i più influenti e in vista dell'isola, vengono impiccati per questo nella stessa piazza dove era stato issato l'albero della libertà.
Negli anni successivi (e in particolare nel "decennio francese"), l'isola vede diverse volte la guerra passare sul suo territorio con pesanti scontri e devastazioni, a causa della sua basilare posizione strategica nella guerra sul mare, contesa tra Francesi e Inglesi; le cronache riportano che nel solo 1809 circa 4000 persone abbandonarono l'isola al seguito delle navi inglesi sconfitte al termine della sesta coalizione antifrancese.
Anche per questi motivi, nel 1860 la caduta dei Borbone e l'unificazione italiana vengono accolte favorevolmente dalla popolazione.
Il XX secolo vede la crisi irreversibile della cantieristica procidana, sotto la concorrenza dei grandi agglomerati industriali: l'ultimo grande brigantino procidano viene varato nel 1891.
Nel 1907 inoltre, Procida perde il suo territorio di terraferma, che diventa un comune autonomo denominato Monte di Procida.
Nel 1957 l'isola viene raggiunta dal primo acquedotto sottomarino d'Europa, mentre negli ultimi decenni, la popolazione, fino agli anni trenta decrescente, comincia lentamente a risalire.
L'economia rimane in gran parte legata alla marineria accanto alla crescita, negli ultimi anni, dell'industria turistica.
Procida è di origine vulcanica, e si possono tuttora riconoscere nei suoi tipici golfi a mezzaluna, le tracce degli antichi crateri(le fonti parlano di 5 o 7 crateri); il suolo è costituito da tufi giallastri in profondità e da uno strato di tufo grigio in superficie.
Raggiunge un'altezza massima di 91 mt ed è quindi piuttosto piatta; ma i vivacissimi abitati con le case policrome, la ricca vegetazione entro cui si fonde una tipica architettura mediterranea spontanea, il mare limpido e splendente, e le belle rocce costiere, generano scorci paesaggistici di raro fascino,e ne fanno un'apprezzata meta turistica.
Nella Piazza dei Martiri volgendo le spalle al Nord per inerpicarci nel centro storico isolano attraversiamo la strada detta del "Canale". Questo nome sostituisce nel parlato comune quello ufficiale via Vittorio Emanuele II, poiché la strada molto stretta, prima della creazione della rete fognaria, convogliava le acque provenienti dall'alto.
Percorsi cento metri si arriva di fronte ad un’edicola votiva dedicata alla Madonna, posta all'angolo tra due strade.
A destra dell’edicola votiva, oltre la Chiesa di San Leonardo (fine sec.XVI), la strada conduce al palazzo Montefusco (attuale sede del Collegio dei Traduttori), detto della "Catena" a causa dell'ostacolo posto all'ingresso per scoraggiare i passanti indiscreti ; proseguendo si arriva alla piazza della Repubblica detta "il pozzo" da una antica cisterna d'acqua sorgiva. Questa piazza molto frequentata dai giovani procidani, é il punto d'incontro tra la nuova Via Libertà che conduce al porto e la via Vittorio Emanuele II che continua verso il centro cittadino.
La strada a sinistra dell'edicola votiva prende invece il nome del Principe Umberto. Lungo la salita, sul lato sinistro, s'incontrano, dapprima, un altro accesso all'Istituto tecnico nautico "F. Caracciolo", sede del museo del Mare, visitabile la mattina dei giorni feriali, e poi sulla destra il casale Principe Umberto.
La salita termina in piazza dei Martiri, la piazza teatro delle speranze e della repressione del 1799. Qui, infatti, i rivoluzionari isolani issarono l'albero della Libertà, con i colori rosso-giallo-blu. La rivolta fu però presto soffocata nel sangue dai Borbone e dagli Inglesi, che riconquistarono l'isola prima di Napoli. E proprio nel canale di Procida (il tratto di mare tra Procida e il continente) la flotta inglese dell'ammiraglio Nelson affrontò con successo le navi della Repubblica Partenopea, comandate dall'ammiraglio Francesco Caracciolo.
A ricordare la furia reazionaria, nella piazza, c'é una stele commemorativa dei gentiluomini, dei propretari e dei sacerdoti giustiziati per aver dato il proprio contributo al governo repubblicano.
Al centro della piazza sorge il monumento dedicato ad Antonio Scialoja (1896), insigne oratore, politico, letterato, senatore del Regno d'Italia e ministro della Pubblica Istruzione.
Sulla sinistra, verso l'interno, le stradine strette raggiungono la zona detta "Vigna", per l'antica coltivazione a vigneto, dove si trova un casale chiamato "Vascello", dalla sua forma, costituito da edifici a tre livelli intorno ad una corte chiusa e scoperta.
In fondo alla piazza, la Chiesa della Madonna delle Grazie(XVII sec.), elevata a cavalcione della roccia alla sommità della Corricella, guarda il panorama che va da Oriente ad Occidente, dalla Punta dei Monaci alla Punta Pizzaco. La costruzione della cupola della chiesa fu a lungo impedita dalla nobile famiglia De Iorio, proprietaria dell’omonimo palazzo situato alle spalle della chiesa rispetto al mare, poiché ostruiva la vista panoramica verso il mare, godibile dai balconi del loro palazzo.
Superata la Chiesa di S.M. delle Grazie, si lascia sul lato sinistro il largo Castellodetto"Schianata" (poiché nel XVI sec. il terreno fu spianato), e si percorre la salita Castello che conduce ai fabbricati già destinati a Casa di reclusione (1830-1988), dominati dalla mole del Mulino, costruito nel 1764 per la molitura dei grani importati durante la carestia.
Dove la salita forma un gomito, è possibile ammirare il più caratteristico paesaggio di Procida: le case sovrapposte e variopinte di Marina Corricella, un suggestivo anfiteatro aperto sul mare; poco oltre, verso oriente, si delinea sull'azzurro del cielo il convento domenicano di S.Margherita nuova (1586-1956; in ricostruzione). Per realizzare il convento e la chiesa su quella roccia scoscesa, fu necessario elevare un complesso di piloni sormontati da archi, che formano la parte più caratteristica della Punta dei Monaci.
Si continua a salire, e sotto l'arco, a destra, è visibile la piccola cappella della Madonna del Carmine; sulle pareti ci sono alcune croci nere che segnalano la sepoltura di detenuti politici vittime di un massacro (1849); proseguendo si giunge alla Piazza d'Armi, chiusa da un lato da alte abitazioni, che un tempo servivano al popolo per opporre resistenza ai nemici invasori.
In fondo c'é il Palazzo Reale, detto anche "Castello", fatto erigere nel 1563 dal Cardinale d'Aragona Innico d'Avalos (Abate di San Michele).Tale costruzione fu per due secoli e mezzo adibita a residenza reale per poi divenire Bagno Penale nei primi decenni del 1800. Al complesso che abbraccia parte della Terra Murata(cosiddetta per le fortificazioni medioevali),a strapiombo sul mare, è stata successivamente aggiunta la costruzione del carcere moderno che si presenta sulla sinistra della Piazza d'Armi. Dal 1988 tutto il carcere è stato completamente chiuso.
Dalla Piazza d'Armi nel giorno del Venerdì Santo partono, per la Processione, i "Misteri", le caratteristiche rappresentazioni in legno e carta delle Sacre Scritture, preparate dai giovani procidani in occasione del giorno della Passione di Cristo.
Sulla destra della piazza, prima del castello, inizia la salita di Via S. Michele(dedicata al Santo protettore dell'isola), che reca ancora sui muri le tracce dell'antica "porta di mezz'omo" costruita nel XVI sec. per consentire l'accesso al borgo di Terra Murata propriamente detto. L'unica strada che menava al borgo, prima del XVI secolo,era la Via Tabaia che partiva dalla Marina del Santo Cattolico e attraverso la Vigna conduceva alla porta della terra (distrutta nel 1563 in seguito alla costruzione del castello aragonese). Dove oggi è la Piazza d'Armi c'erano scavati dei fossati che servivano a contrastare il nemico, per impedirgli di arrivare al centro antico dell'isola, una fortezza che si era sviluppata sulla collina più alta (m. 91 s/m), in evidente posizione difensiva. Quando fu costruita la porta di mezz'omo fu allargata l'antica via dei "fossi", e si costruì la salita San Michele.
Terminata la breve salita, ci si trova di fronte al Conservatorio delle orfanefondato nel 1656 per accogliere le vittime della peste.
Un punto panoramico é il belvedere di Via Borgo(sulla sinistra) che si apre a mozzafiato sul Golfo di Napoli. Da notare sulla piazzola una casa, esempio tipico di architettura locale.
Ma la costruzione più importante di Terra Murata è senza dubbio l'Abbazia di San Michele (XVI sec.), in origine convento Benedettino(VII-VIII sec.), che fu nel corso della sua storia più volte saccheggiata, distrutta e ricostruita a causa delle incursioni dei Saraceni(nome con cui i napoletani indicavano gli islamici fin dai tempi degli Arabi, ma in questo periodo i razziatori erano gli ottomani).Una di queste incursioni fu evitata grazie all’apparizione miracolosa di S. Michele(Santo patrono dell’isola) davanti alle truppe dei barbari che, per lo spavento e per la fretta di fuggire, gettarono in mare una pesante ancora, custodita tuttora nell’abbazia.
L'Abbazia custodisce numerose opere d'arte, come una tela raffigurante San Michele(opera della scuola di Luca Giordano) al centro di un suggestivo soffitto a cassettoni.
Davanti all'ingresso principale della chiesa si apre la piazza Guarracino, l'antico punto di riunione del popolo.
In questo borgo, mite e sereno, abitato da tranquilla gente, le straducce sono come un budello, tutto un andirivieni di passaggi, di corridoi, di vie coperte; un aprirsi dappertutto di porte, di scale, di finestre e di pozzi pieni d'acqua. Il fascino di quest’eccezionale località è probabilmente aumentato dalla sensazione di abbandono e di quiete che si respira.
Dalla Marina Corricella al Pozzo Vecchio: da Piazza dei Martiri s'imbocca la ripida discesa di Via San Rocco, che si insinua tra vecchie case di svariate forme, ammucchiate e addossate le une sulle altre. Fin dai tempi più remoti, questa contrada è chiamata anche "Callìa" che, dall'origine greca della parola, vuol dire bella contrada; difatti la strada costeggia una delle più belle coste procidane. In fondo, da un belvedere di questa grande curva, si può ammirare da una suggestiva posizione il borgo marinaio della Corricella, dove le case dei pescatori aggrappate sull'alta e ripida costa formano un caratteristico agglomerato, comune ad altri luoghi del Mediterraneo, ma particolare per l'utilizzo dei colori pastello giallo, rosa, azzurro, verde, bianco, utili ai naviganti a riconoscere la propria casa dal mare.
Il nome Corricella deriva dal greco "coros callos"( bella contrada), la medesima etimologia di Callìa, che ne costituisce la parte superiore.
Al borgo della Corricella possiamo accedere solo attraverso delle scalinate. La più frequentata è la "Gradinata del Pennino", quella centrale di fronte alla chiesetta di San Rocco(XV sec.), nel punto più basso dell'omonima strada. La Gradinata attraversa una fitta schiera di case in passaggi stretti ed angusti e conduce sino al molo.Questa gradinata, come il resto della Corricella, ha fatto da sfondo a tante produzioni cinematografiche. E tra le case della Corricella possiamo distinguere alcuni tra gli alberghi e ristoranti più esclusivi dell'isola.
Tornati su alla Via San Rocco, proseguendo per la contrada di Callìa si giunge alla via intitolata a Marcello Scotti, un sacerdote eruditissimo vittima della reazione borbonica del 1799. In questa strada si allineano alcuni palazzi con bellissimi giardini, che i notabili si costruirono in stile seicentesco nella parte più bella dell’insenatura della "Chiaia". Tra i palazzi,sulla sinistra, vi è una chiesa dedicata a San Tommaso d'Aquino(XVIII sec.) retta dalla Confraternita dell' Immacolata dei Turchini(cosiddetti per la mozzetta di seta). La chiesa possiede una pregevole scultura lignea di Cristo, eseguita nel 1728 dallo scultore napoletano Carmine Lantriceno.In questa scultura Nostro Signore è rappresentato nel momento della deposizione dalla Croce, supino su una semplice tavola, con la testa appoggiata su un cuscino.
Questa straordinaria opera chiude ilcorteo funebre del Venerdì Santo (la tradizionale processione dei "Misteri"), e il suo passaggio è sempre accompagnato da sentite lacrime di commozione dei fedeli isolani.
Alla fine della strada Marcello Scotti, il palazzo Emanuele ( o Scotti, sec.XIX; detto "Mamozio" dalla denominazione popolare del mascherone che orna la rosta del portone) determina un piccolo bivio.
Sulla destra s’imbocca Via Vittorio Emanuele II che va verso Piazza della Repubblica. Lungo questa strada, sulla destra, si erge l'edificio della Scuola elementare che nella pesante veste architettonica forma una nota discordante per le semplici costruzioni dell'isola. Nella piazzetta antistante all'edificio vi è un monumento dedicato ai Caduti della Patria della prima guerra mondiale (1925).
Se invece al bivio si prosegue dritto, si perviene ad una piazzetta, sulla cui sinistra è la chiesa di San Giacomo (1656), oggi sconsacrata e in ristrutturazione. Più avanti vi è la chiesetta di San Vincenzo (1571) attuale sede dell'Arciconfraternita dei Bianchi (cosiddetti per la mozzetta di seta bianca). Dopo questa chiesa sulla sinistra c'è la via dei Bagni che conduce alla spiaggia della "Chiaia", e più avanti i Giardini di Elsa, immersi in fantastici frutteti (dove Elsa Morante scrisse "L'isola di Arturo"), e attuale sede del parco letterario intitolato all’omonima scrittrice.
La strada Vittorio Emanuele II prosegue tra semplici case e sontuosi palazzi d'epoca (degno di nota è il palazzo Manzo, del 1685, sulla sinistra, il più antico datato dell'isola), fino a giungere ad un'altra chiesa, quella di San Antonio Abate (primi sec.XVII). Questa chiesa sorge all'inizio di Via Cavour ed ha alle spalle la contrada "Le corte", così detta dai cortili che la circondano. In questa contrada vi è la torre dei de Jorio, del sec. XVII, per un certo tempo utilizzata come carcere.
Di fronte alla chiesa di San Giacomo, per la Via SS.Annunziata, si passa dinanzi all'omonimo casale (a sinistra, in fondo al quale vi è l'Ospedale civico "Albano Francescano"); più avanti a sinistra si svolta nel viale Madonna della Libera che conduce alla chiesa della SS.Annunziata, ricostruita nel 1600 su un convento di Suore Benedettine.
Riprendendo la Via SS.Annunziata, ci si inoltra nella località "Starza" (nome derivato dalla grande estensione di terreno che l'Abbazia possedeva in questa zona), una delle contrade più fertili dell'isola.
Una delle stradine sulla destra (la Via Faro), conduce alla punta Pioppeto dove sorgono alcuni piccoli alberghi solitari e tranquilli nelle campagne che degradano fino al mare.Sulla punta, dal 1849, è acceso il Faro, preceduto da un belvedere con panorama sul canale di Procida.
Ritornando all’inizio di Via Faro, si percorre la Via Regina Elena, lasciandosi sulla destra le vie Rinaldi, S.Ianno e Ottimo, che, coltivate a vigneti, costituiscono la contrada del "Cottimo" (cosiddetta per il particolare rapporto di lavoro che legava i contadini ai proprietari delle terre).
La strada prosegue, col nome di Via C. Battisti, e sempre sulla destra, in località "Rotonda", s'incontra una torre cinquecentesca (la meglio conservata delle tre presenti nell'isola). Questa torre fu costruita nel XVI sec. per ordine del viceré di Napoli, Don Pietro di Toledo, per la difesa delle popolazioni contro le incursioni dei corsari. A Procida ne furono costruite altre due. Una doveva elevarsi alla fine di Via Tabaia, l'antica strada che collegava la Marina di Santo Cattolico con la Terra Murata in località "Lingua". La seconda trovasi sulla Via Giovanni da Procida, a destra, dopo la chiesa di S.Antonio, e certamente in tempi posteriori ha dovuto subire una notevole trasformazione ad uso abitazione. Le tre torri costituiscono lo stemma del comune di Procida.
Dalla torre della Rotonda una strada che attraversa vigneti e frutteti porta sulla collina del Cottimo. Giunti nella parte più elevata, si apre davanti agli occhi uno spettacolo straordinario: l'insenatura del "Pozzo Vecchio", racchiusa dalla "Punta della Serra" dietro la quale, la spiaggia di "Ciraccio", lunga un chilometro e mezzo e termina in una lingua di terra che unisce l'isola con la collina di Santa Margherita Vecchia.
Riscendendo dal Cottimo si può facilmente raggiungere la spiaggia del Pozzo Vecchio, sovrastata dal piccolo cimitero dell'isola.
Proseguendo per la strada principale, che dopo il cimitero prende il nome di Via Flavio Gioia, si ritorna nel centro cittadino, sul tratto della Via Vittorio Emanuele II che collega la chiesa di S. Antonio Abate a Piazza Olmo(da un annoso albero che qui sorgeva nei tempi passati).
Da Piazza Olmo, attraverso Via Pizzàco (sulla sinistra) è possibile arrivare ad una discesa a mare, caratterizzata da oltre 186 scalini che conducono alla spiaggia della Chiaia.
Proseguendo dritto si arriva invece alla Via Mons. Dom. Scotto Pagliara che ci porta dinanzi alla chiesa di S. Antonio di Padova fondata nel 1635 da Scipione e Giacomo Cacciuttolo, il cui stemma figura sulla facciata. Da questo punto è possibile imboccare la nuova Via IV Novembre che conduce alla punta di Pizzàco, dove sulla via Raia c'è la pretesa casa di Graziella -l'eroina del romanzo di A. de Lamartine- dove abitò lo storico d'arte Cesare Brandi.
Dallo spiazzo della chiesa è possibile anche imboccare la Via Lavadera che raggiunge il quadrivio delle Centane; qui si svolta a sinistra e superato il maestoso palazzo Guarracino (già casino di caccia dei Borboni), si perviene al belvedere delle Centane, con veduta sull'insenatura del Carbogno, nella parte suddoccidentale dell'isola.
La strada a destra della chiesa di Sant’Antonio prende invece il nome di Giovanni da Procida, un noto cittadino salernitano, protagonista dei Vespri Siciliani, che agli albori del XIII sec. era feudatario dell'isola.
Lungo la strada Giovanni da Procida troviamo sulla sinistra la cosiddetta Torre degli Infernali, presumibile castello del feudatario dell'isola, caratterizzata da una fuga di archi alla sommità del muro di cinta; di fronte, sulla destra, attraverso la via M. Morgantini in località "Campo Inglese" (dove bivaccarono i soldati inglesi durante l'occupazione del 1799) è possibile arrivare alla spiaggia di Ciraccio. In questa zona si trovano i resti di una delle tre torri dell'isola e quivi, nel 1950, sono state rinvenute tombe di età preromana.
Si ritorna sulla Via Giovanni da Procida e si prosegue raggiungendo la zone delle "parùle", terreni già paludosi irrigati con l'impiego di caratteristiche norie, che estraevano l'acqua da pozzi artesiani.
La via principale conduce alla "Chiaiolella" (spiaggiolella, piccola spiaggia), l'ultima marina dell'isola, oggi attrezzata a porto turistico, dove si trovano alcuni degli alberghi e ristoranti più frequentati dell'isola. Tra le caratteristiche case a schiera si erge il Santuario di San Giuseppe (XIX sec.).
Oltre la Chiaiolella, percorrendo Via Simone Schiano si giunge alla bellissima villa Chiaiozza, fatta costruire nell'immediato ultimo dopoguerra dal console inglese M. Wentworty Gurney in stile neoclassico.
La strada reca, poi, alla località "Socciaro", una verde e panoramica zona che guarda ad est il golfo di Napoli e ad Ovest l'isola d'Ischia.
Dalla Chiaiolella è possibile raggiungere anche la collina di Santa Margherita, dove si trovano i resti del cenobio di S. Margherita vecchia. Questa collina è collegata con un ponte all'isola di Vivara.
L’isola di Vivara, la più piccola delle isole partenopee, è ciò che resta di un cratere circolare, uno dei tanti della composizione vulcanica dei Campi Flegrei.
A guardarla bene, ciò appare con molta evidenza: l’isola di Vivara non è altro che la porzione occidentale dell’originario cratere vulcanico delimitato dalla collinetta di Santa Margherita, dall’istmo in parte sommerso che collega Vivara a Procida e da Vivara stessa. Questa particolare conca invasa dal mare forma l’attuale Golfo di Genito. Vivara ha la forma di una mezzaluna, una superficie di 0,38 Kilometri quadrati, un perimetro di 3 Km ed un’altezza massima di 109(s.l.m.), grazie alla quale è stata scelta, in diverse epoche, dapprima come torre di segnalazione mediante l’accensione di fuochi, e successivamente come territorio di passaggio dell’acquedotto campano che, dalla terra ferma, provvede all’approvvigionamento idrico di Ischia.
L’isolotto di Vivara è dal 18 Luglio 1940 di proprietà dell’Ospedale Civico Albano Francescano, grazie al lascito testamentario del dr. Domenico Scotto Lachianca, che nominò l’Ospedale Civico di Procida, erede universale dei propri beni. Nel 1972, a causa della sua scarsa redditività economica, Vivara era sul punto di essere venduta ad una società di investimento che voleva trasformarla in un villaggio turistico con porticciolo, funivia e pista di eliporto. Le proteste delle associazioni naturalistiche, WWF in testa, e l’intervento della Regione Campania evitarono tale pericolo. Anzi nello stesso anno, la Regione Campania decise di prendere in fitto Vivara e nel 1974, con decreto del Presidente della Giunta Regionale, le ha riconosciuto lo status di oasi di protezione naturale, di inestimabile valore, dove prosperano flora e fauna.
Nel 1977 fu stipulata una convenzione tra la Regione Campania e l’unione Trifoglio, un’associazione naturalistica presieduta dal prof. Giorgio Punzo, che fino al 1993, ha svolto sull’isolotto, gratuitamente, opera di salvaguardia e di educazione per i ragazzi.
Per accogliere degnamente la Principessa Maria Josè (moglie di Re Umberto di Savoia), che desiderava passeggiare per Vivara, fu costruita (negli anni ’30) l’attuale scala di accesso all’isolotto, che prima era un canalone.
Il ponte invece fu costruito nel 1957 dall’acquedotto campano, che tuttora ne è proprietario, per portare l’acqua dalla terraferma ad Ischia. All’interno del ponte, infatti, passano le tubazioni che continuano poi sotto la scala che porta a Vivara e proseguono verso Ischia per vie sottomarine, grazie al principio dei vasi comunicanti che mantengono costante il flusso.
Fino al 1999, prima cioè che i cancelli di Vivara fossero chiusi a causa dell’inagibilità del ponte, era possibile partecipare a visite guidate gratuite.
Il 15 luglio 2001, Vivara è entrata ufficialmente nel guinness book dei primati grazie al ponte tibetano più lungo del mondo, costruito tra il promontorio di S Margherita e l’isolotto di Vivara, appunto. L’evento è stato organizzato dall’associazione Sportchallengers, presieduta da Carlo Ferrari.
Il ponte, lungo 362 metri, è stato costruito dal 2 al 10 Luglio con 40 tubi innocenti, 40 morsetti, 34 picchetti di un metro e mezzo, 2500 metri di corda, 500 m di cavi d’acciaio, 1 trivella e 1 verricello.
Le sue coste, in alcune zone basse e sabbiose, altrove a picco sul mare, danno vita a diverse baie e promontori che offrono riparo alla piccola navigazione e hanno permesso la nascita di ben tre porticcioli sui versanti settentrionale, orientale e meridionale dell'isola. Gran parte del suo litorale viene tutelata dall'area marina protetta Regno di Nettuno.
L'isola si trova attualmente in un periodo di forti trasformazioni nella sua struttura economica. La marineria, sebbene in forte calo, rimane ancora uno dei maggiori settori di occupazione, con persone di tutte le fasce di età impiegate come ufficiali di coperta o di macchine su navi mercantili delle maggiori compagnie marittime di tutto il mondo, continuatori di una tradizione secolare. Tuttavia negli ultimi anni, la sempre maggiore automazione presente in ambito meccanico, unita ad un sempre maggiore utilizzo di lavoratori di paesi emergenti nell'ambito del trasporto marittimo, ha fatto sì che questa fonte di reddito perdesse importanza relativa nell'isola.
Accanto alla marineria, negli ultimi anni si è cercato di favorire lo sviluppo dell'industria turistica, sebbene in questo settore i risultati, pure incoraggianti, siano stati inferiori alle attese, soprattutto se guardati sullo sfondo di vicine mete turistiche quali Ischia, Capri o Sorrento. Ciò sicuramente non per la mancanza di attrattive (in particolare storiche o naturalistiche), ma più probabilmente per l'assenza di una solida tradizione imprenditoriale in tal senso, nonché per la forte carenza di strutture ricettive.
Non prevista, si è dunque affiancata al turismo e alla marineria la nascita di un ceto impiegatizio che si manifesta soprattutto attraverso fenomeni di pendolarismo verso l'isola d'Ischia o la vicina terraferma, fenomeno assolutamente nuovo nella storia economica dell'isola.
Quote marginali della popolazione attiva si dedicano alla pesca commerciale, con una discreta flotta peschereccia, mentre quote ancora inferiori sono dedite alla cantieristica o all'agricoltura.
Fra l'alto medioevo e il XVIII secolo si sviluppa, nell'isola di Procida un particolare esempio di architettura generalmente definita spontanea ma più correttamente dal carattere popolare, legata cioè alla comunità del luogo, che si sviluppa secondo codici costruttivi ben codificati.
Tra gli elementi più caratteristici ci sono sicuramente l'arco e la scala rampante (o a dorso d'asino). L'arco ha funzione di ingresso (o meglio, di passaggio tra la strada e l'abitazione), mentre ai piani superiori delimita un particolare terrazzo, chiamato localmente vèfio (da un antico tedesco waif), vero simbolo dell'abitazione tipica dell'isola. La scala rampante, appoggiata sull'arco stesso, risulta la soluzione più comune per raggiungere i piani superiori.
La volte sono sempre a vela o, più frequentemente nelle zone rurali, a botte.
Altro elemento caratteristico è rappresentato dal colore: le costruzioni sono generalmente dipinte con un certo gruppo di tonalità pastello ben definite, assortite in maniera che due case vicine molto difficilmente abbiano colori simili, con il risultato di una policromia caratteristica. Secondo la tradizione, tale particolarità deriva dal desiderio dei pescatori di voler riconoscere la propria casa anche lontano dal mare. Tale ipotesi tuttavia non ha mai avuto alcuna conferma.
L'architettura popolare si radica sul territorio con uno schema urbanistico particolare ed originale che, riprendendo modelli di sviluppo dell'epoca (dall'impianto svevo di Terra Murata al sistema delle grancìe rurali di matrice benedettina fino all'edilizia di strada settecentesca) li miscela in una sintesi legata all'ambiente naturale locale ed alla cultura materiale.