Costruito a Varazze nel 1882, il veliero era famoso per le sue linee eleganti e la sua solidità. Aveva una portata lorda di 1600 tonnellate e 17 uomini d’equipaggio, oltre metà erano camoglini e rivieraschi, il restante di Grottammare.
Il brigantino a palo ITALIA, al comando del cap. Rolando Perasso di Chiavari, partì da Greenock (Scozia) il 3.8.1892 con un carico di carbone diretto alle Indie, via Capo di Buona Speranza. Navigò sfruttando gli Alisei e giunse senza problemi nelle acque sub-equatoriali. I marinai aprivano regolarmente i boccaporti di mezzana e trinchetto per arieggiare le stive colme di carbone che era stato, peraltro, imbarcato molto asciutto. La mattina del 28 settembre, con grande sorpresa, il nostromo percepì un debole odore di gas provenire dalla stiva di prua. Dopo tre giorni d’incessanti controlli all’interno delle stive, il segnale ricomparve insieme a qualche nuvoletta di fumo sempre più denso, ma le murate e i gavoni non manifestavano alcun aumento di temperatura. Il comandante fece sarchiare il carico nella stiva sospetta nel tentativo di scoprirne il focolaio per poterlo estinguere. Ma il fuoco era troppo basso, esteso per chiglia e la crescente temperatura impediva ormai qualsiasi avvicinamento. Il 2 ottobre il brigantino si trovava a 160 miglia a Nord di Tristan e, spinto da un buon vento di grecale (NE), navigava a vele gonfie con la speranza di raggiungere un approdo. Ma la situazione andò via via peggiorando. L’aumento del calore e la presenza diffusa del gas investivano ormai tutta la coperta. Verso le 23.00 ci fu una detonazione a centro nave che provocò l’espulsione delle boccaporte (chiusura superiore delle stive) di maestra e mezzana. La navigazione già critica si trasformò in vera emergenza. Cap. Perasso radunò l’equipaggio sul ponte e fece imbrogliare (ridurre) le vele di maestra e i velacci. Il cielo era completamente coperto e la navigazione procedeva pertanto stimata. Dalle coffe degli alberi le vedette esploravano le acque circostanti, ma un’insistente foschia limitava la visibilità a meno di un miglio. L’incontro con numerosi banchi di alghe tropicali indicava che Tristan era vicina, e ciò attenuò l’ansia dell’equipaggio. La speranza aggrappata alle sartie del brigantino era l’unica forza a sostenere quel pugno di marinai pienamente consapevoli d’essere in grave ed imminente pericolo. La notte fu lunga da passare.
Verso le 09.30 dell’indomani, l’esperto capitan Perasso riuscì a compiere una “osservazione astronomica”. Il veliero si trovava 8 leghe (40 Km circa) a est dell’isola ed ebbe molta fortuna. Subito dopo il vento girò aumentando d’intensità. In breve tempo si sollevarono onde alte e creste che spazzavano la coperta con energia viva e fragorosa, mentre continui piovaschi impedivano ancora di scorgere la costa. Qualcuno dell’equipaggio, ormai stremato dalla fatica e dall’insonnia, verso le 15.00 indicò una linea bianca di prua. Erano i frangenti che disegnavano l’impatto delle onde contro un muro di lava schiacciato da un cappello di nubi grigie e tempestose. Era finalmente la costa di Tristan da Cunha, l’àncora di salvezza che, tuttavia, incuteva terrore con le sue rocce a picco battute dal grecale e striate da luccicanti cascate d’acqua. L’ITALIA veniva da sopravvento, e il suo Comandante calcolò che se naufragio dovesse essere, non poteva compiersi in quel girone infernale, dove tutti avrebbero perso la vita sfracellandosi contro la roccia. Decise allora di aggirare l’isola alla ricerca di un ridosso per spiaggiare, evitando così di colare a picco. Ma c’era il tempo per salvarsi? Da marinaio di razza quale era, Rolando Perasso evitò i numerosi scogli affioranti e, non potendo gettare l’ancora a causa del calore ormai rovente di tutta la zona prodiera, scelse il punto di sottovento che gli sembrava più idoneo, e lì andò ad incagliare, a 60 metri dalla spiaggia, sul lato meridionale dell’isola. La pioggia, l’oscurità e il vento a raffiche ostacolarono lo sbarco dei naufraghi ormai al limite delle forze. Riuscirono infine ad abbandonare il veliero con le lance di salvataggio, ma quando il vento calò dovettero recuperare provviste e tutto quanto sarebbe stato utile per una sosta lunga e ricca d’incognite. L’isola era ancora abitata? Nessuno di loro lo sapeva con certezza. Passarono la prima notte sotto alcuni pezzi di vele strappate, mangiarono il cibo salvato e pregarono ringraziando la Provvidenza per lo scampato pericolo.
Nella nottata furono circondati da una miriade di pinguini che covavano intorno a loro, ma quell’insolita e calorosa compagnia fu improvvisamente scossa da un forte boato. L’ITALIA aveva subito un’altra esplosione. L’equipaggio attese l’alba con ansia e poi scivolò guardingo verso il brigantino ormai devastato. Recuperarono ancora attrezzi, legname da ardere, tela e tutto quanto avrebbe potuto prolungare la loro sopravvivenza ai piedi di quella nera montagna che pareva intenzionata a ricacciarli in mare dopo averli salvati. I naufraghi abbandonarono l’ITALIA con il dolore e la tristezza di chi era andato per mare sapendo che la nave ha un’anima.
Ad accogliere i naufraghi furono gli abitanti dell'isola, un variegato gruppo d’individui quasi tutti naufraghi o discendenti di naufraghi di baleniere e cacciatori di foche.
Oggi, sull'isola di Tristan da Cunha permangono ancora molte “tracce” di quel naufragio: alcuni reperti del brigantino ITALIA raccolti in un piccolo Museo, il Camogli Hospital costruito nel 1971, la strana parlata anglo-levantina, due cognomi tipici di Camogli, e naturalmente il DNA dei discendenti che furono tanti, forse per mancanza di altri svaghi... Queste testimonianze continuano a mantenere vivo il ricordo di quel pugno di marinai liguri incagliati in quello sperduto angolo dell’Oceano Atlantico meridionale.
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